1961-2021 : Ci saranno delle analogie ?

Eccoci a un altro articolo , il secondo , del 2021 :

1961-2021 : Ci saranno delle analogie ?

In questo a dire poco “curioso” periodo Storico , nel quale il NEW NORMAL , diventa normalità obbligatoria  , caratterizzato da parole che non si sentivano dalla Seconda Guerra Mondiale come “coprifuoco” , per citarne una delle tante   è assolutamente indispensabile fare un’analisi e un confronto,  tra la situazione che stiamo vivendo dal 25 gennaio 2020  e quanto è accaduto nel 1961 , che per l’appunto è stato l’ultimo Anno del Bufalo D’Oro per il Calendario Cinese prima di quello che che avrà inizio dal  12 Febbraio 2021 ,  come detto nell’articolo :

2 0 2 1 : L’anno del Bufalo (ma d’ORO)


Abbiamo elencato tutti i principali avvenimenti del 1961 

e non si può dire che sia  stato proprio

un anno molto tranquillo anzi.


E’  stato l’anno del 1mo uomo nello Spazio (URSS) , dello sbarco nella Baia dei Porci (Cuba) fallito dagli USA , dell’inizio della costruzione del Muro di Berlino in Germania , della Guerra Fredda USA-URSS , della Guerra in Vietnam (USA)  , di rapporti molto tesi tra CINA-URSS e CINA-USA , di moti popolari di indipendenza e sovranisti in Nazioni del Nord Africa ,allora  ancora colonie, spesso  repressi nel sangue , di un preciso disegno anti-comunista da parte dell’ONU al quale moltissimi Governi hanno partecipato , della difficoltà di Governare in Italia da parte della DC di Aldo Moro che non avendo piu’ i numeri per governare da sola pensava di aprirsi con un’alleanza ai Socialisti di Nenni (ma chiedendo sempre permesso agli USA dell’allora presidente J.F. Kennedy ) , dell’entrata nella CEE di Gran  Bretagna , Danimarca , (curioso che giusto 60 anni dopo la Gran Bretagna ne esca vero ?)  di moltissimi scioperi e scontri violenti tra la classe lavoratrice e gli organi di sicurezza per rivendicazioni salariali riduzioni di orario o pari retribuzione tra uomini e donne , della depenalizzazione del reato di adulterio delle donne  e di moltissimi attentati in Trentino Alto Adige a Tralicci a Postazioni dell’Esercito sia in Italia che dal lato Austriaco .


MA NON SOLO


Il 1961 è stato anche l’ultimo degli anni della Grande Carestia Cinese durante la quale, dal 1959 al 1961 morirono di fame in CINA un numero stimato che oscilla tra 15 e 55 milioni di persone .La grande carestia cinese è ampiamente considerata come la carestia più mortale e uno dei più grandi disastri provocati dall’uomo nella storia umana. I principali fattori che contribuirono alla carestia furono le politiche del Grande Balzo in avanti (1958-1962) e la comune popolare“. Lo stesso Partito Comunista Cinese (PCC) dichiarò ufficialmente nel giugno 1981 che la carestia era principalmente dovuta a una combinazione di cattive politiche economiche e la coincidenza di disastri naturali che causarono una diffusa carestia.) e dellaCampagna anti-destra“.Oltre ai morti per fame e alluvioni, il peso della carestia interessò senz’altro la ridotta natalità degli anni successivi.


A questo punto non resta che attendere il 12 Febbraio 2021 quando inizierà l’Anno del Bufalo d’Oro e finirà (finalmente) l’anno del Topo iniziato appunto il 25 Gennaio 2020 , quando d’incanto e dal nulla è saltato fuori il COVID19 proprio dalla CINA.

A voler pensare male 

il 2020 , pare sempre di piu‘ l’anno in cui sia stata messa a punto una “prova generale”,  per applicare provvedimenti prima locali e poi su larga scala , di chiara limitazione delle libertà personali,  (come sono  il lock down , il coprifuoco alle 22.00 , la chiusura obbligatoria della propria attività o lo svolgimento con orari ridotti o parziale di quest’ultima , l’ impedimento alla spostamento non motivato e con certificazione a volte anche ponendo addirittura un numero massimo di uscite giornaliere di casa nello stesso Comune di Residenza ).

Un modo per abituare la gente a questi provvedimenti ?

  In vista poi di cosa?

COME MAI IL PREZZO DEI  CEREALI SALE ?

COSA STANNO ANTICIPANDO NEI PREZZI ?

COSA HANNO IN MENTE ?

Chiudiamo l’articolo citando la dichiarazione del 14 Marzo 1961 di Tullio Vecchietti al Congresso del Partito Socialista a Milano-

14 marzo 1961: Milano, congresso del Psi. Nenni, confermato segretario, esclude la possibilità di rapporti organici con il Pci. Nel corso del congresso, l’esponente della sinistra socialista Tullio Vecchietti, nel suo intervento critica la politica di alleanza con la Dc, affermando: Se le cose fossero realmente come si dice, al nostro partito si aprirebbero soltanto due strade: prepararsi alla rivoluzione o ad assolvere un ruolo subalterno alla Dc, per salvare almeno la democrazia. E poiché la rivoluzione giustamente non la si vuole, né ci sono le condizioni per farla, al Psi resterebbe in pratica aperta solo la strada di Saragat”. E conclude: “Fortunatamente le cose non stanno così”.

Ad Maiora !

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1961

Avvenimenti Principali accaduti durante l’anno


3 gennaio: rottura delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba

6 gennaio: Mosca, Nikita Kruschev dichiara pubblicamente che l’Urss s’impegna a sostenere tutti i movimenti di indipendenza nazionale

14 marzo: Milano, congresso del Psi. Nenni, confermato segretario, esclude la possibilità di rapporti organici con il Pci. Nel corso del congresso, l’esponente della sinistra socialista Tullio Vecchietti, nel suo intervento critica la politica di alleanza con la Dc, affermando: Se le cose fossero realmente come si dice, al nostro partito si aprirebbero soltanto due strade: prepararsi alla rivoluzione o ad assolvere un ruolo subalterno alla Dc, per salvare almeno la democrazia. E poiché la rivoluzione giustamente non la si vuole, né ci sono le condizioni per farla, al Psi resterebbe in pratica aperta solo la strada di Saragat”. E conclude: “Fortunatamente le cose non stanno così”.

17 gennaio: nel Katanga è catturato e torturato Patrice Lumumba, leader dell’indipendenza del Congo. Diventerà il simbolo dei movimenti di liberazione e per l’indipendenza dei Paesi africani. Lumumba sarà assassinato su ordine dei servizi di sicurezza americani che lo ritenevano un “comunista” agli ordini di Mosca. Il 13 febbraio Moise Ciombe comunicherà alla stampa che Patrice Lumumba è fuggito il giorno prima, ed è stato ucciso dagli uomini di una tribù locale.

19 gennaio: Washington, la direttiva Nsc 6014/1, nel ribadire il contenuto della precedente, esclude che l’Italia possa intraprendere azioni militari non concordate con gli altri alleati della Nato nel caso che il Pci conquistasse il potere con mezzi illegali.

22 gennaio: Washington, il capo della Cia, Allen Dulles, illustra ai membri del governo americano il progetto per l’invasione di Cuba con lo sbarco degli anticastristi nella Baia dei Porci.

9 – 12 febbraio: Casablanca, si riunisce il Comitato preparatorio della Conferenza internazionale dei sindacati agricoli dei paesi del Mediterraneo
 
 
21 febbraio: Aldo Moro scrive su Il Popolo, organo della Dc, che la funzione del governo è di delimitare e valorizzare in un momento difficile, in un momento di rischio, un’aerea di sicurezza democratica, di porre questo strumento a servizio della legalità e normalità democratica, della difesa della libertà e delle istituzioni democratiche”.
 
Washington, James King jr., esperto di politica internazionale dell’Institute for defense analyses (Dia), invia ad Arthur Schlesinger un memorandum nel quale scrive: “La vittoria elettorale di Kennedy ha entusiasmato i progressisti della sinistra italiana e dei partiti politici di centro nonché i loro sostenitori negli ambienti dell’élite intellettuale. Alla notizia della vittoria di Kennedy, un centinaio di costoro, tra esponenti di partito, di università, giornalisti e industriali, hanno organizzato un banchetto per celebrare la vittoria.
 
14 marzo: Milano, congresso del Psi. Nenni, confermato segretario, esclude la possibilità di rapporti organici con il Pci. Nel corso del congresso, l’esponente della sinistra socialista Tullio Vecchietti, nel suo intervento critica la politica di alleanza con la Dc, affermando: Se le cose fossero realmente come si dice, al nostro partito si aprirebbero soltanto due strade: prepararsi alla rivoluzione o ad assolvere un ruolo subalterno alla Dc, per salvare almeno la democrazia. E poiché la rivoluzione giustamente non la si vuole, né ci sono le condizioni per farla, al Psi resterebbe in pratica aperta solo la strada di Saragat”. E conclude: “Fortunatamente le cose non stanno così”.

Washington, James King jr., esperto di politica internazionale dell’Institute for defense analyses (Dia), invia ad Arthur Schlesinger un memorandum nel quale scrive: “La vittoria elettorale di Kennedy ha entusiasmato i progressisti della sinistra italiana e dei partiti politici di centro nonché i loro sostenitori negli ambienti dell’élite intellettuale. Alla notizia della vittoria di Kennedy, un centinaio di costoro, tra esponenti di partito, di università, giornalisti e industriali, hanno organizzato un banchetto per celebrare la vittoria.

20 aprile: Cuba, fuoriusciti cubani, aiutati dagli Stati Uniti, cercano di rovesciare Castro, sbarcando sull’isola nella Baia dei Porci, ma il tentativo fallisce.
 
1° maggio: Cuba, Fidel Castro proclama la prima Repubblica democratica e socialista d’America.

Aldo Moro: “Ha premesso che il presidente Kennedy gli ha fatto una buona impressione ‘dal punto di vista filosofico’, ma che non ha ancora compreso in cosa la sua politica estera sia cambiata rispetto a quella dell’amministrazione precedente (…) Gli ho domandato cosa pensasse dell’apertura a sinistra. Mi ha risposto con un ragionamento che non avevo mai sentito da parte degli interlocutori precedenti. Egli ha fatto questa analisi: la Dc non è in grado di controllare da sola i governi locali (regioni, province, comuni); per farlo ha bisogno della collaborazione degli altri partiti; gli altri partiti a loro volta non sono in grado di collaborare tra di loro; la Dc può controllare il meridione appoggiandosi ai monarchici ed ai fascisti, cosa che Moro non ritiene disdicevole se dettata da necessità; la Dc però non riuscirebbe a controllare l’Italia del nord appoggiandosi alle destre; la conclusione è che se la Dc vuole continuare a governare sia a livello nazionale sia a livello locale, ha bisogno di un alleato indicato da Moro per raggiungere tale fine, è il partito socialista”.

11 maggio: Washington, memorandum n. 52 della National security agency, con il quale il presidente Kennedy autorizza l’invio di 100 uomini di rinforzo al centro di consulenza operativa degli Usa a Saigon.

3 – 4 giugno: Vienna, s’incontrano John F.Kennedy e Nikita Kruscev.

5 giugno: Alan Shepard, a bordo della capsula Mercuri, è il primo astronauta statunitense a volare nello spazio.
 
13 giugno: visita negli Stati Uniti del presidente della Repubblica Segni e del primo ministro Fanfani. Il presidente Kennedy manifesta l’intenzione di non opporsi alla possibile costituzione di un governo di centro sinistra.
 
Evian, falliscono le trattative tra Francia e Algeria. Motivo principale di disaccordo è l’utilizzazione del petrolio algerino
 
2 luglio: Washington, Arthur Schlesinger fornisce al presidente Kennedy dati esattamente contrari a quelli elencati dall’ambasciatore a Roma Reinhardt al Dipartimento di stato sul Psi e la sua situazione finanziaria: (…) Nenni è così disperatamente bisognoso di fondi che potrebbe trovarsi costretto ad abbandonare sia il controllo del quotidiano socialista“Avanti” sia la stessa segreteria amministrativa del partito. Il che segnerebbe la sua fine”. Ed elenca i punti per i quali, a suo avviso, gli Stati Uniti devono sostenere il Psi: “Punto primo: per gli Stati Uniti è meglio andare incontro ora al Psi piuttosto che attendere che sia il Psi a venire da noi: più lo coinvolgeremo sin dall’inizio infatti e più lo porteremo sotto il nostro controllo, avvicinandolo ad una politica filo-occidentale. Punto secondo: sostenendo il Psi, gli Stati Uniti, per la prima volta in 15 anni, riuscirebbero a stabilire tutta una serie di contatti con la classe operaia, intensificando le polemiche tra Partito comunista e Partito socialista”.
 
L’Ambasciata americana a Roma, informata del tentativo di far invitare Pietro Nenni in Usa dal governo americano, segnala a Washington: “Raccomandiamo di cancellare la proposta di una visita in Usa di Pietro Nenni, almeno sino a quando i socialisti non abbiano cambiato politica”.
 
5 luglio: Biserta, violenti scontri tra esercito francese e tunisino dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.
 
3 agosto: in una nota riservata del ministero dell’Interno si parla della nascita dell’Unione Mediterranea Anticomunista (UMAC), fondata da elementi dell’OAS fra i quali Philippe de Messey, Renè Menigaud, Paul Chevallet e Jean Maurice De Morquet, con la confluenza di: “elementi portoghesi di estrema destra del partito di Salazar i quali agiscono apparentemente per conto proprio, ma con l’appoggio sottobanco del governo; elementi di estrema destra della Falange spagnola, in analoga posizione con il proprio governo; elementi neonazisti che fanno capo a Skorzeny; elementi italiani del MSI e fuori dal MSI che avrebbero avuto l’incarico di costruire un apposito centro di coordinamento ed hanno un recapito in Lussemburgo all’81 Rue d’Anvers. A tale indirizzo abita Generali Enzo Romano (funzionario dell’UNESCO e già residente in Spagna ndr). Fra gli italiani coinvolti la stessa nota segnala Franco Petronio, Franco Pucci, Guido Giannettini, Gaetano Lo Verde, Fausto Della Bona, Giuseppe Pingitore e Giorgio Torchia.
 

Il presidente della repubblica Antonio Segni, accompagnato da Amintore Fanfani, è in visita ufficiale in Urss.

7 agosto: vola nello spazio il secondo astronauta russo, German Titov compie 17 orbite attorno alla terra.

 
9 agosto: la Gran Bretagna presenta ufficialmente richiesta di adesione alla Cee. Il giorno successivo anche la Danimarca presenta analoga richiesta.
 
 
12 agosto: inizia la costruzione del Muro di Berlino.

Atene, Andrea Papandreu rivela l’esistenza del Piano Pericles da attuarsi “contro il pericolo di sovversione comunista”. Il piano è stato redatto in una riunione fra il generale Natsinas, direttore del Kyp, il tenente colonnello Giorgio Papadopulos e i rappresentanti della gendarmeria, dell’esercito e della polizia.

 
13 agosto: Washington, il generale Maxwell Taylor invia un rapporto al presidente Kennedy nel quale elenca le ragioni, secondo lo Stato maggiore delle Forze Armate, dell’insuccesso dell’invasione di Cuba nella sua veste di presidente del Cuban study group, voluto proprio da Kennedy per esaminare in dettaglio come neutralizzazione il pericolo cubano.
 
23 agosto: Bologna, convegno sulla politica dell’ammasso del grano ed in particolare sul decreto del 9 agosto che riconosce alla sola Federconsorzi il diritto all’ammasso. E’ organizzato da CGIL, Alleanza contadini e dall’Associazione nazionale cooperative agricole.
 
30 agosto: riprendono gli esprimenti nucleari in Unione Sovietica.
 
8 settembre: Francia, un commando dell’Oas compie (e fallisce) un attentato contro il generale Charles De Gualle a Pont sur Seine
 
18 settembre: muore, in un sospetto incidente aereo in Congo, il segretario generale dell’Onu Dag Hammerskjold.

Roma, un documento del Viminale, “Riassunto delle attività dei francesi antigaullisti in Italia”, si afferma che “il principale elemento dell’Oas in Italia è Filippo De Massey che (…) tiene i contatti con elementi della destra missina ed è l’unico francese che sia comparso al convegno di aggiornamento del raggruppamento nazionale giovanile del Msi tenutosi recentemente a Rimini (…) che è in contatto con Enzo Generali, Guido Giannettini e Mario Pucci”.

 
23 settembre: accordo separato tra CISL e UIL, Confagricoltura e Coldiretti per un nuovo meccanismo di scala mobile per i lavoratori agricoli. La CGIL è esclusa per aver dichiarato uno sciopero di 48 ore nell’imminenza dell’incontro.
 
24 settembre: tra Perugia e Assisi si svolge la prima Marcia della Pace, ideata dal filosofo Aldo Capitini.
 
3 ottobre: Washington, Fred Nano, funzionario della Cia, scrive a Dana B. Durand, funzionario della stessa Central intelligence agency, in merito alla creazione di un’organizzazione mondiale anticomunista: “Se i russi attaccano occorre contrattaccare. Il Partito comunista sovietico ha appena pubblicato il programma comunista. È venuto il momento di rispondere con un manifesto del mondo libero. Non c’è tempo da perdere. Bisogna convocare un congresso al più presto”.
 
5 ottobre: Washington, Carl Kaysen, membro del Consiglio di sicurezza nazionale, interviene sul progetto per la creazione di un’organizzazione mondiale anticomunista, suggerendo di includervi il Partito democratico americano, “anche per facilitare il problema dei finanziamenti”.

Barbizon, nei pressi di Parigi, inizia una riunione che si protrarrà per tre giorni a cui partecipano i membri di Interdoc (Documentazione Internazionale), centro internazionale europeo per la lotta al comunismo. Secondo una nota informativa del Sifar per l’Italia partecipano Lugi Gedda, Giorgio Filippi e Ugo Sciascia dei Comitati Civici, i giornalisti Luigi D’Amato e Gerolamo Bassoni, l’imprenditore di Bologna Luigi Deserti. Secondo il Sifar gli intervenuti decidono di unire nell’organizzazione “tutti gli sforzi e le iniziative per la lotta contro il comunismo, in collegamento e coordinamento sul piano internazionale”.

 
9 ottobre: Roma, una nota del Viminale rivela che la Umac (Unione mediterranea anticomunista) ha minacciato di estendere gli attentati a quei paesi che forniscono supporto al Pcf e suggerisce, da parte della divisione Affari riservati, una serie di proposte tendenti ad impedire l’attività del Pci a favore dei comunisti francesi.
 
17 ottobre: Parigi, repressa nel sangue una manifestazione di cittadini d’origine algerina a sostegno dell’indipendenza dell’Algeria.
(…) Una delle sensazioni più forti è proprio quella della percezione di silenzio che avviluppa il giorno del massacro di Parigi del ’61. Si tratta della più grande mattanza consumatasi nella Francia metropolitana dal 1945 in poi. Io non lo sapevo prima di 5 giorni fa. Non sono l’unico, grazie anche ai miei colocataries J. e C., mi hanno detto che in Francia pochi sanno cosa è accaduto quel giorno. Per provare a scrivere e presentare un po’ di questa vicenda sto leggendo un libro “La Battaile de Paris” di Jean Luc Einaudi, presentatomi come il migliore libro di ricostruzione storica, ho visto il film “Nuit noir” di Alain Tasma (France, 2004) ed ho letto vari articoli online.
Ho cercato di vedere se il libro è disponibile in qualche biblioteca italiana ma credo di no (Trento e Vicenza non sembra), forse non l’hanno neanche tradotto; del film invece ho trovato in italiano una breve recensione, ma non so se è stato doppiato o è reperibile in Italia.
Una breve sintesi dei fatti: in Francia nel ’61 la crisi della guerra d’Algeria scuoteva il governo di De Gaulle, nello stesso periodo avvenivano massacri e torture sistematici in Algeria mentre si avviavano i primi contatti per la negozazione tra la Francia e FLN dell’indipendenza algerina.
A Parigi ci sono stati diversi attentati conto poliziotti che organizzavano rafles (termine per indicare brutali retate in stile di quelle contro gli ebrei durante il regime di Vichy) selvagge contro i nordafricani, maltrattati e che subivano un pesante razzismo.
Nello stesso tempo si è attivata un’organizzazione di esterma destra armata, l’OAS (Organisation Armée Sècrete) apertamente ostile ad ogni forma di negoziato sull’Algeria, che è arrivata a fare un attentato a De Gaulle, un tentato colpo di stato e diversi omicidi. Questa formazione nazionalista (l’Algeria fa parte della Francia, è Francia all’epoca) è apertamente razzista e conta su un forte appoggio tra le forze armate e quelle di polizia.
In questo clima estremamente teso alcuni flics, certi dell’impunità, compiono dei sequestri e uccisioni di Algerini. Nei mesi di settembre e ottobre 1961 i casi di cadaveri massacrati sconoscuiti ritrovati nella Senna o nei boschi vicino Parigi aumenta in maniera esponenziale.
La situazione è esplosiva e il prefetto di Parigi Maurice Papon, prefetto di Lille e collaboratore dei nazisti durante la seconda guerra mondiale, ordina il 5 ottobre il coprifuoco per tutti gli Algerini. E’ solo l’ultimo di atti razzisti e criminali contro la popolazione Algerina.
L’ Fln, profondamente radicato nel territorio, (un’organizzazione militare che esigeva il pagamento di contributi da tutti gli Algerini in Francia) per dimostrare la propria forza e il proprio seguito in un momento cruciale dei negoziati lancia una manifestazione di tutti gli Algerini (tutti nel senso che chi non andava era considerato un disertore, sebbene la gran parte fosse d’accordo con loro) in centro a Parigi contro il coprifuoco. Una manifestazione imponente e pacifica per mostrare la tenacia della lotta per l’indipendenza e contro il colonialismo Francese.
Per il governo Francese la manifestazione era un atto di guerra di un gruppo terroristico sul suolo della capitale della Francia metropolitana. Viene data carta bianca al prefetto Papon per reprimere la manifestazione che deve essere impedita.
Quella sera oltre 15.000 Algerini vengono arrestati in rastrellamenti su tutta Parigi e portati in centri di detenzione che diventano macellerie. Laddove si forma un abbozzo di corteo la polizia apre il fuoco su manifestanti disarmati e spacca teste con i suoi manici di piccone lunghi oltre 1 metro. I morti sono immediatamente moltissimi. In centro a Parigi vicino a Ponte Saint Michel, nel quartiere dove vivono centinaia di Algerini si forma un corteo che viene attaccato dai flics.
La scena, descritta da testimoni, è raccappriciante: sotto le finestre della Prefettura di Parigi, gli Algerini vengono massacrati, decine di corpi di morti o moribondi vengono lanciati nella Senna dal Ponte, i rimanenti vengono portati nella corte della Prefettura e picchiati ancora e ancora (alcuni dicono di 50 morti solo in quel luogo). Nei centri di concentramento le botte vanno avanti per oltre 2 giorni senza la presenza di occhi indiscreti, poi ci sono le espulsioni di massa in Algeria.
Decine e decine di Algerini “sono scomparsi”, cadaveri riaffiorano a decine dalla Senna nei giorni successivi.
La polizia comunica alla stampa di essere stata attaccata da persone armate e che si è difesa causando 2 morti (poi diventati 3) e diversi feriti. La stampa salvo rarissime eccezzioni (la rivista di Sartre e Testimonianza Cristiana) ci crede, su quella giornata cade il silenzio e l’oblio.
Che, sebbene l’attuale sindaco di Parigi abbia apposto una piccola targa sul ponte S. Michel, sembra durare ancora oggi. La cifra di morti ufficiale è ancora quella di 3 (gli storici realisti la collocano tra 200 e 300), nessuno è stato condannato per i fatti
(…)”  (http://umbvrei.blogspot.it/2015/11/17-ottobre-1961-il-massacro-di-parigi.html?m=1).
 
17 ottobre:Mosca, 22° Congresso del Partito comunista sovietico accentua il processo di destalinizzazione. Nikita Kruschev attacca ancora la figura e l’opera di Stalin, e la salma del dittatore viene rimossa dal Mausoleo della Piazza Rossa. Il congresso fa emergere il dissidio russo-cinese.
 
18 ottobre: Washington, il segretario di stato americano Dean Rusk invia un dispaccio all’Ambasciata americana a Roma: “Siamo sbalorditi dai discorsi di Riccardo Lombardi in materia di politica estera soprattutto dopo le garanzie offerteci dai seguaci di Nenni. Lombardi sta pubblicamente affermando esattamente l’opposto di quanto il Psi dovrebbe sostenere in questi tempi. Chiede di riconoscere la Cina comunista, domanda il ritiro delle basi americane dall’Italia, chiama a combattere contro il capitalismo, l’ imperialismo. Sarebbe questo il partito con cui il governo Usa dovrebbe trattare? Come è possibile che gli autonomisti abbiano concesso all’Avanti di pubblicare in prima pagina le affermazioni di Lombardi? Non solo, ma l’editoriale dell’Avanti premette che Lombardi ha espresso in termini chiari e precisi la posizione del Partito socialista italiano (…) E’ urgente avvisare i nostri canali nelle file degli autonomisti che se le parole di Lombardi continueranno ad avvalersi del loro tacito assenso allora dovremo interpretarle come la voce ufficiale del Psi”.

19 ottobre: contattati per esprimere il loro parere sul progetto presentato da Adolph Sturmthal sulla creazione di un organismo mondiale anticomunista, fra gli altri: “Erich Hollenhauer, presidente del Partito socialdemocratico tedesco; Giuseppe Saragat, segretario generale del Partito socialdemocratico italiano: Ugo La Malfa, leader del Partito repubblicano italiano; Hugh Gaitskell, leader del Partito laburista inglese e Antonhy Crosland, deputato al Parlamento britannico”. Tutti, ad eccezione di Gaitskell, ritengono il progetto “altamente desiderabile”.

 
30 ottobre: Washington, Alexander Dallin, collaboratore della divisione sovietica della Cia, scrive a Dana B. Durand, funzionaria della stessa Cia, sulla creazione di un’organizzazione mondiale anticomunista : “Ottima la proposta di combattere su vasta scala l’offensiva comunista; mi chiedo però se è utile che un tale organismo nasca direttamente negli Usa o se forse non sarebbe più astuto aiutarlo a formarsi autonomamente”.

Novembre: Roma, convegno internazionale sulla Guerra rivoluzionaria dei Soviet. Si tratta del 2° congresso internazionale sulla minaccia comunista nel mondo, che fa seguito ad precedente incontro svoltosi a Parigi l’anno precedente ed è stato preparato in alcune riunioni svoltesi in ambito NATO organizzate da Su zanne Labin. Secondo alcune voci – peraltro mai confermate – la riunione romana sarebbe stata organizzata materialmente dal leader ordinovisti Clemente Graziani. Tra i partecipanti: Ivan Matteo Lombardo, Giano Accame, Mario Tedeschi, Adriano Magi Braschi, Gianna Preda.

 
7 novembre: Washington, Henry Kissinger, docente a Harvard e consulente del governo americano, si inserisce nel dibattito sulla creazione di un organismo mondiale anticomunista . “Mi sembra che l’idea rivesta un interesse eccezionale. Per la Germania suggerirei di contattare un industriale illuminato, che per il suo potere e la sua influenza potrebbe tra l’altro servire ai propositi della nuova frontiera”. A piè di lettera aggiunge quindi a mano il nome dell’industriale: Otto Wolff.
 
8 novembre: Roma, il colonnello Giovanni Allavena dal Sifar invia a tutti i Centri di controspionaggio la seguente nota: “Nel quadro dell’azione diretta a controllare ed eventualmente reprimere l’attività antigollista in Italia, i cui agenti vanno per lo più identificati in elementi aderenti alla Oas, pregasi esperire i necessari accertamenti per il rintraccio delle sottonotate persone, attuando quindi nei loro confronti cauta vigilanza e segnalando tempestivamente qualsiasi emergenza. Cittadini italiani: Enzo Generali, Francesco Petronio, Fausto Della Bona, Pier Francesco Pingitore, Guido Giannettini, Mario Pucci, Orlando Zoli”.

Washington, il segretario di Stato americano, Dean Rusk, invia un telegramma di istruzioni all’Ambasciata americana nel quale conferma l’appoggio alla politica di centrosinistra e al sostegno del Psi al governo, “purché esso sia ottenuto senza alcun compromesso con il Psi in materia di politica estera”.

Washington, il ministro della Difesa, Robert McNamara, invia un memorandum al presidente Kennedy sulla politica in Vietnam, nel quale afferma: “Il Comando di Stato maggiore generale, Mr. Gilpatric (sottosegretario alla Difesa) ed io abbiamo raggiunto le seguenti conclusioni: l’eventuale caduta del Vietnam del Sud porterebbe a una immediata espansione del potere comunista, o a un completo soggiogamento al comunismo in tutti i paesi del sud-est asiatico e in Indonesia. Le conseguenze tragiche su scala mondiale, e in particolare in Oriente, sarebbero estremamente drammatiche (…) siamo propensi a raccomandare che gli Stati uniti d’America si impegnino verso il chiaro obiettivo di impedire la capitolazione del Vietnam del Sud al comunismo e che si impegnino a raggiungere l’obiettivo, se necessario, con un’azione militare”.

 
21 novembre: Roma, nel corso di una riunione del Consiglio dei ministri, Mario Scelba e Guido Gonella attaccano Enzo Biagi, direttore del telegiornale perché, secondo loro, dà poco spazio alle notizie ufficiali, mentre Tribuna politica e Studio Uno sono accusati di “aver introdotto Togliatti e le ballerine nel cuore delle famiglie italiane”.

Washington, in un memorandum per Mc George Bundy vengono elencati i successi conseguiti dagli americani contro la guerriglia in Grecia, Malesia, Filippine. Le esperienze fatte provano che “ognuna di esse dimostra il nesso tra tattiche militari e riforme socio-economiche da applicare per condurre con successo operazioni di guerriglia. E ognuna di esse evidenzia che non c’è miglior antidoto nel combattere la guerriglia di una leadership forte sia politicamente che militarmente”.

22 novembre: Washington, nel Memorandum III della Nsa, il presidente Kennedy approva il potenziamento delle forze d’appoggio americane in Vietnam e ne autorizza l’impiego in combattimento se fatto oggetto di attacchi nemici nell’esecuzione dei loro compiti.

Roma, la Corte Costituzionale ribadisce la validità dell’articolo 589 del codice penale che punisce il solo adulterio della moglie.

Roma, dopo otto mesi di trattative, è firmato l’accordo di parità salariale uomo-donna nel settore metalmeccanico.

 
4 novembre: New York, il Consiglio di sicurezza dell’Onu autorizza l’uso della forza per impedire la secessione in Congo ed eliminare la presenza dei mercenari in Katanga.

27 novembre: Roma, il capo della polizia, Angelo Vicari, invia alle Prefetture di 15 città italiane definite “centri nevralgici”, la circolare nr.442/7665 che pianifica ulteriormente le disposizioni già impartite con la circolare del 19 maggio 1961 sull’attuazione del piano E.s. (Emergenza speciale) per fronteggiare una situazione di sommossa.

28 novembre: la Corte costituzionale conferma la legittimità dell’art.589 del Codice penale che punisce soltanto l’adulterio commesso dalla moglie.

 
12 dicembre: Austria e Svezia presentano richiesta di adesione alla Cee.
 

MANIFESTAZIONI E SCONTRI


 
Rivendicazioni salariali ,contratti ,scioperi e scontri con le forze dell’Ordine.
 
14 – 15 febbraio: sciopero generale di 48 ore dei lavoratori siderurgici dei gruppi privati. Chiedono l’estensione dei miglioramenti contrattuali già ottenuti dai lavoratori delle imprese pubbliche.

15 febbraio: sciopero nazionale di 48 ore dei lavoratori petroliferi dell’ENI per miglioramenti salariali.

20 febbraio: Roma, sindacati e Confederazione generale del commercio firmano un accordo sulla parità retributiva per uomini e donne.
 
2 marzo: Monfalcone, la polizia carica con violenza i lavoratori dei CRDA (Cantieri navali) in sciopero.
 
22 marzo: Cagliari, la polizia interviene con estrema brutalità contro un corteo di lavoratori che protestano per i bassi salari.
 
Marzo – aprile: Ravenna, primi scioperi di categoria. I calzaturieri di Fusignano entrano in agitazione per il rinnovo del contratto. Lo sciopero, conclusosi positivamente, dura ininterrottamente per 33 giorni e costa 50 giorni di carcere preventivo a Maria Bassi, Costante Manzoni, Achille Alberani e altri sindacalisti della Camera del Lavoro ravennate.
 
21 aprile: Milano, la polizia aggredisce le lavoratrici della Borletti in sciopero. Trenta feriti
 
6 giugno: Firenze, la polizia sgombera l’Università occupata dagli studenti.
Milano, la polizia carica brutalmente gli operai della Breda in sciopero.
 
29 maggio: la Federbraccianti proclama tre giorni di sciopero.
 
30 maggio: Genova, la polizia carica i lavoratori che manifestano davanti alla Prefettura per richiedere aumenti salariali.
 
5 giugno: Milano, la polizia carica brutalmente gli operai della Breda in sciopero.
 
13 luglio: Roma, firmato il contratto degli edili. Prevede aumenti medi del 10 per cento e l’orario medio annuale di 48 ore settimanali.

14 luglio: sciopero nazionale unitario dei ferrovieri, dopo che il ministro dei trasporti aveva rimesso in discussione i benefici salariali già concordati.

2 agosto: Roma, firmato l’accordo interconfederale per il riassetto zonale dei salari. Le zone sono ridotte a sette, con aumenti salariali nelle province del centro sud dal 5 all’8 per cento. L’accordo comporta uno spostamento di reddito dagli imprenditori verso i lavoratori, dell’entità di 150 miliardi annui, di cui i due terzi interessano le regioni centro meridionali.

Firmato il contratto nazionale dei lavoratori zuccherieri. Ridotto l’orario di un’ora e mezza, aumenti salariali dell’otto per cento e istituzione del premio intercampagna.

1 – 2 dicembre: sciopero unitario di 48 ore dei lavoratori tessili dopo la rottura delle trattative per il rinnovo del contratto.

13 dicembre: firmato il contratto dei calzaturieri che, tra l’altro, fissa a 45 ore settimanali l’orario di lavoro


1961

Grande carestia cinese


Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
 

La grande carestia cinese (三年大饑荒T, 三年大饥荒S, Sānnián dà jīhuāngP; “tre anni di carestia”) è stato un periodo nella storia della Repubblica popolare cinese (RPC) caratterizzato da una carestia diffusa tra gli anni 1959 e 1961.[1][2][3][4][5] Alcuni studiosi includevano anche gli anni 1958 o 1962.[4][5][6][7][8] La grande carestia cinese è ampiamente considerata come la carestia più mortale e uno dei più grandi disastri provocati dall’uomo nella storia umana, con un numero stimato di morti che oscilla tra 15 e 55 milioni.[2][3][4][5][9][10][11][12] I principali fattori che contribuirono alla carestia furono le politiche del Grande Balzo in avanti (1958-1962) e le “comune popolare“.[2][3][4][5][13][14] Dopo il lancio di “Riforme e apertura (改革開放 / 改革开放)”, il Partito Comunista Cinese (PCC) dichiarò ufficialmente nel giugno 1981 che la carestia era principalmente dovuta agli errori del Grande Balzo in avanti e della “Campagna anti-destra“, in oltre ad alcuni disastri naturali e alla “crisi sino-sovietica“.[1][15]La Grande carestia cinese (三年大饑荒T, 三年大饥荒S, Sānnián dà jīhuāngP), si riferiscono al periodo della storia della Repubblica popolare cinese tra il 1959 e il 1961, nei quali una combinazione di cattive politiche economiche e la coincidenza di disastri naturali causò una diffusa carestia. Il nome ufficiale:[1][15]

Gravità della carestia

 
Tasso di natalità e tasso di mortalità in Cina

Oltre ai morti per fame e alluvioni, il peso della carestia interessò senz’altro la ridotta natalità degli anni successivi. Le stime ufficiali della catastrofe indicano 15 milioni di morti per fame su un totale di circa 40 milioni di morti. Molti analisti tendono ad aumentare il numero delle vittime anche oltre i 20 milioni, ma non è possibile esserne certi, sia per l’inaccuratezza dei dati disponibili sia per la mancanza di un accurato censimento delle popolazioni della Cina rurale.

  • Un gruppo di ricerca della “Accademia cinese delle scienze” ha concluso nel 1989 che almeno 15 milioni di persone sono morte di malnutrizione.[16]
  • Li Chengrui (李成瑞), ex ministro del Istituto nazionale di statistica della Cina, ha stimato 22 milioni di morti (1998).[17][18] La sua stima si basava sulla stima (27 milioni di morti[7]) del demografo americano Ansley J. Coale, e sulla stima (17 milioni di morti) di Jiang Zhenghua (蒋正华), che era l’ex vicepresidente del “Comitato permanente del Assemblea nazionale del popolo“.[17][19]
  • Judith Banister, direttrice di Global Demographics presso il Conference Board, ha stimato 30 milioni di “morti in eccesso” dal 1958 al 1961.[2][20]
  • Yang Jisheng (杨继绳), giornalista senior dell’Agenzia Nuova Cina, ha concluso che ci sono stati 36 milioni di morti a causa della fame.[4][14]
  • Liao Gailong (廖盖隆), ex vicedirettore dell’Unità di ricerca storica del Partito comunista cinese (PCC), ha riferito di 40 milioni di morti “innaturali” a causa della carestia.[16][21]
  • Chen Yizi (陈一谘), ex alto funzionario cinese e massimo consigliere dell’ex segretario generale del PCC Zhao Ziyang, ha concluso che 43 milioni di persone sono morte a causa della carestia.[10][22]
  • Frank Dikötter, professore all’Università di Hong Kong, ha stimato che almeno 45 milioni di persone sono morte di fame.[8][23] Dikötter ha affermato che almeno 2,5 milioni di vittime sono state picchiate o torturate a morte (pari al 6% -8% dei decessi totali).[24][25]
  • Yu Xiguang (余习广), storico cinese indipendente ed ex istruttore della “Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese”, ha stimato che 55 milioni di persone siano morte a causa della carestia.[10][12][26] La sua conclusione era basata su una ricerca di archivio di due decenni.[10]

Cause

Grande Balzo in avanti

Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Comune popolare.
 
Mensa di una “comune popolare“. Lo slogan sul muro dice “Mangia gratis, lavora duro”.

Fino ai primi anni ottanta il governo cinese affermava, cosa evidenziata dal nome “Tre anni di disastri naturali”, che la carestia fosse stata in massima parte dovuta a una serie di sfortunate cause naturali alle quali si erano aggiunti alcuni errori di pianificazione. Al di fuori del paese, tuttavia, i ricercatori hanno sempre additato le fondamentali riforme istituzionali e politiche della visione di Mao Zedong come il fattore che ha ingigantito l’effetto di avverse condizioni climatiche. Già nel primo piano quinquennale, di ispirazione sovietica, si vedeva la volontà di privilegiare l’industria pesante a scapito dell’agricoltura, tradizionale punto di forza dell’economia cinese.

Pur essendo stato predisposto un secondo piano quinquennale, esso perse importanza di fronte alla visione politica del grande balzo in avanti (19581960), nel quale venne avviata la collettivizzazione delle terre ed incoraggiato ogni sforzo per la produzione di materiali industriali come l’acciaio. Vennero realizzati altiforni nei villaggi gestiti da personale assolutamente incompetente nella materia, la sottrazione di manodopera per la loro realizzazione e gestione comportò un numero notevolmente basso di persone che lavorava la terra, la conseguenza furono dei raccolti molto inferiori alla media[27]. Il Grande balzo in avanti è oggi visto in Cina e all’estero come un grande disastro economico.

Pianificazione e tecniche agricole

Una serie di errori, come lo sforzo profuso in progetti di irrigazione grandiosi quanto non supportati da tecnici competenti[28][29]; il credito dato a teorie agricole, oggi screditate, dei biologi sovietici Trofim Lysenko e Teventy Maltsev, che portò a piantare le sementi troppo vicine o troppo in profondità[30]; la propaganda ad ogni costo favorevole alla collettivizzazione e la scarsità di informazioni sulla crisi in atto[31].

Campagna di eliminazione dei quattro flagelli

Inoltre, nella “Campagna di eliminazione dei quattro flagelli“, i cittadini erano chiamati a distruggere i passeri e altri uccelli selvatici che mangiavano i semi del raccolto, al fine di proteggere i raccolti. Questa campagna è fallita e ha provocato un aumento della popolazione di insetti mangiatori di raccolti, che ha avuto un impatto negativo sui raccolti di produzione.[32]

Disastri naturali

Il premier Zhou Enlai (al centro davanti) ha visitato il “Ponte Luokou” durante l’alluvione del fiume Giallo del 1958.

Nel 1958 ci fu una notevole inondazione del fiume Giallo che colpì parte della provincia di Henan e della provincia di Shandong.[33][34][35][36] Nel luglio 1958, l’inondazione del fiume Giallo colpì 741.000 persone in 1708 villaggi e inondò oltre 3,04 milioni di “mu” (oltre mezzo milione di acri) di campi coltivati.[35] Il governo ha successivamente dichiarato una “vittoria sull’alluvione” dopo aver inviato una squadra di soccorso di oltre 2 milioni di persone.[33][35] Nel 1959 e nel 1960, almeno un certo grado di siccità e altre condizioni meteorologiche avverse hanno colpito il 55% della terra coltivata in Cina, mentre si stima che il 60% dei terreni agricoli nel nord della Cina non abbia ricevuto alcuna pioggia.[37]Tuttavia, ci sono stati disaccordi sul significato della siccità e delle inondazioni nel causare la Grande Carestia.[7][9][14] Secondo i dati pubblicati dalla “Accademia cinese di scienze meteorologiche (中国气象科学研究院)”, la siccità nel 1960 non era rara e la sua gravità era considerata solo “lieve” rispetto a quella degli altri anni: era meno grave di quelle in 1955, 1963, 1965-1967 e così via.[38] Inoltre, Xue Muqiao (薛暮桥), che era il capo del Istituto nazionale di statistica della Cina, disse nel 1958 che “diamo qualunque cifra il livello superiore vuole” per sopravvalutare i disastri naturali e alleviare la responsabilità ufficiale per i decessi dovuti alla fame.[39] Yang Jisheng (杨继绳) ha affermato di aver indagato su altre fonti, tra cui un archivio non governativo di dati meteorologici da 350 stazioni meteorologiche in tutta la Cina, e la siccità, le inondazioni e le temperature durante il 1958-1961 rientravano nei modelli tipici della Cina.[39] Lo storico Frank Dikötter ha affermato che la maggior parte delle inondazioni durante la carestia non erano dovute a condizioni meteorologiche insolite, ma a lavori di irrigazione massicci e mal pianificati che facevano parte del Grande Balzo in avanti.[8]

Rapporti con gli Stati Uniti

Alcuni ritengono anche che, se le relazioni tra Cina e USA fossero state migliori, il numero di vittime sarebbe stato minore. L’America all’epoca aveva posto un embargo commerciale ed esercitava pressioni in tal senso sugli alleati; di contro il governo cinese, per non mostrare debolezze, tendeva a fornire informazioni meno drammatiche sul reale peso della carestia sulla popolazione.

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NOTIZIE ARRIVATE DOPO IL NOSTRO ARTICOLO

In 35 mila in piazza a Bruxelles contro le restrizioni, scontri con la polizia La marcia è iniziata pacificamente, ma in seguito la polizia ha usato i cannoni ad acqua e ha lanciato gas lacrimogeni in risposta al lancio di oggetti di un gruppo di manifestanti, molti dei quali indossavano cappucci e mostravano bandiere nazionaliste fiamminghe

di AGI.it | 21 novembre 21, 16:55

AGI – Scontri a Bruxelles tra polizia e manifestanti, che in migliaia protestavano contro le restrizioni anti-Covid. La marcia è iniziata pacificamente, ma in seguito la polizia ha usato i cannoni ad acqua e ha lanciato gas lacrimogeni in risposta al lancio di oggetti di un gruppo di manifestanti, molti dei quali indossavano cappucci e mostravano bandiere nazionaliste fiamminghe.

Gli scontri sono avvenuti nei pressi di Palazzo Berlaymont, che ospita la sede della Commissione europea. Secondo quanto riferito dalla polizia, 35.000 manifestanti hanno marciato in un corteo partito dalla stazione ferroviaria di Bruxelles Nord. In particolare i partecipanti all’evento, denominato ‘Insieme per la libertà’, protestano contro il divieto ai non vaccinati di entrare in luoghi come ristoranti e bar. Il Belgio è uno dei Paesi più colpiti dall’ultima ondata della pandemia.

Visti i “rincari” in corso a botte di +30-40-70% su ogni genere di prodotti e energia non dovrebbe mancare molto ai cortei di rivendicazione di aumenti salariali


Crollo degli stipendi italiani nell’era euro

E LE ANALOGIE 1961-2021 continuano…

Bankitalia: ‘Il costo dell’energia sospinge l’inflazione, non ci sono segnali accelerazione salari

22/10/2021

“L’inflazione ha raggiunto in settembre il 2,9 per cento. Tuttavia non vi sono finora segnali di un’accelerazione dei salari e le imprese, pur avendo adeguato al rialzo le previsioni di aumento dei propri listini, indicano rincari inferiori al 2 per cento annuo”. E’ quanto si legge nel bollettino economico pubblicato da Bankitalia.

Crollo degli stipendi italiani nell’era euro: deflazione salariale anche per la Spagna

Gli stipendi italiani sono scesi da quando è stato introdotto l’euro, seguendo una dinamica ancora più accentuata della Spagna

di Giuseppe Timpone , pubblicato il 22 Ottobre 2021 alle ore 07:48

Stipendi italiani più bassi del 1999

C’è un’espressione che ha fatto molto il giro del web negli ultimi anni dell’allora premier italiano Romano Prodi, che nell’indicare la convenienza dell’Italia di aderire all’euro profetizzò: “sarà come lavorare un giorno in meno al mese e guadagnare per un giorno in più”. I dati OCSE sugli stipendi italiani, tuttavia, raccontano un’altra storia. Abbiamo preso in considerazione i livelli salariali del 1999, anno di nascita dell’euro (entrerà fisicamente nelle nostre tasche nel 2002), confrontandoli con quelli del 2020. I dati sono espressi in dollari USA, ma a prezzi costanti e a parità di potere d’acquisto, usando il 2016 come anno di base per i calcoli. Scopriamo quanto segue:

  • Italia -3,8%
  • Germania +15,6%
  • Francia +15,3%
  • Spagna -3,4%
  • OCSE +17%

In altre parole, gli stipendi italiani non solo non sono cresciuti nei primi 22 anni di euro, anzi risultano diminuiti di quasi il 4%. Analogo l’andamento della Spagna, mentre Francia e Germania sono riuscite a segnare rialzi superiori al 15%. La media OCSE è persino migliore: +17%. Fatto sta che nel 1999 debuttavamo nell’euro con stipendi italiani più alti di quelli francesi e al 95% della media OCSE. Oggi, abbiamo stipendi più bassi di quelli spagnoli e scesi a meno del 77% della media OCSE. Ecco i dati assoluti in dollari USA del 1999 e del 2020:

  • Italia 39.191 – 37.769
  • Germania 45.327 – 53.745
  • Francia 38.597 – 45.581
  • Spagna 39.206 – 37.922
  • OCSE 41.281 – 49.165

Cos’è accaduto in quest’ultimo ventennio? Italia e Spagna si erano presentate all’appuntamento con l’euro con un gap di competitività sul fronte dei salari. I livelli più alti rispetto alla Francia non erano certo frutto di maggiore produttività, quanto di decenni in cui la crescita dei salari risultava perlopiù sganciata proprio dalla produttività. La maggiore inflazione che ne scaturiva si rifletteva sulla svalutazione dei tassi di cambio. Con l’euro, questa manovra non fu più possibile. Ed ecco che la minore produttività si è riflessa nella cosiddetta deflazione salariale.

Altro aspetto non ancora pienamente dibattuto riguarda il calo degli stipendi italiani nel 2020 a causa della pandemia, che risulta essere molto più alto che altrove. Di seguito, i dati:

  • Italia -6,3%
  • Germania -0,5%
  • Francia -3,4%
  • Spagna -3%
  • OCSE +0,5%

A differenza di quanto vogliamo propinarci da soli, la pandemia ha avuto ricadute peggiori sull’economia italiana che non presso le altre principali economie dell’area. Gli stipendi italiani sono crollati il doppio di Francia e Spagna e, addirittura, una dozzina di volte più velocemente che in Germania. Nell’insieme dell’area OCSE, poi, gli stipendi sono mediamente aumentati di poco, anziché diminuire. Tenuto conto della pandemia, possiamo affermare che gli stipendi italiani tra il 1999 e il 2019 sono aumentati del 2,4%, in ogni caso molto meno che in Francia e Germania. In Spagna, sono rimasti sostanzialmente invariati.

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Sciopero Green Pass 15 ottobre 2021: spesa al supermercato e regali di Natale a rischio

Sciopero Green Pass 15 ottobre, a rischio i regali di Natale e la spesa al supermercato.

di Chiara Lanari , pubblicato il 14 Ottobre 2021 alle ore 12:26

Sciopero

Domani entra in vigore il Green Pass per tutti i lavoratori ma si rischia anche il blocco con scioperi e proteste che rischiano di paralizzare l’Italia. Oltre alle manifestazioni già annunciate, infatti, a preoccupare sono alcuni settori a rischio come portuali e autotrasportatori.

Sciopero Green Pass 15 ottobre, a rischio i regali di Natale

A Trieste 900 lavoratori hanno già annunciato uno sciopero e la minaccia anche dei regali di Natale saltati come scrive La Repubblica riportando le parole di un manovratore:

“Stop ai regali di Natale e addio ripresa. Il governo ci tratta da bestie e noi bruciamo il potere dei consumi.”

Il rischio sciopero è molto forte ed è scattato anche l’allarme economico per il rischio carenza merci nei supermercati.

A rischio anche la spesa nei supermercati

Anche nei supermercati si rischia il caos e scaffali vuoti. Secondo Ivano Russo di Confetra: “La nostra confederazione raccoglie 400 mila autisti e stimiamo che il 30% non abbia il Green Pass. Fermando 130 mila persone che si occupano di trasporti si rischia il blocco, la paralisi del sistema logistico nazionale”.
Molti autotrasportatori stranieri, infatti, o non sono vaccinati o sono vaccinati con Sinovac e Sputnik, non riconosciuti dall’Ema e quindi senza Green Pass per poter lavorare. Un vero e proprio dramma per la collettività, dove il rischio di supermercati senza rifornimenti è concreto almeno per il prossimo weekend:

“Si sta determinando una situazione per cui si rischia che il 15-16 ottobre il trasporto in Italia si blocchi: dal ministero non abbiamo risposte se questo atteggiamento proseguirà e non uscirà un chiarimento, può succedere di tutto”

Con queste parole, il presidente di Conftrasporto-Confcommercio Paolo Uggè ha voluto lanciare un allarme al presidente del Consiglio Mario Draghi. Solo domani la situazione sarà molto più chiara e si capirà se l’effetto Green Pass darà i suoi frutti: una corsa alla vaccinazione o un’impennata ai tamponi le due ipotesi in campo.

Dal governo però non c’è molta preoccupazione, infatti la vaccinazione ha superato la soglia dell’80% e le proteste sembrano ascrivibili a pochi. Ecco perché dal Viminale si sta già pianificando un programma contro le proteste di domani e chi pensa di creare disordini.

Meno problemi sul fronte trasporto pubblico, dove sembrano esserci solo il 10% dei lavoratori non in regola. Sicuramente meno rispetto ad altri settori, per cui non si prevedono, al momento, particolari rischi di blocchi.

Vedi anche: Sciopero 15 ottobre ad oltranza per 5 giorni contro il Green Pass: chi si fermerà (forse) per 96 ore

Con l’inflazione in risalita le violenze di Roma sono un brutto segnale

Le violenze a Roma di frange estremiste contro il green pass rischiano di essere il preludio di un autunno caldo con l’inflazione

di Giuseppe Timpone , pubblicato il 13 Ottobre 2021 alle ore 07:50

Rischio inflazione per la quiete sociale

Prima ancora di sabato scorso, avevamo intravisto lo scenario di un autunno caldo. Le violenze a Roma di frange estremiste contro il green pass hanno semplicemente confermato questa sensazione. Se finora sono state le polemiche sui vaccini e sulle certificazioni anti-Covid ad avere surriscaldato il dibattito pubblico, prossimamente potrebbe essere l’inflazione ad infiammare gli animi.

Per quest’anno, la crescita media dei prezzi al consumo attesa dal governo è dell’1,5%. Una previsione probabilmente al ribasso, se è vero che a settembre risultava già salita al 2,6%, trainata dai prezzi energetici a +20,2%. Le bollette di luce e gas dovrebbero rincarare da questo mese in avanti rispettivamente di quasi il 30% e il 15%. Cifre che non si sentivano da parecchi anni.

E i redditi non stanno certamente tenendo il passo con l’inflazione. E’ vero che il PIL quest’anno crescerebbe di ben il 6%, ma questo dato arriva dopo un pesante -8,9% nel 2020. Alla fine dell’anno prossimo, confidando che tutto vada bene, ci saremo riportati poco sopra i livelli di ricchezza pre-Covid. Questo surriscaldamento dei prezzi in una fase di sofferenza per le famiglie rischia di agitare gli animi. L’Italia è arrivata all’appuntamento imprevisto con la pandemia già stremata. Il suo PIL reale a fine 2019 risultava pari a -4% rispetto ai livelli del 2007. E dall’inizio del millennio fino alla fine del 2020, gli stipendi mesi sono cresciuti di un paio di punti sotto l’inflazione.

Inflazione e rischio malcontento

In altre parole, le famiglie italiane posseggono oggi lo stesso potere di acquisto di fine anni Novanta. Qualora l’inflazione corresse più velocemente dei redditi, ci riporteremmo ancora più indietro. Non è difficile immaginare quante tensioni sociali ciò si trascinerebbe.Anche perché, con buona pace degli istituti di statistica nazionali, dall’America all’Europa i consumatori stanno avvertendo il boom dei prezzi al consumo in misura ben maggiore di quanto non segnalino i dati ufficiali.

I periodi di alta crescita dell’inflazione sono caratterizzati tipicamente da malcontento. L’ultima volta che ciò accadde in Italia fu negli anni Settanta/Ottanta, quando il terrorismo di matrice politica insanguinò le nostre strade. Il carovita (parliamo di iperinflazione) fu storicamente la molla che fece schizzare i consensi nella Germania degli anni Venti a favore di uno sconosciuto partito nazionalsocialista. Più di recente, l’inflazione provocò rivolte nel mondo arabo oltre una decina di anni fa, note come “primavere”. Dittature apparentemente incrollabili come quella di Ben Alì in Tunisia e Hosni Mubarak in Egitto furono travolte dai moti di piazza.

Stiamo facendo riferimento a episodi storici molto diversi tra loro e certamente estremi. Tuttavia, è storicamente assodato che l’inflazione provochi malcontento. Persino nell’Antica Roma le proteste contro il carovita erano prese sul serio dagli imperatori. Pensavamo di esserci liberati di questo male nell’ultimo decennio, mentre da qualche mese siamo tornati a parlarne impauriti e frastornati. Anche perché il fenomeno si trascinerebbe dietro un rialzo dei tassi più veloce delle previsioni e la riduzione degli stimoli monetari delle banche centrali. I governi non potrebbero più cercare di mantenere la pace sociale a colpi di sussidi e spesa pubblica in deficit, dovendo fare i conti con costi d’indebitamento più elevati. Insomma, l’inflazione è un brutto affare. Occhio a sottovalutare il clima di rabbia che ribolle già nelle piazze.

Anno su anno, i salari negli USA sono aumentati da 29,50 a 30,85. Questo è un guadagno del 4,58%.
Curiosamente….come nel 1961
E le analogie tra il 1961 e il 2021….continuano.

salariominimo

Salario minimo a 9 euro: stavolta i 5 Stelle ci riprovano insieme al PD di Letta

Movimento 5 Stelle e PD spingono per approvare una legge sul salario minimo orario di 9 euro, proposta appoggiata dall’INPS

di Giuseppe Timpone , pubblicato il 29 Settembre 2021 alle ore 07:53

Salario minimo a 9 euro?

Una parte della maggioranza che sostiene il governo Draghi invoca l’introduzione di una legge sul salario minimo. Movimento 5 Stelle e PD, spalleggiati da CGIL e presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, chiedono che sia fissata una retribuzione legale non inferiore ai 9 euro l’ora. La soluzione, spiega lo stesso ente previdenziale, riguarderebbe 4 milioni di lavoratori, di cui 864 mila collaboratori domestici e 350 mila addetti nel settore agricolo.

Il salario minimo non è un tema nuovo per la politica italiana. L’allora ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo, esponente “grillino”, lo propose nel 2019. Non se ne fece nulla, anche perché l’alleato leghista si mostrò contrario e il governo “giallo-verde” di Giuseppe Conte cadde di lì a poco. Adesso, però, i due partner della maggioranza confidano nel vento tedesco. In Germania, le elezioni sono state vinte di misura dall’SPD, il cui leader Olaf Scholz ha promesso in campagna elettorale di aumentare il salario minimo a 12 euro l’ora sin dall’anno prossimo.

Salario minimo, costi e problematiche legali

Il problema della misura è duplice. Anzitutto, il costo del lavoro lieviterebbe mediamente del 20%. Una stangata a carico delle imprese, che favorirebbe la fuga della produzione e degli investimenti all’estero, specie ai danni dei lavoratori meno qualificati e residenti nel Meridione, dove gli stipendi sono notoriamente più bassi nel settore privato. In assenza di una pari crescita della produttività, infatti, le imprese sarebbero costrette ad aumentare i prezzi di beni e servizi e/o a ridurre i margini di profitto. In entrambi i casi, la loro competitività calerebbe.

Altro aspetto non meno complicato riguarda la natura del salario minimo. Sarebbe un’alternativa alla contrattazione collettiva? E cosa comprenderebbe eventualmente la cifra dei 9 euro? Si tratterebbe solamente della retribuzione lorda o anche di tutti gli altri oneri a carico dell’impresa? Sta di fatto che il segretario del PD, Enrico Letta, stia cercando di spostare a sinistra l’agenda del governo per finalità squisitamente propagandistiche.Egli è consapevole di guidare un partito in crisi ormai eterna di consensi e spera di non soccombere agli alleati di governo del centro-destra contrapponendo loro tematiche identitarie. Del resto, un Letta in versione cigiellina non lo avevamo visto quando fu premier.

Una boutade, insomma. Il salario minimo non solo non risolverebbe il grave problema (reale) dei bassi stipendi degli italiani. Esso li colpirebbe ulteriormente, provocando la chiusura di molte aziende e il ricorso ulteriore al lavoro nero in altrettante. Per i 5 Stelle, invece, la proposta è una logica conseguenza del loro cavallo di battaglia alle scorse elezioni politiche: il reddito di cittadinanza. Da un lato, essi hanno nei fatti introdotto un “salario di riserva” fino a 780 euro al mese, qualcosa come circa 4,50 euro per ogni ora di lavoro; dall’altro, adesso puntano ad accrescere le retribuzioni minime per via diretta, completando la distruzione del già inefficiente mercato del lavoro italiano.

TIR rallentano il traffico sulla Milano – Bergamo 27-09-2021

LE NOTIZIE FALSE E LA MACCHINA DEL FANGO SULLA MANIFESTAZIONE DI PIAZZA SAN GIOVANNI

26 Settembre 2021

All’indomani della manifestazione “Contro il green pass, per la Libertà e il futuro” arrivano puntuali le notizie false e la macchina del fango dei media main stream.
Hanno prima scritto che i manifestanti erano qualche migliaia. Bastava essere in piazza per rendersi conto che il numero era di gran lunga superiore. Una foto della piazza, scattata dall’alto, che circola su internet, conferma che, ieri pomeriggio, piazza San Giovanni a Roma era piena di manifestanti. Se la capienza massima della piazza è infatti di 256 mila persone, erano almeno in centomila ieri a dire no al lasciapassare verde e a rivendicare le libertà costituzionali.
L’edizione romana del Corriere della sera ha dato unicamente risalto alla presenza di qualche esponente di Forza nuova per attribuire senza remore a tutta la piazza l’epiteto di neofascista. Scrivono addirittura che Giuliano Castellino, il leader di Forza Nuova, è salito sul palco: una totale falsità. Castellino era in piazza, ma gli è stato impedito di parlare sul palco dagli organizzatori. 
A sbeffeggio di questi disinformazione, ieri, sul palco gli organizzatori e il pubblico hanno cantato: “El pueblo unido” degli Quilapayun, canzone simbolo del movimento di unità popolare che portò, con elezioni democratiche, alla presidenza del Cile, Salvador Allende.Tra i partiti e le sigle organizzatrici (Ancora Italia, Movimento 3V, FISI, Fronte del dissenso, No paura day, Primum non nocere) non c’è una di estrema destra. Ancora Italia è un partito che ha al centro del suo programma politico l’applicazione integrale della Costituzione, molti suoi esponenti si rifanno all’esperienza morotea e socialista. Tra i suoi obiettivi vi è il raggiungimento della sovranità politica, economica e monetaria. Movimento 3V è un partito trasversale che chiede la verità e mette al centro del suo progetto il benessere e la salute dell’uomo in ogni scelta politica. Primum non nocere nasce come movimento contro le vaccinazioni obbligatorie della legge Lorenzin. In Fronte del dissenso vi sono esponenti con un passato nella sinistra extraparlamentare.
Catalogare come neofasciste le piazze organizzate da queste sigle è completamente ridicolo e sarebbe ora che i principali giornali italiani smettessero di farlo.
Fanpage ha deciso di dare risalto a un corteo non autorizzato a cui hanno dato vita al termine della manifestazione qualche decina di manifestanti o presunti tali, a beneficio di molte telecamere. Questo corteo ha bloccato una strada, con la polizia a controllare in assetto antisommossa. Fanpage non ha però riportato la notizia che più volte, dal palco,gli organizzatori hanno precisato che la manifestazione non si sarebbe conclusa in alcun modo con un corteo finale. Resta da chiedersi se queste azioni non siano organizzate ad hoc proprio per screditare una piazza pacifica. Nel suo articolo poi Fanpage ha scritto la falsità che in piazza erano un migliaio. Il loro racconto è tutto incentrato sulla presenza di sparute persone di estrema destra. Del contenuto degli interventi pronunciati sul palco non c’è traccia.È poi subito partita la macchina del fango contro Nunzia Alessandra Schilirò, il vice questore aggiunto della Polizia di Stato a Roma che è intervenuto sul palco per denunciare l’illegittimità del green pass italiano e rivendicare il sacro dovere della disobbedienza civile dinanzi a leggi ingiuste.
A poche ore dalla manifestazione, di domenica mattina, la stampa main stream le ha già “notificato” (sic!) le azioni disciplinari. Non dovrebbe arrivare prima la comunicazione ufficiale dall’amministrazione?La dottoressa Schilirò ha così commentato: “È bello apprendere dai giornali, anziché dalla propria amministrazione, di essere già sotto procedimento disciplinare. Sono molto serena. Ieri mi è capitata l’occasione di esercitare i miei diritti previsti dalla Costituzione e l’ho fatto. Il mestiere che svolgo è pubblico. […] Ieri ero solo una libera cittadina che esercita i propri diritti. Se l’amministrazione non gradisce la mia fedeltà alla Costituzione e al popolo italiano, mi dispiace, andrò avanti lo stesso. Ho scelto il mio mestiere, perché credevo che non ci fosse niente di più nobile del garantire la sicurezza di ogni cittadino, in modo che chiunque fosse libero di esprimere il proprio vero sé. Se questo mi viene negato, il mio mestiere non ha più senso. Andrò avanti sempre, con o senza divisa, per amore del mio Paese“.Andremo avanti anche noi nel raccontare ciò che vediamo e nel fare del nostro meglio per fornire un servizio pubblico. Le menzogne del main stream, ormai, sono talmente smaccate che cadranno da sole come un castello di sabbia in riva al mare, travolto dall’onda della verità, del pensiero critico e dell’accresciuta consapevolezza dei cittadini.

I prezzi del cibo sono schizzati ai massimi da quasi 50 anni, ovunque cresce la tensione sociale

Aria di rivolte in varie parti del mondo per l’esplosione dei prezzi del cibo. I rincari sono arrivati ai massimi da quasi mezzo secolo.

di Giuseppe Timpone , pubblicato il 17 Settembre 2021 alle ore 07:51

Prezzi del cibo in ascesa

Cambiamenti climatici, interruzioni delle catene di produzione a causa della pandemia, eccessivi rincari delle materie prime e carenza di lavoratori provocate dalle restrizioni anti-Covid stanno diventando gli ingredienti principali di una crisi alimentare dai risvolti potenzialmente drammatici. I prezzi del cibo ad agosto sono esplosi del 33% su base annua, stando all’apposito indice alimentare della FAO. In particolare, il prezzo dello zucchero risulta salito mediamente del 48% e quello degli olii vegetali di ben il 71%.

Tenendo conto del tasso d’inflazione, i prezzi del cibo nel mondo sono schizzati ai massimi da quasi mezzo secolo. Bisogna tornare al 1975 per trovare un livello ancora più elevato. Non a caso, quelli furono anni di forte tensione sociale a seguito dell’inflazione galoppante e della bassa crescita provocati dalla crisi del petrolio.

Nell’Area Euro, il problema non è ancora diventato evidente. Ad agosto, il prezzo del cibo è salito qui del 2%, a fronte di un’inflazione generale al 3%. Negli USA, segnava +3.7% contro +5,3%. Invece, sono le economie emergenti che stanno ritrovandosi a fronteggiare l’allarme, con paesi come Iran, Cuba e Argentina a registrare tassi di crescita tendenziali superiori al 30%. Non parliamo del Venezuela, travolto negli ultimi anni dall’iperinflazione. Nel Libano, il boom è a tripla cifra: +222% a giugno. La Turchia registrava un pesante +29% ad agosto.

Prezzi del cibo e rischi sociali sui mercati emergenti

La crisi alimentare sta mettendo a dura prova i governi. L’ultima volta che il prezzo del cibo crebbe a ritmi allarmanti (+44% nel biennio 2010/2011), il mondo assistette alle famose Primavere Arabe. I regimi di Tunisia, Egitto e Libia furono travolti e in stati come Siria e Yemen esplosero guerre civili che si trascinano a tutt’oggi.Per reagire all’emergenza, ci si sta arrangiando alla meno peggio. L’India ha messo a disposizione 20 milioni di tonnellate di riso e farina gratis, sborsando 9,1 miliardi di dollari. Allo stesso tempo, ha tagliato i dazi su alcuni prodotti alimentari, tra cui la soia e le lenticchie.

Altrove, la situazione è più delicata. Paesi come l’Egitto hanno la necessità di ridurre i sussidi alimentari per migliorare i conti pubblici e ottenere i prestiti del Fondo Monetario Internazionale. E l’Europa? Per il momento sembra esclusa dall’emergenza, anche se qualche avvisaglia si ha già in Romania. Bucarest è il principale esportatore di pane nel continente, ma sta accusando anch’essa un’impennata dei prezzi dei cereali per via della sua dipendenza dalle importazioni. La Russia ha imposto da mesi dazi sulle esportazioni di farina, finendo semplicemente per perdere quote di mercato e senza riuscire a contenere i prezzi del cibo (+7,7% ad agosto).

Soluzioni semplici e immediate non ve ne sono. Tutte le misure sopra accennate sono palliativi, un modo per guadagnare tempo nell’attesa che domanda e offerta si bilancino e “sgonfino” i prezzi. Affinché ciò accada, scartando l’ipotesi di ridurre i consumi, è necessario che aumenti la produzione. E ciò richiede condizioni climatiche meno estreme, libero commercio e ritiro delle restrizioni anti-Covid. Tra l’altro, queste ultime dovrebbero essere accompagnate dal taglio dei sussidi elargiti alle famiglie, così che tornino al lavoro. Ma il clima, almeno nell’immediato, non è controllabile dall’uomo. Ed è il fattore che più preoccupa.

LA CARICA DEI 10.000 (e la MACELLERIA SOCIALE)

Scritto il 10 Settembre 2021 alle 07:46 da Danilo DT

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Ammetto che a volte mi trovo veramente in difficoltà, non tanto ad accettare una situazione sempre più estrema. Ormai le dinamiche sono molto chiare e quindi bisogna “sottostare” alle regole del gioco. Quello che mi inquieta è dove questo gioco ci sta portando.

Non voglio diventare eccessivamente prolisso e quindi la farò breve. La questione “tapering” è nota a tutti. Partirà probabilmente ad autunno inoltrato negli USA, qui da noi sponda BCE, come da ultime news sull’argomento, anche dopo.

Nessun tapering: solo un lieve rallentamento. Come previsto dal mercato, la Banca centrale europea ha annunciato che porterà gli acquisti di titoli collegati al Pepp (il programma straordinario varato per fronteggiare gli effetti della pandemia) a un livello “moderatamente inferiore rispetto ai due trimestri precedenti”. (Source

Per i tassi di interesse, ovviamente, si guarda all’anno prossimo. Quindi, si potrebbe dire che, vista anche la problematica inflazione, si vuole rallentare il pompaggio di denaro. Attenzione, non stiamo parlando di assorbire liquidità, ma di immetterne un po’ di meno.
Non si interrompe perché l’inflazione è da tutti considerata un NON problema in quanto le componenti non strutturali incidono oltremodo e l’inflazione da analizzare, in realtà, è molto stabile. Take a look.

US core CPI

1,6% bello fermo. Ok, l’inflazione non è un problema ma potrebbe diventarlo soprattutto quando le componenti più strutturali dovessero prendere il sopravvento. E di questo abbiamo parlato QUI .
La cosa soprendente però è che se si chiude relativamente un rubinetto, se ne apre un altro non di certo di poco conto. La politica fiscale prende il sopravvento. Infatti finora siamo a stimoli fiscali pari a 5.335 miliardi di USD …

Ma la cosa non si esaurisce qui. Infatti il Congresso ha appena approvato un maxi piano per le infrastrutture pari ad ulteriori 1.200 miliardi…

(…) President-elect Joe Biden on Friday said that another round of coronavirus stimulus checks for U.S. families “may be still in play.”
“I think it would be better if they had the $1,200 [payments to families],” Biden said when asked at a press conference to respond to criticism about a new Covid relief plan revealed this week as a starting point for the latest round of negotiations on Capitol Hill.(…) [CNBC

…che porta a 6.500 miliardi più ulteriori ritocchi che sono previsti in agenda. Infatti i democratici sono già pronti ad alzare ulteriormente la posta con altri 3.500 miliardi.

(…) Democrats formally began their push on Monday for the most significant expansion of the nation’s social safety net since the Great Society of the 1960s, unveiling a budget blueprint that would spend $3.5 trillion on health care, child and elder care, education and climate change. (…) [NYT]

Se la matematica non è un’opinione, tutto questo porta ad una cifra tonda. 10.000.000.000.000 $ alias 10.000 miliardi di USD.

REAL WW III

Più volte ho paragonato questa ripartenza a quelle avuta nei periodi post bellici. E questi sostegni sono proprio coerenti con certe situazioni. Importi impressionanti buttati sul mercato per risollevare un morto. Ma tutto questo ha un prezzo! Oppure pensavate che questo denaro si va a riassorbire senza portare conseguenze?

Il problema del deficit e del debito diventerà sempre più asfissiante. Certo, la soluzione più virtuosa è un PIL che sovrasta la crescita del debito, il che comporta un riallineamento progressivo del rapporto debito /PIL. Però questo non basterà a far riassorbire gli effetti che a questo punto rischiano fortemente di doversi confrontare anche con un aumento futuro dell’inflazione. E le banche centrali non potranno nemmeno ritirare rapidamente il denaro altrimenti destabilizzano il mercato.
Insomma chi pagherà?

Io un’idea ce l’ho e come sempre così accadrà. La storia già ci ha insegnato molto ma per dirvi come la svalutazione che forse non ci hanno mai detto si è mossa negli anni, basta riprendersi questa analisi apparsa su twitter qualche mese fa.
Perché i millennial non possono permettersi una casa? Basta vedere come si sono evoluti i prezzi delle case. L’analisi è riferita agli UK ma cambia poco.

  • Prezzo medio delle case: 1970: £ 4.057
  • Stesso parametro nel 2021: £ 250.772 ( vale a dire un incremento pari a 62 volte)
  • Retribuzione annuale media: 1970: £ 1.204 , in altri termini teoricamente con 4 anni di stipendio ti compravi una casa.
  • Stesso paramento nel 2021: £ 29.600 (quindi aumento di 24,6 volte) .

Aumento delle case oltre 2,5 volte l’aumento dei salari. Capite che l’aumento non è stato affatto proporzionale. E quindi cosa aspettarci? Che questo fenomeno si enfatizzi ancora di più. Insomma, è chiaro che alla fine saremo tutti molto più poveri ma quasi non ce ne renderemo conto. Sarà un grande successo, il mio amico Andrea continua a chiamarla “Macelleria Sociale”. Inizio a dargli ragione.

https://twitter.com/i/status/1429081476931457027

aaaaaa

https://twitter.com/i/status/1421796879755628552

Il governo militare è l’assalto finale del Nuovo Ordine Mondiale all’Italia

 Cesare Sacchetti  0 Commenti33802751

di Cesare Sacchetti

Probabilmente molti hanno pensato che Marcello Sorgi, già direttore del TG1 ed editorialista de “La Stampa”, sia stato affetto da un colpo di sole dovuto alla calura estiva di fine luglio quando ha scritto il suo ultimo articolo intitolato Perché non ci sarà una crisi ad agosto.

Nel pezzo in questione vengono pronunciate apertamente le due parole che da un po’ di tempo a questa parte aleggiano nell’agone politico italiano e non solo. Le due parole sono “governo militare.”

Prima però di proseguire in questa analisi, si deve tenere a mente un fatto ben preciso. La Stampa è il quotidiano di proprietà di una delle famiglie più potenti d’Italia e d’Europa, gli Elkann legati storicamente a loro volta da una famiglia di banchieri ancora più potenti, i Rothschild.

Se questo quotidiano permette che si scrivano delle parole dal potenziale ancora più eversivo dello scenario presente, allora vuol dire che questi poteri vogliono mandare un messaggio ben preciso a determinati ambienti.

Il destinatario del messaggio sembra essere il sistema politico italiano che da tempo ormai è entrato nel crepuscolo della Seconda Repubblica nata dal golpe giudiziario di Mani Pulite ispirato e diretto da ambienti del governo occulto di Washington.

I partiti stanno manifestando sempre di più dei malumori nella loro appartenenza al governo Draghi. Sia chiaro; non si tratta di malumori di carattere sostanziale perché questi partiti sono stati colti da una improvvisa e improvvida conversione sulla via di Damasco e ora sentono l’irrefrenabile desiderio di tirarsi indietro dal piano, già scritto, di esecuzione del Grande Reset in Italia.

In larghissima parte, sono solamente delle manovrine che i partiti stanno cercando di fare per recuperare qualche consenso perduto nel corso dell’ultimo anno e mezzo.

Ad esempio, c’è il M5S che ormai è ridotto ad essere la sbiadita fotocopia del partito giustizialista dell’ex pm Di Pietro, l’Italia dei Valori.

Dal momento che il M5S ormai è di fatto diventato un partito di sinistra radicale giustizialista deve quindi mettere in scena un siparietto per mostrare una opposizione di facciata alla riforma della giustizia che il regime di Draghi sta per attuare.

Una riforma della giustizia che ha come unico fine ultimo quello di abolire il carcere come istituto di pena e portare a compimento così il “sogno” del partito radicale di Marco Pannella.

A questo proposito è interessante notare come la decadenza spirituale, morale ed economica dell’Italia sia proceduta di pari passo con l’attuazione del programma di questo partito.

Per quello che riguarda l’economia infatti i radicali sono stati i più feroci portavoci dell’agenda neoliberale che ha privatizzato in pratica l’intero patrimonio statale svenduto da uomini dell’eurocrazia come Draghi e Prodi alla finanza anglosassone.

Per quello che invece riguarda la morale, i radicali sono stati in prima linea nel portare avanti la demoralizzazione della società italiana attraverso il sostegno all’aborto, alle droghe, alla pornografia e al divorzio. Questo insieme di disvalori ha sradicato e destrutturato la tradizionale identità cristiana dell’Italia per sostituirla con una ideologia liberal-marxista che nulla ha a che fare con la storia e la cultura millenaria di questa nazione.

La definizione di “ripugnanti” che il filosofo Costanzo Preve riservò ai radicali sembra a questo proposito essere del tutto calzante.

Ad ogni modo, i malumori citati sopra dei partiti del governo Draghi sono soltanto una mera messinscena, ma sono stati più che sufficienti per irritare gli ambienti finanziari e massonici che hanno voluto questo governo.

Il fatto che sia stata la massoneria a permettere l’ingresso di Draghi a Palazzo Chigi non è semplicemente una speculazione o una voce di corridoio.

Sono stati gli stessi ambienti massonici a rivendicarne il concepimento attraverso uno dei suoi più noti esponenti, Gioele Magaldi, l’uomo che ha dato la sua benedizione alla formazione di questo governo e lo stesso personaggio che da anni è solito ripetere la favoletta della massoneria “buona”.

La massoneria a questo proposito utilizza una tecnica di depistaggio molto raffinata. Manda avanti intenzionalmente alcuni dei suoi membri per far credere al pubblico che esistano due correnti di segno opposto nella massoneria e in questo modo alcuni, anche in buonafede, si avvicinano alla massoneria “buona” convinti davvero che esistano delle logge che vogliano il bene dell’umanità.

In questo modo il dissenso di coloro che cercano una via di fuga dal sistema finisce tra le braccia massoniche del sistema stesso e nulla si è mosso.

I regimi di Conte e Draghi hanno aperto la strada al Grande Reset

Per poter però comprendere perché Sorgi e determinati ambienti mondialisti abbiano messo le carte in tavola proprio ora occorre risalire al piano che ha portato al governo Draghi poi e a quanto fatto da Conte prima.

L’Italia nel corso dell’ultimo anno e mezzo è stata travolta da un’operazione di carattere internazionale sotto le vesti di una falsa pandemia che il colonnello russo Kvachov ha definito efficacemente come “operazione terroristica del coronarivus”.

Questa operazione ha lo scopo preciso di destabilizzare lo scenario politico internazionale, provocare il collasso degli Stati nazionali che lasceranno successivamente il posto ad un governo mondiale unico gestito dai vertici del globalismo e dalle sue istituzioni di riferimento come il club di Davos.

L’esito del falso scenario pandemico è stato descritto da una pubblicazione della famiglia Rockefeller, “Operazione Lockstep”, dove lockstep sta a significare “marcia a ranghi serrati”.

Una marcia a ranghi serrati che dopo aver portato ad un autoritarismo globale annulla le libertà individuali per il diffondersi di un virus, e porta successivamente al collasso dell’economia mondiale.

Il collasso dell’economia mondiale viene provocato volutamente attraverso il fallimento di decine di migliaia di attività commerciali per consentire poi così l’instaurazione della legge marziale che sarà il metodo di governo designato per permettere la nascita di questo supergoverno mondiale.

La manu militari pertanto è lo sbocco finale di questa crisi artificiale.

Quanto rivelato dal documento dei Rockefeller coincide perfettamente con le informazioni che sono trapelate lo scorso anno da un informatore governativo canadese.

Secondo questo informatore, gli ambienti mondialisti avevano trasmesso delle direttive precise ai vari governi mondiali.

Nella scorsa primavera avrebbero dovuto essere portati avanti delle chiusure forzate ancora più rigide delle precedenti eseguite a marzo e a ottobre 2020 dal governo Conte.

Lo scopo delle chiusure di massa era quello di provocare una enorme recessione globale che avrebbe portato ad una scarsità artificiale alimentare.

La mancanza di cibo avrebbe poi costretto le masse ormai giunte alla disperazione e affamate a riversarsi per le strade e a ribellarsi offrendo così ai governi il pretesto per rendere operativa la legge marziale.

I cittadini poi avrebbero dovuti essere messi di fronte a questo scenario. O si accettano le condizioni del regime e l’inoculazione del vaccino sperimentale in cambio di una elemosina di governo definita “reddito universale”, o in caso contrario il destino dei dissidenti è quello dei campi di detenzione COVID. Campi che alcuni Paesi, quali GermaniaNuova Zelanda e Canada hanno già iniziato a costruire.

Il Grande Reset concepito dall’architetto di Davos, Klaus Schwab, era sostanzialmente questo.

Il piano non è riuscito. Il Grande Reset non si è manifestato. Le élite non sono riuscite nei loro propositi per quelle che appaiono essere tre ragioni sostanziali.

La prima è che il sistema non è ancora riuscito a riprendere il controllo degli Stati Uniti che in questo momento appaiono commissariati dalle forze armate ancora fedeli in larga parte al Presidente Trump.

Qualsiasi proposito di costruire un nuovo ordine mondiale non può essere attuato senza la partecipazione della prima superpotenza. Questa condizione è semplicemente imprescindibile in quest’ottica.

La seconda è che l’altra grande potenza mondiale, la Russia, non ha alcuna intenzione di cedere e di consentire alla nascita del Nuovo Ordine Mondiale.

La Russia ha abbandonato ogni restrizione COVID e ha mandato un messaggio chiaro proprio al forum di Davos consegnato dallo stesso Putin a gennaio 2021. Il tentativo di trascinare il mondo verso un nuovo autoritarismo globale nel quale i cittadini sono ridotti al rango di automi rimessi alla volontà dei tiranni globali è fallito.

La terza è che la Cina non sembra troppo entusiasta di far parte di un ordine mondiale dominato dalle élite occidentali piuttosto che dalla Cina stessa.

In questi decenni, è stata la finanza internazionale occidentale assieme alle istituzioni neoliberiste, come l’Organizzazione Mondiale del Commercio, a permettere l’esplosione della potenza economica cinese attraverso la libera circolazione delle sue merci di bassa qualità prodotte a costi irrisori.

Il potere della Cina è stato costruito da questi apparati con lo scopo preciso di trasferire l’intera industria occidentale nel Paese del dragone.

Nella visione di Davos e del Club di Roma, l’Occidente deve essere del tutto deindustrializzato e deve diventare il mercato di sbocco delle merci cinesi e degli altri Paesi asiatici.

Quello che questi ambienti e lo stesso George Soros non hanno tenuto in conto o trascurato, è che la Cina non è interessata ad un ordine mondiale dominato da Davos, da Londra e da New York, quanto ad un ordine mondiale dominato da Pechino stessa.

La Cina vuole sedersi sul trono, non vuole prendere ordini. Questa la ragione delle frizioni tra Pechino e il potere occidentale.

Nonostante non ci siano le condizioni minime indispensabili per poter arrivare al “riordino” della società internazionale, le élite stanno comunque studiando altri sistemi per poter provocare un’altra crisi globale e sembrano aver individuato nell’attacco cibernetico una della vie privilegiate per raggiungere quell’obbiettivo.

L’esercitazione di Davos, Cyber Polygon, sembra preludere proprio a questo obbiettivo. Mandare in crisi il sistema di approvvigionamento alimentare attraverso un massiccio hackeraggio internazionale per trascinare così diversi Paesi nel caos e arrivare alla legge marziale.

Ormai l’ottica di riferimento di questi poteri è quella di spingersi fino in fondo, anche oltre il limite senza nemmeno guardare alle effettive probabilità di riuscita dell’operazione.

Si vuole solo distruggere e nulla più.

Questa è la ragione principale per la quale l’Italia e l’Europa Occidentale saranno il terreno di scontro del mondialismo perché in questa area del mondo occidentale le élite finanziarie sono in completo controllo dell’UE e dei governi europei.

L’Italia, in particolare, sarà uno dei campi di battaglia “privilegiati” del Nuovo Ordine Mondiale.

Ed è qui che va cercata la ragione che ha portato Sorgi a scrivere quell’articolo.

Il Nuovo Ordine Mondiale proverà a lanciare il suo assalto finale proprio al Paese che odia di più, in quanto culla della civiltà cristiana e romana, fondata su valori antitetici all’anti-civiltà massonica del mondo liberale moderno.

È probabilmente l’ultimo capitolo di una guerra iniziata molti anni prima quando il Club di Roma, fondato dalla famiglia Rockefeller, ordinò negli anni’70 la distruzione dell’Italia e la sua completa deindustrializzazione.

In questo piano, Draghi ha giocato un ruolo essenziale.

Questo blog aveva parlato già l’anno passato del perché il capitale transnazionale aveva scelto Draghi per portare a termine la distruzione dell’Italia.

La ragione è che non esiste probabilmente nel mondo un sicario economico più efficiente dell’ex governatore della Bce. Non esiste qualcuno che ha saputo con precisione chirurgica smantellare il cuore dell’industria pubblica italiana e consegnarlo alla finanza anglosassone nel lontano 1992 a bordo del panfilo Britannia.

In quella notte del 2 giugno 1992, e a pochi giorni di distanza dalla morte di Falcone che indagava sui fondi neri del PCI, si consumava il più grande tradimento della storia d’Italia perpetrato da infedeli servitori della patria e fedeli servitori dei poteri che volevano demolire questo Paese.

Fu un attacco tremendo e feroce del Nuovo Ordine Mondiale che ora quasi 30 anni dopo si appresta a sferrare l’ultimo assedio a questa nazione.

Il governo militare: il piano del mondialismo per l’Italia

Il copione di questi poteri per l’Italia sembra essere quindi questo. In autunno, ci sarà una grave destabilizzazione provocata da possibili attacchi cibernetici o dagli immigrati clandestini che Draghi sta facendo sbarcare incessantemente da sei mesi a questa parte.

Sotto il regime di Draghi c’è stato infatti l’arrivo record di sbarchi degli ultimi tre anni e ambienti istituzionali hanno già lanciato l’allarme su un possibile rischio di destabilizzazione della sicurezza nazionale.

In questa ottica di caos indotto, gli immigrati clandestini diventerebbero una sorta di milizia irregolare da utilizzare contro coloro che non si allineeranno.

Matterella potrebbe dimettersi anche prima della sua scadenza del mandato nel 2022 e accelerare così il passaggio di consegne a Draghi al Quirinale che è stato già deciso dai poteri che contano.

L’opzione del governo militare a quel punto sarebbe attuata o da Mattarella, come paventa Sorgi, o dal suo successore, Draghi con ogni probabilità, per fare fronte ad una destabilizzazione provocata dal sistema stesso.

La destabilizzazione controllata serve a produrre l’esito del governo militare che avrà il compito di gestire e rendere esecutivo il Grande Reset.

Ordo ab chaos è sempre il principio fondante della massoneria.

Ci sono però tre fattori che il sistema sta trascurando e che potrebbero portare al fallimento definitivo di questo piano.

Il primo è che il limbo politico nel quale si trovano gli Stati Uniti non sembra destinato a durare a lungo.

Le perizie elettorali stanno procedendo e stanno dimostrando la frode nei confronti di Donald Trump.

Il ritorno in via ufficiale di Trump alla Casa Bianca sembra essere sempre più vicino. Le élite dunque sono in una corsa contro il tempo.

Se la Casa Bianca torna ad essere occupata da un nemico di questa portata, il deep state italiano, legato a doppio filo a quello americano che osteggia Trump, subirebbe un colpo mortale.

Il crollo del governo occulto di Washington significherebbe il crollo della classe politica italiana che da quel sistema dipende ormai da molti decenni.

Il secondo fattore è che le forze armate non sono solo il generale Figliuolo, l’uomo di Bergamo, o il generale Graziano, accusato di aver preso parte all’Italiagate, l’hackeraggio contro le elezioni USA.

Le forze armate sono soprattutto le truppe e coloro che hanno fatto trapelare ad alcune fonti tutto il loro dissenso nei confronti di questo piano eversivo per trascinare l’Italia verso un caos di disordini e violenze mai visto nella storia repubblicana.

Il terzo fattore è strettamente legato al primo e riguarda la presenza dei militari americani in Italia, il cui contingente complessivo ammonta a 13mila unità.

Larga parte delle forze armate americane sono ancora fedeli a Trump e i suoi stessi uomini, quali il suo capo di staff Mark Meadows, stanno facendo capire che l’ex (?) presidente è ancora al comando e le forze armate gli sono fedeli.

Pertanto i militari americani in Italia potrebbero essere un ulteriore alleato dei militari italiani contrari al piano di destabilizzazione dell’Italia.

Se il deep state italiano e le famiglie che lo governano tenteranno pertanto di trascinare l’Italia verso il governo militare, la situazione, sempre più precaria, potrebbe sfuggirgli definitivamente di mano.

Questi poteri stanno scherzando con il fuoco e il rischio di bruciarsi appare sempre più concreto.

Non bisogna comunque farsi intimidire o prendere dal panico. Occorre essere consapevoli che si sta affrontando una camarilla di psicotici che detesta l’umanità e vuole vederla ridotta in miseria e disperazione.

Il tentativo disperato di portare il mondo verso un Grande Reset globale sembra comunque destinato a fallire perché non sussistono le condizioni minime per portarlo avanti.

Questo potere tenterà l’assalto all’Italia e proverà a fare più danni possibili prima della sua sconfitta finale.

In autunno, ci sarà da tenere ancora di più i nervi saldi perché sta arrivando una grande prova e un momento decisivo per la storia d’Italia e del mondo.

Occorre sempre ricordare che il piano materiale di questa battaglia è indissolubilmente legato a quello spirituale.

Questi ambienti odiano Dio e l’uomo e non sanno fare altro che distruggere.

Ora come mai occorre ricordare che non ce la faranno mai, in qualsiasi modo andrà finire. Ora e sempre vale la stessa regola. Non praevalebunt.

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US and Japan conduct war games amid rising China-Taiwan tensions Secret table-top planning and joint exercises in South China Sea continue as concerns grow over Beijing stance The US and Japan have become alarmed by China flying more fighter jets and bombers into Taiwan’s air defence identification zone © Taiwan Ministry of Defense/AP Share on Twitter (opens new window) Share on Facebook (opens new window) Share on LinkedIn (opens new window) Save Demetri Sevastopulo in Washington and Kathrin Hille in Taipei JUNE 30 2021 Print this page The US and Japan have been conducting war games and joint military exercises in the event of a conflict with China over Taiwan, amid escalating concerns over the Chinese military’s assertive activity. US and Japanese military officials began serious planning for a possible conflict in the final year of the Trump administration, according to six people who requested anonymity. The activity includes top-secret tabletop war games and joint exercises in the South China and East China seas. Shinzo Abe, then Japan’s prime minister, decided in 2019 to significantly expand military planning because of the threat to Taiwan and the Senkaku Islands in the East China Sea. This work has continued under the administrations of Joe Biden and Abe’s successor, Yoshihide Suga, according to three of the people with knowledge of the matter. The US and Japan have become alarmed as China has flown more fighter jets and bombers into Taiwan’s air defence identification zone, including a record 28 fighters on June 15. The Chinese navy, air force and coast guard have also become increasingly active around the Senkaku, which are administered by Japan but claimed by China and Taiwan. China insists that it wants to unify Taiwan with the mainland. While it says it wants peaceful unification, it has not ruled out the use of force to seize control of Taiwan. “In many ways, the People’s Liberation Army drove the US and Japan together and toward new thinking on Taiwan,” said Randy Schriver, who served as the top Pentagon official for Asia until the end of 2019. “Assertiveness around the Senkaku and Taiwan at the same time drives home the issue of proximity.” The US has long wanted Japan, a mutual defence treaty ally, to conduct more joint military planning, but Japan was constrained by its postwar pacifist constitution. That obstacle was eased, but not eliminated, when the Abe government in 2015 reinterpreted the constitution to allow Japan to defend allies that came under attack. As the two allies started to bolster their joint planning, Japan asked the US to share its Taiwan war plan. The Pentagon demurred because it wanted to focus on boosting co-ordination with Tokyo in phases. One former US official said the eventual goal was for the allies to create an integrated war plan for Taiwan. Two of the people said the US military and Japanese self-defence forces had conducted joint exercises in the South China Sea that had been couched as disaster relief training. The countries have also held more military exercises around the Senkaku, which could also help prepare for any conflict with China over Taiwan, which is just 350km west of the islands. “Some of the activities we’re training on are highly fungible,” said Schriver, adding that exercises such as an amphibious landing in a “disaster relief scenario” would be “directly applicable” to any conflict around the Senkaku or the Taiwan Strait. Mark Montgomery, a retired admiral who commanded the USS George Washington aircraft carrier strike group and was director of operations at Indo-Pacific command between 2014 and 2017, said the Pentagon needed a “comprehensive understanding” of the support Japan could provide in the case of a conflict. “As a crisis grows and Japan is potentially drawn in as a participant, the US will need to understand how Japan could support or enable US operations,” he added. Tension has risen over the Senkaku Islands, which are administered by Japan but claimed by China and Taiwan © Kyodo via Reuters US and Japanese diplomats are examining the legal issues related to any joint military action, including access to bases and the kind of logistical support Japan could provide US forces engaged in a conflict with China. In the event of a war over Taiwan, the US would rely on air bases in Japan. But that raises the odds that Tokyo would be dragged into the conflict, particularly if China tried to destroy the bases in an effort to hobble the US. One official said the US and Japan needed to urgently create a trilateral sharing mechanism with Taiwan for information about Chinese naval and air force movements, especially around the Miyako Strait to the east of Taiwan, which is covered by Japanese sensors from the north-east and Taiwanese sensors from the south-west. “Some of that kind of data is shared between Taiwan and the US, and between Japan and the US. But we have no direct sharing trilaterally,” the official said. “You cannot start setting that up in the middle of a contingency. You have to do it now.” Another official said the three nations had taken a small but important step in 2017 by agreeing to share military aircraft codes to help identify friendly aircraft. Recommended Global InsightKathrin Hille Taiwan’s unity cracks under Chinese disinformation onslaught Taiwanese officials and US and Japanese sources said co-operation had since risen significantly, driven by the growing awareness in Japan about the importance of Taiwan — which is 110km from Yonaguni, the westernmost island in the Japanese archipelago — for its own security. “The Japanese government has increasingly recognised, and even acknowledges publicly, that the defence of Taiwan equates to the defence of Japan,” said Heino Klinck, a former top Pentagon official who oversaw military relations with Japan and Taiwan from late 2019 until the end of the Trump administration. The Japanese defence ministry said Tokyo and Washington continued to update their joint planning following the 2015 revision of guidelines that underpin the military alliance, but declined to provide any detail. The Pentagon did not comment. Follow Demetri Sevastopulo on Twitter Additional reporting by Robin Harding in Tokyo

German submarines are giving Turkey an edge over Greece

That may make the eastern Mediterranean less stable


Jul 3rd 2021

On the southern shore of the Gulf of Izmit, at the Golcuk shipyard, Turkey’s naval future is slowly taking shape. The first of six German-designed submarines lies in the water, after being floated out from its dock in March. The Piri Reis will join the fleet next year; five other Reis-class subs will follow in successive years. It is a triumph for Turkey’s navy—and a headache for Greece.

Over the past year Turkey and Greece, despite both being members of nato, have sparred in the Mediterranean. Their warships collided last summer after Turkey sent a survey vessel into disputed waters. Greece responded by rallying allies in Europe and the Middle East, bought a slew of French warplanes and, in December, announced a doubling of defence spending to €5.5bn ($6.6bn). That, though, is still less than half the Turkish level. Turkey’s navy is bigger and newer. And the Anadolu, a Spanish-designed light aircraft-carrier, is in the final stages of construction.

Corea del Nord a rischio carestia e Kim Jong Un è riapparso in pubblico sciupato: malato o il dittatore è a dieta?

Il dittatore ha ammesso in settimana che la situazione alimentare nello stato eremita è “tesa”. Il cibo scarseggia e i prezzi dei beni importati esplodono.

di Giuseppe Timpone , pubblicato il 19 Giugno 2021 alle ore 08:13

Corea del Nord a rischio carestia

E’ stato assente un mese dalle apparizioni pubbliche e martedì scorso Kim Jong Un si è fatto risentire per dire qualcosa di assolutamente inusuale per i canoni della Corea del Nord: “la situazione alimentare è tesa”, ha ammesso il giovane dittatore. Egli ha individuato nelle alluvioni e nel tifone dell’autunno scorso le cause degli scarsi raccolti. Già a gennaio, in apertura dell’ottavo Congresso del Partito dei Lavoratori, aveva chiesto scusa al popolo per non essere riuscito a mantenere la promessa di migliorare le loro condizioni di vita.

L’ultimo anno e mezzo è stato molto pesante per la Corea del Nord, dove già gli standard di vita sono estremamente austeri. A causa del Covid, il regime ha chiuso le frontiere con la Cina, quasi suo unico partner commerciale. Il crollo delle importazioni ha ridotto drasticamente l’offerta di cibo nel paese. La FAO calcola che ne manchino all’appello 860.000 tonnellate, pari a un paio di mesi di alimentazione.

Kim Jong Un ha acuito la repressione ai danni del mercato nero, minimamente tollerato negli anni precedenti, al fine di evitare ogni forma di contatto e di contagio con trafficanti cinesi infetti da Covid. Il risultato è che sulle tavole dei nordcoreani mancano soprattutto beni come zucchero, caffè e tè. Alcune fonti hanno riferito alla stampa estera che un pacco di tè può costare 70 dollari e un pacco di caffè sui 100 dollari. Se già vi sembra eccessivo, considerate che il PIL pro-capite medio nella Corea del Nord si aggirerebbe sui 1.500 dollari l’anno.

Kim Jong Un dimagrito

Invece, i prezzi di beni come riso e carburante si sarebbero mantenuti piuttosto stabili anche dopo la chiusura delle frontiere.Tuttavia, stando a NK Daily, dalla fine di maggio il prezzo del riso sarebbe aumentato del 20% a una media di 5.000 won nella capitale Pyongyang. Un chilo di grano è lievitato sui 3.000 won. Al cambio ufficiale, sarebbero rispettivamente circa 5,50 e 3,30 dollari. Ma al mercato nero il cambio è molto più debole.

Altro aspetto che sta attirando le attenzioni degli analisti stranieri, specie americani, è il mutato aspetto fisico di Kim Jong Un. Dopo un’assenza lunga un mese dal pubblico, è riapparso visibilmente più magro. Il dittatore è notoriamente in sovrappeso e forse questa sua condizione fisica gli avrebbe provocato problemi cardiovascolari, tanto che nella primavera dello scorso anno se n’era temuta persino la morte. Il dimagrimento sarà stato voluto o è sintomatico di una qualche debilitazione? Difficile credere che il leader indiscusso della Corea del Nord stia patendo la stessa fame di larghi strati della popolazione.

I racconti che arrivano dalla provincia del Sud Pyongan suonano terribili. Diverse famiglie hanno dovuto vendere la casa per racimolare un po’ di denaro con cui sopravvivere. I commercianti risulterebbero tra i più colpiti. Con la chiusura delle frontiere, infatti, non hanno più potuto importare ed esportare alcunché. Uno di loro è stato ucciso da un trafficante sul mercato nero, dopo che gli era stato intimato di saldare un debito, non onorato per assenza di denaro.

Gli occhi di Pyongyang su Biden

Fatto sta che i nordcoreani speravano almeno che le frontiere con la Cina sarebbero state riaperte a maggio. Non è avvenuto, segno che il regime abbia estrema paura di importare il virus, consapevole che il sistema sanitario non reggerebbe un solo giorno. Le strutture ospedaliere sono quasi inesistenti, fatiscenti e disponibili per pochissimi privilegiati. Gli stessi militari non vengono curati qualora avessero bisogno, se non con un po’ di alcool e una garza di cotone nel caso di ferite e sempre dietro pagamento. Un’economia al collasso, per cui l’unica speranza adesso si chiama Joe Biden.

Kim Jong Un incontrò tre volte l’ex presidente Donald Trump tra il 2018 e il 2019.Ma non essendo disposto a rinunciare al suo programma nucleare, il negoziato si è rivelato un flop. Il dittatore spera ora che il nuovo inquilino alla Casa Bianca apra a Pyongyang. Difficile, tuttavia, che il dialogo possa essere riallacciato senza un qualche gesto simbolico sul piano del rispetto dei diritti umani. A tale proposito, il regime terrebbe nei campi di concentramento circa 120.000 persone accusate di fare opposizione politica e costrette a mangiare rane e topi per sopravvivere. Le sanzioni americane isolano ancora di più la Corea del Nord, sebbene i commerci in nero con la Cina siano proseguiti quasi indisturbati fino all’arrivo della pandemia. Ma senza l’uscita dall’isolamento internazionale, l’economia pianificata non potrà superare lo stato di miseria in cui versa per ammissione stessa del suo leader.

https://youtu.be/O96SbEkvZx8

MANIFESTAZIONI IN INGHILTERRA 26 APRILE 2021

Primo Maggio in Piazza Castello a Torino: scontri tra antagonisti e forze dell’ordine. Ghigliottina a Mario Draghi

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La nuova alleanza Usa-Europa contro la Cina voluta da Biden

L’America fa poche concessioni a Pechino, ma a differenza di Trump cerca supporto dagli alleati. Intanto sembra rientrata l’aggressività sulle tasse, ma resta il rischio di un errore della Fed

Stefano Caratelli  14 Giugno 2021 – 8:26

Solo poco più di 4 anni fa il leader cinese Xi Jinping dalle nevi del World Economic Forum di Davos ammaliava i leader europei e non come un ‘pifferaio magico’, presentandosi da campione del libero mercato globale, minacciato dal neo-protezionismo pericoloso e potenzialmente guerrafondaio di Donald Trump, che appena insediato alla Casa Bianca aveva dichiarato la ‘guerra dei dazi’ al colosso orientale, ma anche ai tedeschi e perfino agli alleati del Nafta canadesi e messicani. Joe Biden avrebbe dovuto restaurare il mondialismo di Obama inaugurando un ‘vogliamoci bene’ globale su scambi e competizione tecnologica, facendo finalmente pagare ai ricchi americani il costo degli stimoli anti-Covid e persino dando di nuovo via libera ai programmi nucleari dell’Iran. Il quadretto che ci restituisce il G7 in Cornovaglia è decisamente un po’ diverso. Biden non solo non ha fatto pace con Xi, ma lancia accuse ai cinesi di concorrenza sleale che vanno oltre i prezzi stracciati e gli abusi tecnologici, e si spingono alla denuncia del ‘lavoro forzato’, fino alla sfida ‘belt and road’ di Pechino, con il grande piano infrastrutturale globale a guida G7.

PIATTAFORMA PER IL G20 DI ROMA

Un’agenda per ora tracciata solo a grandi linee, che sposta comunque sul piano più alto della politica le rivendicazioni puramente economiche di Trump alla Cina, e che toccherà probabilmente a Mario Draghi trasformare in qualcosa di accettabile anche per i colossi emergenti al G20 di Roma che presiederà a novembre, probabilmente facendo la parte del ‘poliziotto buono’, come sta già lasciando intendere, lasciando a Biden quella del ‘cattivo’. Rispetto a Trump, la visione di fondo di Biden non sembra molto diversa, prima viene l’America poi il resto del mondo. Solo che alla guerra The Donald ci andava da solo sparando tweet notturni contro tutti e tutto, mentre Joe sta cercando di costruire un’alleanza occidentale per andare più forte al confronto con il rivale globale cinese, e invece di esporsi come un bersaglio sui social fa filtrare le sue intenzioni sui media tradizionali ancora autorevoli, come il WSJ e la Reuters, per vedere l’effetto che fanno, e se non è esaltante non insiste.

FORSE TOLTO DAL TAVOLO IL RISCHIO TASSE

È stato così per la tassa sui capital gain dei ricchi, qualcuno ne ha sentito parlare ultimamente? Oppure per l’aumento delle tasse della Corporate America, rimasta sostanzialmente nel cassetto e sostituita con la ‘global minimum tax’, perfetta per raccogliere applausi ma poco praticabile nel concreto. Agli alleati europei, in cambio di uno schieramento sulla sua linea con la Cina, ha concesso l’adesione agli accordi di Parigi sul clima, la cui attuazione costerebbe molto di più a Pechino, che finora non ne condivide gli obiettivi di riduzione delle emissioni, che a Washington. Un paio di mesi fa scrivevamo su Financialounge.com che investitori e mercati dovevano tenere d’occhio due possibili errori di ‘politica’, sia da parte dell’Amministrazione Biden che della Fed di Powell: esagerare con tasse e stimoli fiscali e uscita prematura dall’allentamento monetario. Il primo rischio sembra sostanzialmente evitato, anche se i sussidi continuano a correre inducendo molti americani a preferire starsene a casa che accettare salari giudicati troppo bassi.

SULL’INFLAZIONE FALSI ALLARMI

Ma i pasti gratis stanno per finire e si può anche aggiungere che forse salari un po’ più alti non farebbero male neanche alle imprese. Tutto sommato, la piena occupazione di Trump era fatta di tanti posti di lavoro creati nella parte bassa del mercato, mentre un po’ di competizione al rialzo potrebbe rendere la ripresa meno congiunturale e più sostenibile. E se salari più alti si aggiungono a tutti gli altri fattori che stanno spingendo l’inflazione costringendo la Fed ad alzare i tassi anzitempo? Nonostante gli allarmi che negli ultimi giorni si sono intensificati, la fiammata inflazionistica americana è tutta dovuta a fattori una tantum, dal rimbalzo del petrolio all’aumento dei prezzi delle materie prime e dei componenti, come i chip, a loro volta dovuti a colli di bottiglia produttivi e distributivi causati su scala globale da pandemia e lockdown, su cui si è ovviamente innestata un po’ di speculazione.

MA RESTA IL RISCHIO DI ERRORE DELLA FED

Quindi resta il rischio di un errore della Fed, cioè interrompere troppo presto il sostegno monetario a mercati e economia, magari anche per riaffermare la sua indipendenza dalla politica, come fece ai tempi di Trump, a fine 2018, solo per essere costretta a una precipitosa marcia indietro spaventata dalla reazione dei mercati. Per questo l’appuntamento del FOMC di metà settimana è importante, e ancora di più il simposio di Jackson Hole di fine agosto in Wyoming, utilizzato l’anno scorso dal capo della Fed Powell per annunciare la nuova linea di tolleranza su un’inflazione anche ben sopra il target del 2%. Nonostante i titoloni di giornali e tv e gli allarmi dei guru, i mercati non credono che sia in arrivo un ritorno strutturale e robusto dell’inflazione, come dimostra il rendimento del Treasury a 10 anni rientrato ben sotto quota 1,5% dopo il picco oltre l’1,7% di fine marzo.

BOTTOM LINE

Per l’investitore globale un Occidente più coeso nel confronto con la Cina è un fattore positivo, nessuno dei due contendenti globali punta alla distruzione dell’altro, e un asse America-Europa più solido può accelerare il processo di modernizzazione di mercati ed economie cinesi e anche in generale emergenti. Serve una piattaforma condivisa almeno nelle grandi linee, che si potrebbe cominciare a costruire al G20 di novembre a Roma, con l’italiano Mario Draghi nel ruolo di ‘capocantiere’.

Attacco hacker al monopolio della steak – carenze e rincari

Maurizio Blondet  2 Giugno 2021 

Che misteriosi,  questi   mai identificati  hackers  che stanno prendendo di mira le fonti di approvvigionamento  strategiche negli Stati Uniti. Ai primi di maggio, col loro non mai  spiegato “attacco informatico”, hanno fatto chiudere la Colonial Pipeline, l’enorme oleodotto che porta benzina e carburante raffinato nell’intera area  sud-orientale degli Usa, ponendo le  premesse per la scarsità e il razionamento.

Adesso (saranno gli  stessi?  “Hackers russi” anche questa volta) hanno attaccato informaticamente JBS,  “la più grande azienda di trattamento carni del mondo”,  la cui sede sociale è  nell’insignificante cittadina di Greely, Colorado,  ma che ha   decine di enormi stabilimenti  di macelleria industriale, dove arrivano gli animali vivi  ed escono i tagli e le hamburger  surgelati;  da sola controlla un quarto della carne bovina in America:  patologia della concentrazione capitalistica  persino nella macelleria,  un altro  semi-monopolio  (della  bistecca)  che scopriamo solo adesso  appunto perché ha subito l’ultimo “attacco informatico” , e  questo è bastato per provocare la chiusura di  ben 13 dei suoi  mega-stabilimenti di macellazione.

Diamo la parola a Bloomberg:

:  Bloomberg News  riporta che un funzionario della United Food & Commercial Workers ha indicato che tutti gli stabilimenti di carne statunitensi di JBS sono stati chiusi a causa di un attacco ransomware durante il fine settimana.

Secondo CBS News, JBS ha interrotto le operazioni in 13 dei suoi impianti di elaborazione. Di seguito l’elenco completo delle chiusure degli impianti”.

Spiega Zero Hedge: “L’attacco ransomware JBS è una minaccia per l’approvvigionamento alimentare degli Stati Uniti, poiché la più grande azienda di carne bovina del mondo controlla circa un quarto del mercato della carne bovina statunitense. Se JBS non può macellare bovini o maiali per un periodo prolungato,  già  nel giro di pochi giorni, potrebbero svilupparsi carenze e i prezzi potrebbero aumentare.

Ricordiamo ciò che è accaduto tre settimane fa durante l’attacco ransomware della Colonial Pipeline Co. che ha provocato carenze, impennata dei prezzi della benzina  e accumulo di panico.  Le tendenze di  per “carenza di carne” sono già alle stelle. All’inizio del mese, gli hacker hanno  attaccato  il più grande operatore di gasdotti degli Stati Uniti, paralizzando le infrastrutture energetiche della costa orientale, provocando interruzioni nei flussi di carburante, facendo salire i prezzi della benzina alla pompa ai massimi pluriennali. La notizia dell’hack ha portato a fenomeni di  panico  da parte di persone preoccupate”.

I nostri lettori,  ben informati, avranno modo di ripercorrere la “strana lettera dal Canada” che apparentemente contiene  la tabella di marcia della “gestione  dello stato d’eccezione” col il pretesto della pandemia; esso prevede

 Interruzioni della catena di approvvigionamento previste, carenza di scorte, grande instabilità economica. Previsto per la fine del secondo trimestre del 2021.

Verrebbe quasi da sospettare  che, essendosi  per i suoi spiriti animali l’economia Usa  ripresa più robustamente e rapidamente di quanto da lorsignori desiderato,  questi   hackers misteriosi  si stiano adoperando per provocare  o aggravare artificialmente la “carenza di scorte” di cui sopra.  Naturalmente il vostro cronista prende energicamente le distanze da questa teoria del complotto –  almeno fino al  giorno  in cui sarà confermata dal mainstream che adesso la bolla come fake, com’è avvenuto per la storia del coronavirus   che è stato “fabbricato”  volontariamente  a Wuhan, che prima era vietato dire, oggi invece è  bisogna dire perché la “narrativa” si è modificata in versione anti-cinese.

Carenze si accompagna a rincari. In questo si segnala lo Stato del Michigan, che per lo scopo nobilissimo di ridurre  il CO2, e contribuire  alla de carbonizzazione, ha dato il via ad un aumento del 50% – dicesi 50  per cento  – dell’elettricità nelle ore di punta al milione e mezzo di utenti della Consumers  ENErgy:  in ciò imitando stranamente le direttive della Unione Europea,  che penalizza l’emissione di  di  combustibile da riscaldamento e trasporto in modo esoso, onde ridurne l’uso.

Il punto, come rileva l’analista supremo di Bloomberg,  è che

“Negli Stati Uniti, i lockdown  della pandemia stanno volgendo al termine e con essi è iniziata una massiccia ripresa economica. Il parallelo più vicino è il dopoguerra. Quella volta ha portato a un massiccio ‘reset’ sociale in termini di occupazione, alloggi, infrastrutture, salari e mercati finanziari – proprio come adesso”, ha affermato Barry Ritholtz in un articolo di “ Bloomberg ” ( QUI un video)”. Bisogna che anche  questa volta si produca  la situazione descritta nel

libro “Winner-Take-All Society” (La società del chi-vince-prende-tutto) di Robert H. Frank e Philip J. Cook è stato pubblicato per la prima volta nel 1995. Descrive un’”economia pesante”. “Ritholtz afferma:” A quel tempo le 50 aziende più grandi del mondo avevano un valore totale di circa il cinque percento del prodotto interno lordo globale. Oggi le 50 aziende più grandi rappresentano il 28 percento del PIL mondiale. Il grande può diventare più grande? Difficile da capire, ma era sicuramente l’ultima tendenza”.

Vadano in malora le loro   macchinazioni!

Il ritorno dell’inflazione e altri déjà vu

L’Alieno Gentile Scritto il 

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Una inflazione americana sopra le stime (+4,2% su base annua, ma con una angosciante progressione su base mensile: +0,8% il dato di aprile (un valore che fino a poco tempo fa avremmo scambiato come dato annuale), che è giunto dopo il +0,6% di marzo, e il +0,4% di febbraio. Un ritmo che proiettato su base annua, va oltre il +7%.

E allora il pensiero corre a quando si formò la precedente fase di robusta inflazione strutturale: stiamo vivendo un

déjà vu?

Cosa la provocò? Coca comportò? e Come se ne uscì? Domande che affollano la mente. Abbiamo provato a ragionarci a voce, nella puntata di questa settimana di “Economia per Tutti” (potete scroccare l’ascolto gratuito qui):

https://open.spotify.com/embed/episode/6z0Rgq42N7izi7JJGg7p0p

Ma per chi preferisse una lettura (e qualche link utile) lasciamo questo post a supporto.

Gli USA del primo dopoguerra erano una economia che disponeva di enormi quantità di risparmio:la liquidità tenuta da parte dai cittadini era pari a 230 miliardi di $ (per avere un parametro: il budget federale era di 10 miliardi), grazie ai prezzi calmierati del periodo bellico.

In tutto l’Occidente il Piano Marshall (inversione a “U” rispetto ai risarcimenti di guerra chiesti dopo il primo conflitto) garantiva sostegno, mentre le Banca Mondiale finanziava i Piani Nazionali di Ricostruzione, in uno schema che si reggeva su una fiscalità ancora molto invadente.

Il Boom economico

Il Boom economico divenne presto un boom di consumi: la crescita demografica e l’espansione delle città garantiva domanda di elettrodomestici, forniture e servizi, e rendeva necessaria per tutti l’automobile, contribuendo a mantenere il volano economico in fermento.

John Fitzgerald Kennedy avviò la lunga era degli stimoli fiscali, mentre il suo successore Lyndon Johnson ideò e promosse il welfare:

  • Medicare (tutela sanitaria per gli anziani)
  • Medicaid (tutela sanitaria per i poveri
  • Un piano per la gestione degli impatti della crescita (su inquinamento e disuguaglianze)

Il meccanismo si inceppa

Questa serie di successi sembra oscurata dai successi ottenuti dai rivali sovietici. Sebbene dovessero reprimere con la forza il dissenso (segno evidente che c’erano delle cose che non funzionavano affatto) il modello autoritario sovietico garantiva una “invidiabile” efficienza nell’ottenere gli obiettivi e l’anticomunismo crebbe sempre più vigoroso, fino a creare danni sia all’interno (il maccartismo provocò la dispersione di enormi quantità di talento) che a livello estero: gli USA iniziarono a fiancheggiare golpe e dittatori, in Sud America e in Medio Oriente, per contrastare ogni manifestazione del comunismo.

Le cose, in economia, iniziarono a non funzionare più molto bene, l’aspettativa di inflazione finiva per essere la prima causa della stessa inflazione, con le aziende che temendo di trovare condizioni in peggioramento, anticipavano il rialzo dei prezzi. Un meccanismo che non era previsto nella teoria economica (che prevedeva che i prezzi si formassero dall’incontro fra domanda e offerta) e che fece accantonare i modelli keynesiani.

Per comprendere Keynes non è conveniente leggere i suoi scritti,
si può comprenderlo meglio leggendo “Keynes e l’instabilità del capitalismo” di Hyman Minsky
e “Fondamenti di analisi economica” di Paul Samuelson

La crisi petrolifera

Con la guerra del Kippur, l’appoggio USA a Israele e la rappresaglia araba sulle estrazioni petrolifere, si ruppe definitivamente la relazione storica inversa fra disoccupazione e inflazione (se era bassa una era alta l’altra e viceversa): i prezzi del petrolio andarono alle stelle, e ad una elevata inflazione si abbinò una disoccupazione che non aveva precedenti.

Come riuscivano le aziende a spostare verso l’alto i prezzi dei loro prodotti, come se fossero dei monopolisti? Creando dei monopoli attraverso i marchi: attraverso la forza del marchio le aziende potevano vantare l’esclusiva sui loro prodotti, conferendo loro il potere di un monopolista.

Fu l’esplosione del ciclo pubblicitario, la nascita dell’industria della creazione di bisogni, l’ideazione dell’obsolescenza programmata, e in un certo senso anche del concetto di stagionalità della moda. Si trattò di una vera svolta nella storia della scienza sociale, e possiamo documentarci a dovere su questa questione grazie all’ottimo libro “La società opulenta” di John Kenneth Galbraith.

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L’inflazione viene spesso chiamata “tassa implicita” per la sua natura poco apparente, ma in quegli anni ebbe anche un ruolo fiscale esplicito: provocava “salti di scaglione” fiscale (le soglie venivano adeguate con una certa calma…) finendo per ridurre le differenze di trattamento tra chi stava nello scaglione massimo e gli altri.

Fu necessario l’intervento di Volcker, con una dolorosa sequenza di rialzi dei tassi, per fermare la belva inflattiva, al costo di una pesantissima recessione. Ma come diciamo nel podcast, la Storia non si ripete mai uguale e il comportamento umano è imponderabile, il nostro futuro non è già scrit

La maledizione del petrolio per il Venezuela: servono 100 miliardi per estrarlo, PIL a -85% dal 2013

Il Venezuela ha trasformato una risorsa preziosa come il petrolio in una maledizione. L’economia è tornata ai livelli degli anni Ottanta.

di Giuseppe Timpone , pubblicato il 17 Maggio 2021 alle ore 16:26

Stando agli stessi dati inviati dal Venezuela all’OPEC, nel mese di aprile il paese ha estratto appena 445 mila barili al giorno di petrolio. Prima che Hugo Chavez prendesse il potere alla fine degli anni Novanta, le estrazioni avevano toccato il massimo storico di 3,4 milioni di barili al giorno. Ad ogni modo, ancora nel 2015 si attestavano a 2,4 milioni.

Quella del petrolio in Venezuela è una storia raggelante di sperperi, corruzione e cattiva gestione di una risorsa preziosa. E dire che il “chavismo” nel paese andino si fosse affermato proprio nel nome di una gestione più assennata delle risorse petrolifere. I numeri parlano da sé. Oggigiorno, un dollaro vale 3 milioni di bolivares, ma bisogna tenere conto che nell’agosto 2018 furono emesse nuove banconote con 5 zeri in meno. Dunque, un dollaro si scambia contro 300 miliardi di vecchi bolivares. Il cambio ufficiale fino a qualche anno fa era di 1:10 e prima ancora di 1:3. Un disastro provocato dall’iperinflazione, che attaglia l’economia venezuelana da ormai 4 anni.

Petrolio in Venezuela risorsa sprecata

Ma cosa c’entra il petrolio in Venezuela con tutto questo? Chavez ebbe la fortuna di arrivare al potere poco prima che le quotazioni sui mercati internazionali s’impennassero con lo sviluppo dell’economia cinese e delle altre emergenti. Si calcola che nei suoi anni di governo, cioè dal 1999 a inizio 2013, affluirono nelle casse dello stato ben 1.000 miliardi di dollari grazie al greggio. Ebbene, di tutto questo fiume di denaro non resta che la miseria di una popolazione affamata e in fuga per sfuggire alla povertà più estrema. Si stima che 5 milioni siano gli abitanti che hanno attraversato il confine per recarsi altrove, molti nella vicina Colombia.

Tornare ai livelli di estrazioni pre-Chavez richiederebbe almeno 58 miliardi di dollari di investimenti, stando alla compagnia statale PDVSA. Le opposizioni appaiono ben più pessimiste: servirebbero 98 milioni per tornare a 2,2 milioni di barili al giorno, la quantità estratta poco prima che iniziasse la lunga crisi. Denaro, che Caracas certamente non ha. Dovrebbe trovarlo tra gli investitori stranieri, come attraverso gli Accordi per i Servizi alla Produzione. Lo schema consiste nel fare partecipare società straniere alle operazioni di trivellazione in nuovi campi e remunerarle con una quota dei ricavi generati.

Il problema è che il petrolio in Venezuela è sotto embargo dagli USA. Nessuna società estera si avvicina a Caracas, temendo di finire nella “lista nera” di Washington. Ma senza petrolio, l’economia del Venezuela semplicemente non esiste. Esso equivale al 99% delle esportazioni. In pratica, è l’unico bene venduto all’estero e la produzione di altri beni per il mercato interno è quasi inesistente, a causa della politica socialista imposta dal governo. Tra prezzi controllati e forti limitazioni alla libertà d’impresa, nessuno ormai produce nulla. E già prima di Chavez il parassitismo sociale era un fenomeno piuttosto diffuso.

L’illusione di vivere sopra le proprie possibilità

Dal 1998 al 2013, anno di inizio della crisi del Venezuela, le importazioni sono aumentate da 14,25 a 44,9 miliardi di dollari. Nel frattempo, le esportazioni schizzavano da 17 a 88 miliardi. Tuttavia, queste coincidevano sostanzialmente con il greggio. Gli altri beni esportati passarono da 5 a poco più di 2 miliardi. E lo stato regalò a tutti l’illusione di poter vivere sopra le proprie possibilità. I tassi d’interesse furono mantenuti appositamente sotto l’inflazione, con la conseguenza che il denaro non costava nulla e tutti potevano prenderlo a prestito per consumare, non già per investire. E così, l’indebitamento privato salì dal 12% al 30% del PIL, mentre tutti potevano fare benzina sottocosto. Tanto pagava lo stato.

Paradosso ancora più eclatante: le estrazioni di petrolio crollarono sotto Chavez, mentre il numero dei dipendenti di PDVSA triplicò. E nel 2002, quando la società reagì ai tentativi di controllo del governo con scioperi ad oltranza, la dirigenza fu semplicemente sostituita a favore di militari senza alcuna competenza nella gestione di risorse petrolifere.Ne seguirono il pauroso tracollo della produttività, l’impennata dei costi di produzione e lo spreco di centinaia di miliardi di dollari di ricavi. La corruzione è così radicata a Caracas, che ormai neppure alleati come Russia e Cina prestano più denaro al regime di Nicolas Maduro, successore di Chavez dal 2013. E così, da paese con le maggiori riserve di petrolio al mondo, il Venezuela si ritrova da anni a secco di carburante e senza denaro per ricavarlo.

L’Argentina sulla via del decimo default: ieri il presidente Fernandez è stato da Draghi a Roma

L’economia argentina è stata travolta dalla crisi finanziaria e nell’ultimo anno anche dal Covid. A rischio ancora una volta la sostenibilità del debito.

di Giuseppe Timpone , pubblicato il 14 Maggio 2021 alle ore 15:48

Il presidente Alberto Fernandez è stato ricevuto ieri dal premier Mario Draghi a Palazzo Chigi, al termine di un tour europeo che lo ha visto girare a Madrid, Lisbona e Parigi in cerca di sostegno. La sua Argentina cammina a rapidi passi verso il decimo default della sua storia. Ormai, associare Buenos Aires al fallimento è quasi istantaneo. E i fatti non riescono a smentire il cliché, anzi. Il capo dello stato, in carica dal dicembre 2019, vorrebbe rinviare di altri 4 anni il pagamento dei debiti contratti con il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Il suo predecessore Mauricio Macri ottenne nel 2018 ben 56 miliardi di dollari dall’istituto, di cui 44 miliardi già erogati.

Default Argentina, una storia travagliata

Ma il default in Argentina è uno spettro che accompagna ormai costantemente la storia nazionale negli ultimi decenni. A fine 2001, il paese dovette alzare bandiera bianca su quasi 100 miliardi di dollari nei confronti dei creditori stranieri, molti dei quali italiani (la famosa vicenda dei Tango bond). Nel 2005, offrì loro un accordo: pagamenti dilazionati e per solo il 35% del capitale nominale. Un 7% degli investitori non accettò e fece causa al governo dinnanzi al tribunale di New York. Il giudice Thomas Griesa diede loro ragione, ma l’allora presidenta Cristina Fernandez de Kirchner si rifiutò di pagare. Scattò l’ottavo default, a cui pose fine due anni più tardi Macri.

Ma nel 2018, la sfiducia dei mercati verso le reali capacità riformatrici del governo provocò il collasso del peso. L’Argentina ebbe nuovamente bisogno di soldi per evitare il fallimento e l’FMI glieli diede per l’ennesima volta. Con il ritorno alla presidenza dei peronisti di sinistra, però, si dà vita a una ristrutturazione del debito su 65 miliardi di dollari in mano ai creditori privati.L’accordo è stato siglato nell’estate scorsa e, secondo le stime di Buenos Aires, sfoltisce i pagamenti di 37,7 miliardi in 10 anni. Tra l’altro, la cedola media dei nuovi bond è stata tagliata dal 7% al 3%, mentre il capitale sarà rimborsato al 55%.

Tuttavia, i debiti verso l’FMI restano intonsi. L’ex presidenta, oggi numero due dell’amministrazione, guida il fronte dei contrari a un accordo in cambio di riforme. Nei giorni scorsi, è stata chiara quando ha dichiarato che “non pagheremo i debiti, perché non abbiamo soldi”. Nel frattempo, il PIL nel 2020 è crollato del 9,9% anche a causa del Covid, mentre l’inflazione galoppava al 46,3% in aprile. E il cambio continua a collassare: sul mercato nero ci vogliono 151 pesos per un dollaro, molti di più dei 94 richiesti secondo il cambio ufficiale. Quest’ultimo perde il 28% in un anno e l’85% in 5 anni.

Solito governo “tassa e spendi”

Con il tour europeo, Fernandez spera di ottenere un doppio aiuto dai governi: condizioni migliori sui 2,4 miliardi dovuti ai creditori del Club di Parigi e una buona parola per l’FMI. Il problema dell’Argentina, però, resta lo stesso. Non riesce a pagare, perché gestisce in maniera fallimentare la sua economia. Ad esempio, sta ponendo un tetto sui prezzi di centinaia di prodotti per combattere l’inflazione, ma di fatto alimentandola. Poiché l’offerta si riduce per l’impossibilità di tenere testa ai costi, i prezzi esplodono. Peraltro, come in ogni economia dirigistica che si rispetti, il mercato nero si mostra fiorente.

La povertà riguarda ormai più di 10 milioni di argentini, quasi un quarto del totale, mentre il governo cerca di fare cassa tassando tutto. Ha imposto una tassa “di solidarietà” del 30% sulle spese realizzate all’estero con le carte, mentre vorrebbe aumentare i dazi sulle esportazioni per dirottare la produzione sul mercato domestico. Imposta anche una patrimoniale sulle ricchezze più elevate. Per frenare la fuga dei capitali, ha limitato a 200 dollari al mese i prelievi dalle banche.La retorica fortemente anti-capitalistica tiene alla larga gli investitori stranieri e mette in fuga persino quelli nazionali. L’unica possibile boccata di ossigeno al paese arriverebbe dall’aumento delle riserve dell’FMI (SDR), attingendo alle quali l’Argentina riuscirebbe a pagare un paio di scadenze nei prossimi mesi.

Niente riforme economiche, Fernandez ostaggio di Cristina

Di questo passo, gli analisti ritengono che il decimo default dell’Argentina scatterebbe entro il 2024. In effetti, la ristrutturazione del debito avvenuta nel 2020 è stata forse la prima nella storia a non avere riscosso alcuna fiducia da qualsivoglia parte. E’ stata avallata dai creditori per la semplice assenza di alternative pratiche. Ma tutti già sapevano che il debito argentino, ormai sopra il 100% del PIL, sarebbe rimasto insostenibile. Non ci sono riforme economiche che vadano nella direzione di rendere le casse statali meno sconquassate e di sostenere la crescita del paese. E rispetto al passato, non esiste più neppure la speranza di una governance diversa. La presenza della presidenta nell’attuale amministrazione rappresenta l’ostentata volontà del governo di non accettare alcuna riforma necessaria per migliorare le condizioni economiche dell’Argentina. Il decimo default in poco più di 200 anni è dietro l’angolo.

Alta tensione. «La Russia ha spostato 150mila soldati al confine con l’Ucraina»


Luca Geronico lunedì 19 aprile 2021L’Ue, con l’Alto commissario Borrell avverte: è il più ampio dispiegamento di truppe di sempre, «situazine inaccettabile». Ieri al Regina Coeli la preghiera del Papa: servono gesti di riconciliaUn militare dell'esercito ucraino nei pressi del fronte di Donetsk

Un militare dell’esercito ucraino nei pressi del fronte di Donetsk – ReutersCOMMENTA E CONDIVIDI

“La situazione alla frontiera ucraina è molto preoccupante. La Russia sta continuando a trasferirvi qualsiasi tipo di materiale militare, compresi gli ospedali da campo, e vi ha concentrato oltre 150mila truppe, il più alto dispiegamento dell’esercito russo alle frontiere ucraine di sempre“. A lanciare l’allarme sul “rischio di un’ulteriore escalation” è l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell. “Chiediamo” a Mosca “di cessare” i trasferimenti di militari e “allentare le tensioni” mentre “esprimiamo il nostro più forte sostegno” a Kiev, conclude il responsabile della politica estera europea.

Domenica, subito dopo la recita del Regina Coeli era stato papa Francesco ad esprimere la sua “preoccupazione” per la situazione in Ucraina dove “negli ultimi mesi si sono moltiplicate le violazioni del cessate il fuoco”. Papa Bergoglio ha detto di osservare “con inquietudine l’incremento delle attività militari”, auspicando che si promuovano “gesti capaci di promuovere la fiducia reciproca” e si favorisca “la riconciliazione e la pace” con particolare riguardo alla “grave situazione umanitaria in cui versa quella popolazione”.

Una indiretta risposta all’appello di papa Francesco è giunta domenica sera dal presidente francese Emmanuel Macron che in una intervista alla Cbs ha definito “inaccettabile” la situazione al confine russo-ucraino. Il dialogo con la Russia è essenziale, ma con Mosca devono essere fissate delle “chiare linee rosse” con il rischio di sanzioni, rispetto alla questione dell’Ucraina. “Non accetteremo mai nuove operazioni militari sul suolo ucraino”, ha aggiunto il presidente francese. Confidando in un “processo politico” per risolvere la crisi, il leader dell’Eliseo ha osservato che le sanzioni e le altre prese di posizioni della Nato non hanno fermato l’aggressione russa: questo “non è il fallimento della democrazia ma un fallimento della nostra credibilità collettiva nel confronto con la Russia”.

Intanto unità navali della Flotta del Mar Nero russa hanno iniziato esercitazioni militari che prevedono l’attacco contro “obiettivi nemici fittizi” e il successivo sbarco delle forze speciali sulla costa della regione.Lo rende noto l’agenzia di stampa Tass. I marines della Flotta dislocati in Crimea e nella regione di Krasnodar hanno imbarcato armi e altro personale militare sulle navi d’assalto anfibio, Tsezar Kunikov, Azov e Saratov. La prossima fase delle esercitazioni prevede che i gruppi di combattimento aprano il fuoco contro obiettivi nemici “fittizi” sulla costa e a seguire effettueranno uno sbarco sulle coste di un poligono della Flotta del Mar Nero. Nei giorni scorsi la Gran Bretagna ha annunciato che nel mese di maggio invierà due navi da guerra nel Mar Nero a sostegno dell’Ucraina. Lo hanno riferito fonti ella Marina britannica citate dal “Sunday Times”. Secondo la testata inglese, un cacciatorpediniere con missili antiaerei e una fregata antisommergibile partiranno dalle basi britanniche nel Mediterraneo per
dirigersi verso il Bosforo. I caccia F-35 e gli elicotteri antisommergibile Merlin a bordo della portaerei Queen Elizabeth
saranno pronti a sostenere le due imbarcazioni, riferiscono sempre le fonti della Marina britannica.

Su Taiwan 25 aerei cinesi, mai così tanti

 ANSA 5 ore fa

(ANSA) – PECHINO, 12 APR – Venticinque aerei dell’aeronautica cinese, inclusi 18 caccia e 4 bombardieri con capacità nucleare, sono entrati oggi nella zona di identificazione della difesa aerea (ADIZ) di Taiwan. Lo ha reso noto il ministero della Difesa dell’isola, sottolieando che si è trattata della più grande incursione finora riportata. La mossa è maturata a dispetto deI monito del segretario di Stato americano Antony Blinken che domenica, esprimendo la preoccupazione degli Usa per le azioni aggressive della Cina, ha avvertito che sarebbe un “grave errore” per chiunque cercare di cambiare con la forza lo status quo nel Pacifico occidentale. (ANSA).Su Taiwan 25 aerei cinesi, mai così tanti

Kim Jong-Un paragona la crisi attuale in Corea del Nord alla carestia degli anni Novanta

La chiusura delle frontiere contro il Covid ha fatto collassare i già pochi scambi commerciali tra il regno eremita e la Cina, unico partner di Pyongyang.

di Giuseppe Timpone , pubblicato il 09 Aprile 2021 alle ore 10:47

Kim Jong-Un parla di rischio carestia

Incontrando i quadri inferiori del Partito dei Lavoratori, il leader nordcoreano Kim Jong-Un ha espresso preoccupazione per quella che definisce “la più grave crisi di sempre” del paese. Rivolgendosi ai presenti, cellule di basso livello del partito impiegate per lottare contro “gli stili anti-socialisti e non socialisti”, ha paragonato la situazione attuale alla carestia degli anni Novanta. Allora, i morti per fame furono calcolati dalle organizzazioni internazionali tra i 2 e i 3 milioni. Una enormità in un paese da 25 milioni di abitanti.

Kim Jong-Un ha usato l’espressione “Ardua Marcia” per segnalare le prospettive che attendono il popolo della Corea del Nord. L’espressione rimanda proprio al periodo che va dal 1994 al 1998, quello della carestia. Già al congresso del partito di inizio anno, il leader aveva chiesto scusa al popolo per non essere stato in grado di tenere fede alla promessa di migliorare sensibilmente la vita nel paese. In quell’occasione, aveva nominato un nuovo premier, licenziato un mese dopo per la frustrazione sul nuovo piano quinquennale, giudicato in continuità con i precedenti.

Kim Jong-Un teme per le campagne

La Corea del Nord chiuse le frontiere di circa 1.400 km con la Cina nel gennaio 2020, al fine di evitare i contagi da Covid. Gli scambi commerciali tra i due paesi sarebbero crollati tra l’80% e il 90%, decimando le importazioni e accentuando la carenza di beni nel cosiddetto “regno eremita”. Kim Jong-Un aveva tollerato sin dal suo insediamento alla guida del paese le attività private. Ma nell’ultimo anno, la repressione ai danni del mercato nero si è inasprita, specie alla frontiera con la Cina. Secondo organizzazioni umanitarie straniere, molti ragazzi e bambini si trovano costretti a mendicare in città per sopravvivere.E per sopperire alla carenza di cibo, il regime sta facendo uccidere i cani per servirli nei ristoranti.

Che la situazione in Corea del Nord sia gravissima lo dimostrerebbe anche l’esplosione dei prezzi alimentari. Dalla farina allo zucchero, tutto è rincarato anche per 3-4 volte nell’ultimo semestre, segno che i viveri scarseggino. E da un monitoraggio condotto da Daily NK, quotidiano di opposizione al regime comunista con sede all’estero, sembra che i prezzi stiano divaricandosi da una regione all’altra. Negli ultimi anni, si era registrata la tendenza opposta, ossia alla convergenza dei prezzi, vuoi per il miglioramento dei trasporti delle merci, vuoi per la volontà di Kim Jong-Un di accettare una maggiore dose di libero mercato.

Il fatto che i prezzi stiano aumentando in maniera molto difforme tra regione e regione confermerebbe che il regime privilegerebbe alcune realtà a discapito di altre. In effetti, sembrerebbe che nei mercati di Pyongyang e Pyongsong i rincari siano stati molto, molto meno pronunciati che in altri come Hoeryong. In quest’ultimo, si può arrivare anche al +250% in più. Dunque, le merci vengono distribuite prioritariamente nelle grandi città, dove risiede la parte più benestante della popolazione. Le campagne sarebbero ancora una volta abbandonate a sé stesse, aggravando le già tremende condizioni di vita degli abitanti.

Rischio carestia reale?

Si arriverà a una carestia come negli anni Novanta? Probabile di no. Il presidente cinese Xi Jinping ha promesso di tutelare “il benessere dei due popoli”, facendo intendere che interverrebbe nel caso di collasso assoluto della Corea del Nord. E nei giorni scorsi si era diffusa voce che Kim Jong-Un stesse per ordinare la riapertura delle frontiere. Peraltro, una delle fonti crescenti e quasi unica di accesso ai dollari si è prosciugata del tutto nell’ultimo anno: il turismo. Si stima che nel 2019 siano arrivati nel paese 350.000 cinesi per un giro d’affari di 175 milioni di dollari. Possono sembrare pochissimi, ma inciderebbero per quasi lo 0,5% del PIL.E si tratta praticamente dell’unico settore non colpito dalle sanzioni internazionali dell’ONU.

Sotto Kim Jong-Un, il turismo ha fatto passi in avanti, per quanto il settore rimanga notevolmente sottosviluppato. Anzitutto, gli ingressi di cinesi vengono contingentati a 1.000 al giorno. Inoltre, chi entra è “accompagnato” per tutto il tempo da due guide, che nei fatti sono controllori a tutti gli effetti del turista. E le limitazioni di movimento sono fortissime. Ma non sarà la riattivazione del turismo a offrire sollievo all’economia nordcoreana, quanto quella degli scambi commerciali. Il problema sarebbe evitare l’ingresso ufficiale della pandemia nel paese, date le strutture sanitarie arcaiche e del tutto inadeguate. Altro che carestia. Pyongyang rischierebbe lo sterminio di una popolazione malnutrita e debolissima.

Crisi Libano, così la Germania si espande nel Mediterraneo: ricostruzione del porto in cambio di riforme

Berlino e Parigi si offrono di ricostruire il porto di Beirut, distrutto da una forte esplosione nell’agosto scorso, ma dietro impegni precisi.

di Giuseppe Timpone , pubblicato il 03 Aprile 2021 alle ore 08:49

Germania e Francia in pressing sul Libano

La crisi economica, finanziaria, sanitaria e politica del Libano attira le attenzioni di Berlino. Ieri, un paio di fonti hanno riferito all’agenzia Reuters che Francia e Germania si sarebbero offerte di provvedere alla ricostruzione del porto di Beirut, distrutto da violente esplosioni nell’agosto scorso. Sempre secondo tali indiscrezioni, i due stati europei avrebbero posto come condizione che la politica libanese quanto prima sblocchi l’impasse sulla formazione del nuovo governo e che questi s’impegni a varare riforme per il ritorno alla crescita dell’economia. Il governo del premier uscente Hassan Diab si è dimesso a pochi giorni di distanza dall’incidente, ma da allora un nuovo esecutivo non è stato formato.

Il progetto tedesco consisterebbe nel mettere mano a un’area di 100 ettari, avvalendosi del supporto di una società per azioni quotata alla borsa del Libano e fondata dall’allora premier Rafik Hariri negli anni Novanta: Solidere. Peraltro, egli fu padre di Saad, premier incaricato da mesi dal presidente Michel Aoun e le cui dimissioni dalla guida del governo nell’ottobre 2019 diedero vita a una disastrosa fuga dei capitali, scatenando l’incredibile crisi economico-finanziaria di quest’ultimo anno e mezzo.

Se l’attivismo della Francia si è sinora giustificato con il passato storico del Libano, che fu colonia di Parigi fino al 1945, l’ingresso dei tedeschi nell’alveo delle potenze che seguono il dossier di Beirut rappresenta una novità inattesa e, per certi versi, interessante da un punto di vista geopolitico. Questo sarebbe il primo intervento diretto di Berlino nel Mediterraneo, oltretutto in un’area molto “calda” per via delle tensioni religiose e politiche.

In Libano tensione alle stelle per il crollo del cambio, i militari rimuovono i blocchi stradali

Paralisi politica a Beirut

Il costo del progetto a cui starebbero lavorando Francia e Germania oscillerebbe tra i 5 e i 15 miliardi di dollari e creerebbe 50 mila posti di lavoro.Cifre, che fanno capire il forte impatto che l’opera avrebbe sull’economia domestica, collassata in quest’ultimo anno e mezzo a circa 50 miliardi di dollari. Non vi entrerebbe la Banca Europea per gli Investimenti, in quanto il suo coinvolgimento richiederebbe un’operazione di “due diligence” che porterebbe via tempo e che alle condizioni date risulterebbe forse persino impossibile da implementare, in assenza di un esecutivo nel pieno dei poteri.

Quali sarebbero le riforme a cui eventualmente il prossimo governo libanese dovrebbe attenersi per ottenere la ricostruzione del porto? Essenzialmente, risanamento fiscale, ristrutturazione del debito pubblico, liberalizzazione del tasso di cambio e una governance più efficiente. La lira sul mercato nero è crollata del 90% rispetto al tasso ufficiale. L’inflazione a dicembre è salita sopra il 145%, segnando +400% per i generi alimentari. Il paese importa praticamente di tutto dall’estero, anche a seguito della scarsa competitività delle sue imprese con il cambio forte adottato negli ultimi decenni. Prima del Covid, il passivo della bilancia commerciale si attestava a quasi un terzo del PIL.

Al momento, la politica resta bloccata dai veti incrociati tra sciiti, sunniti e minoranza cristiana. Hezbollah, il braccio armato della fazione sciita filo-iraniana, non vuole saperne di richiesta di assistenza al Fondo Monetario Internazionale, sostenendo che ciò implichi l’adozione di politiche di austerità contrarie agli interessi della popolazione. Senonché, l’austerità nel paese si respira severamente da mesi, con il tasso di povertà relativa esploso al 60% e gli stipendi falcidiati dalla corsa sfrenata dei prezzi, a sua volta trainata dal collasso della lira. I paesi donatori, che già da qualche anno si erano impegnati a stanziare una dozzina di miliardi per aiutare Beirut, hanno fatto presente che non sganceranno un euro senza nuovo governo e riforme. Chissà che l’ingresso della Germania nella vicenda non muti l’atteggiamento dell’irresponsabile e inamovibile élite libanese.

Ci sarà molta più miseria in Libano e l’inflazione viaggia già sopra il 300%

Bond Turchia senza appeal persino con rendimenti al 20%, ecco perché

Le obbligazioni in lira turca sono oggetto di forti vendite dopo il licenziamento del governatore centrale. Ma il boom dei rendimenti non basta.

di Giuseppe Timpone , pubblicato il 27 Marzo 2021 alle ore 09:23

Bond Turchia al collasso

E’ stata una settimana drammatica per il mercato finanziario turco. Venerdì 19 marzo, il presidente Erdogan licenziava il terzo governatore della banca centrale in poco più di un anno e mezzo. Naci Agbal veniva rimpiazzato con il più fidato Sahap Kavcioglu, confermando la propria ostilità per una politica di alti tassi contro l’inflazione. Alla riapertura dei mercati, il crollo della lira turca è stato impressionante: fino al -17%, salvo recuperare parzialmente le perdite e chiudere la settimana a -10%. Il tasso di cambio contro il dollaro è esploso da 7,22 a circa 8.

Il mercato sovrano di Ankara ne ha risentito duramente. I rendimenti a 10 anni sono saliti di oltre 500 punti base al 18,60%, mentre la scadenza a 2 anni ha accusato un rialzo di circa 470 punti al 19,43%. Il collasso ha riguardato anche i titoli denominati in valute straniere, con il bond in dollari 15 gennaio 2030 e cedola 11,875% ad avere perso il 7,5% e quello in euro con scadenza 16 febbraio 2026 e cedola 5,2% ad essersi deprezzato del 6,75%. Questo, perché il crollo ulteriore della lira impatta negativamente sulla sostenibilità del debito estero.

Dall’inizio dell’anno, i deflussi dai fondi obbligazionari turchi sono stati di quasi 1 miliardo di dollari (977,6 milioni). Si direbbe che sia arrivato il momento di tornare a guardare alla Turchia, dati i rendimenti elevatissimi e un tasso di cambio già indebolitosi a doppia cifra in poche sedute. La realtà è, però, molto meno rassicurante. Secondo Commerzbank, le previsioni sulla lira turca a fine anno si sono indebolite a titolo puramente indicativo da 8 a 10 contro il dollaro. Se avesse ragione, il cambio perderebbe un altro 20% da qui a nove mesi. Capite bene che non avrebbe alcun senso investire in assets che offrano rendimenti del 20%, quando altrettanto lo si perderebbe teoricamente a causa del cambio. E il trend negativo va avanti ormai da anni, se è vero che nell’ultimo decennio la lira ha perso oltre l’80%.

Investire in bond della Turchia senza correre il rischio di cambio diventa più economico e redditizio

More anarchy in Bristol: Fireworks are launched at terrified police horses as anti-police protests turn violent AGAIN as 10 are arrested and officers use riot shields against bottle-throwing demonstrators

  • Officers used their shields to batter protesters, sending some of them tumbling near Bridewell Police Station
  • More than 100 riot police started to disperse crowds after eggs, bottles and traffic cones were pelted at them
  • Police seen beating at least one protester across the thighs as he refused to go quietly before he was arrested
  • Ten arrests were made after what police called unacceptable ‘violent conduct’ at the third Kill the Bill march
  • Protesters demand the government scrap policing bill which criminalises ‘public nuisance’ demonstrations

By ROSS IBBETSON and TOM BEDFORD and JAMES GANT FOR MAILONLINE

PUBLISHED: 17:14 GMT, 26 March 2021 | UPDATED: 10:17 GMT, 27 March 20

Priti Patel has blasted the ‘thugs’ who were ‘only intent on causing trouble’ at a Kill the Bill protest in Bristol as violence erupted for a third night.

The Home Secretary said she was ‘disgusted’ by the attacks on police last night, which saw protesters launch fireworks at officers on horseback outside Bridewell Police Station.

She said the force ‘have my full support’ and added she believed the ‘silent, law-abiding majority will be appalled by the actions of this criminal minority’.

Boris Johnson also slammed the ‘disgraceful’ protest and hit out at the ‘mob intent on violence and causing damage to property’.

Police used their shields to batter protesters, sending some of them tumbling to the ground as they pushed and shoved at the police line blocking off their headquarters.

More than 100 riot officers started to disperse the crowd of more than 1,000 people after eggs, bottles and traffic cones were pelted at them, with snarling dogs marched forwards to force the demonstrators back.

Officers were seen beating at least one protester across the thighs as he refused to go quietly when he was apprehended. Two other videos on social media showed journalists being shoved back by officers.

Ten arrests were made after what police called unacceptable ‘violent conduct’ at the third Kill the Bill demonstration.

Protesters are demanding the government scrap a new policing bill which criminalises marches deemed a ‘public nuisance.’

Scroll down for video…At around 11pm footage emerged showing mounted officers cantering towards the crowds before a firework was hurled among the horses' hooves. When the rocket exploded the terrified horses scattered across the road as their riders lurched around in their saddles and policemen on foot rushed aside to avoid being clattered by the animals.+103

At around 11pm footage emerged showing mounted officers cantering towards the crowds before a firework was hurled among the horses’ hooves. When the rocket exploded the terrified horses scattered across the road as their riders lurched around in their saddles and policemen on foot rushed aside to avoid being clattered by the animals.Horses are sent skittering across the pavement as a firework explodes at their feet in appalling scenes in Bristol on Friday night+103

Horses are sent skittering across the pavement as a firework explodes at their feet in appalling scenes in Bristol on Friday nightViolence exploded in Bristol again last night with protesters hurling fireworks at mounted police after anarchy broke out yards from the police station which was the scene of last Sunday's chaos+103

Violence exploded in Bristol again last night with protesters hurling fireworks at mounted police after anarchy broke out yards from the police station which was the scene of last Sunday’s chaosTen arrests were made after what police called unacceptable 'violent conduct' at the third Kill the Bill demonstration+103

Ten arrests were made after what police called unacceptable ‘violent conduct’ at the third Kill the Bill demonstrationOfficers used their shields to batter protesters, sending some of them tumbling to the ground as they pushed and shoved at the police line blocking off Bridewell Police Station+103

Officers used their shields to batter protesters, sending some of them tumbling to the ground as they pushed and shoved at the police line blocking off Bridewell Police StationMore than 100 riot police started to disperse the crowd of more than 1,000 people after eggs, bottles and traffic cones were pelted at them, with snarling dogs marched forwards to force the demonstrators back+103

More than 100 riot police started to disperse the crowd of more than 1,000 people after eggs, bottles and traffic cones were pelted at them, with snarling dogs marched forwards to force the demonstrators backPolice riders were sent careering across the road after a firework was pelted at them by a rioter in Bristol city centre on Friday night+103

Police riders were sent careering across the road after a firework was pelted at them by a rioter in Bristol city centre on Friday nightFirework launched towards police horses during Bristol protest

A demonstrator falls during a clash with police officers at the 'kill the bill' protest in central Bristol on Friday night+103

A demonstrator falls during a clash with police officers at the ‘kill the bill’ protest in central Bristol on Friday nightDemonstrators scuffle with riot police in Bristol city centre last night after their protest of the new policing bill turned violent+103

Demonstrators scuffle with riot police in Bristol city centre last night after their protest of the new policing bill turned violent Mounted officers are seen holding their ground before a crowd of people on the streets of Bristol last night+103

Mounted officers are seen holding their ground before a crowd of people on the streets of Bristol last nightA protester is tackled by officers as they move in to shut down demonstrations in Bristol city centre on Friday night+103

A protester is tackled by officers as they move in to shut down demonstrations in Bristol city centre on Friday nightMounted officers backed by policemen with riot shields march the crowds backwards after mayhem broke out on Friday night+103

Mounted officers backed by policemen with riot shields march the crowds backwards after mayhem broke out on Friday night Mounted officers on guard on the streets of Bristol on Friday night as hundreds of demonstrators continued to rail against them+103

Mounted officers on guard on the streets of Bristol on Friday night as hundreds of demonstrators continued to rail against themA protester wrenches at a police riot shield in Bristol city centre on Friday night during clashes between demonstrators and officers+A protester wrenches at a police riot shield in Bristol city centre on Friday night during clashes between demonstrators and officersPolice beat Bristol protester with baton as violence erupts

An officer detains a protester last night as another stands guard while they are surrounded by crowds of demonstrators+103

An officer detains a protester last night as another stands guard while they are surrounded by crowds of demonstratorsPolice officers with raised batons move in to disperse the crowds in central Bristol on Friday night+103

Police officers with raised batons move in to disperse the crowds in central Bristol on Friday nightAn officer wearing riot gear is seen grappling with a protester on the pavement in Bristol last night+103

An officer wearing riot gear is seen grappling with a protester on the pavement in Bristol last nightRiot police were seen using their shields to whack protesters at the front of the line who were shoving into officers+103

Riot police were seen using their shields to whack protesters at the front of the line who were shoving into officersA man wearing a hood shoves back police by holding onto one of their riot shields in Bristol last night+103

A man wearing a hood shoves back police by holding onto one of their riot shields in Bristol last nightAn officer uses the butt of his shield to strike a protester in his midriff during Friday night's riot+103

An officer uses the butt of his shield to strike a protester in his midriff during Friday night’s riotSnarling dogs were deployed by officers to march the crowds out of the city centre and away from the police headquarters+103

Snarling dogs were deployed by officers to march the crowds out of the city centre and away from the police headquarters+103

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Ms Patel tweeted: ‘I’m in no doubt the silent, law-abiding majority will be appalled by the actions of this criminal minority.

‘Despite repeated warnings to disperse, it’s clear these thugs were only intent on causing trouble. I am receiving regular updates and the police have my full support.’

Mr Johnson added: ‘Last night saw disgraceful attacks against police officers in Bristol. Our officers should not have to face having bricks, bottles and fireworks being thrown at them by a mob intent on violence and causing damage to property. The police and the city have my full support.’

At around 11pm footage emerged showing mounted officers cantering towards the crowds before a firework was hurled among the horses’ hooves.

When the rocket exploded the terrified horses scattered across the road as their riders lurched around in their saddles and policemen on foot rushed aside to avoid being clattered by the animals.

‘No, no, stop,’ yelled some protesters, intent on maintaining a semblance of peace amid the rioting.

More than 1,000 had earlier massed outside the police station in the city centre which on Sunday was targeted by rioters who torched police vans amid 40 reports of assaults on officers.

Timeline of the Bristol protests:

Sunday, March 21: 

Around 3,000 were protesting the new policing bill peacefully on College Green before a hardcore of 500 activists arrived outside Bridewell Police Station in Bristol city centre.

They torched police vans, smashed windows of buildings and attacked officers.

Avon and Somerset Police is investigating assaults on 40 officers and one member of the media.

Tuesday, March 23:

Two days after the riot around 100 demonstrators gathered on College Green in the heart of the city’s student area.

On this occasion there was no rioting, but one witness described officers’ dispersal of the protesters as ‘quite heavy-handed’, which was ‘shocking to see.’

Officers made 15 arrests.

Friday, March 26:

Ten arrests were made after what police called unacceptable ‘violent conduct’ at the third Kill the Bill demonstration in Bristol.

Some 300 people initially joined a protest march through the city centre against the Government’s new Police, Crime, Sentencing and Courts Bill on Friday night, before the crowd swelled to more than 1,000 as tempers flared.

As they crowded around the wide cordon set up by police with shields and parked vans, officers were tipped off that a grou

L’eurocretino taglia i ponti con Cina e Russia

Maurizio Blondet  27 Marzo 2021 

“l’Italia si è allineata ad altri paesi europei, tra cui Francia, Germania e Belgio, e ha convocato l’ambasciatore cinese in segno di protesta contro le sanzioni imposte dalla Cina a parlamentari, ricercatori e istituzioni dell’Unione europea. Ne dà  notizia  con grande soddisfazione da  neocon  assetato di conflitto, Il  Foglio , che sottolinea: “E’ la prima volta da almeno due anni – E non c’era ad accoglierlo il ministro Luigi Di Maio, che esattamente due anni fa ha firmato con Pechino l’ingresso dell’Italia nella Via della seta – era in missione a Bruxelles. Li Junhua è stato ricevuto invece dalla viceministra Marina Sereni, in quota Pd. Chi c’era racconta al Foglio di un incontro blindato e teso, ma soprattutto “a dir poco brevissimo”.

Insomma arrogante e  gratuitamente offensivo.  Per tagliare i ponti.

“Nello scarno comunicato della Farnesina  l’Italia “conferma il sostegno alle misure adottate dall’Ue e rigetta come inaccettabili le sanzioni cinesi,  che ledono i fondamentali diritti di libertà di espressione, parola, pensiero ed opinione, il cui esercizio è connaturato al pieno dispiegamento della democrazia e dei suoi valori, cui l’Italia e l’Ue si ispirano”. Silenzio sul caso da parte del ministro ma anche  del sottosegretario agli Esteri con delega all’Asia, Manlio Di Stefano, sempre in quota M5s”.  Così gongola il Foglio.

Insomma da quel che si capisce è stata una iniziativa autonoma di questa Marina Sereni, PC da sempre,  da sempre agli ordini di Bruxelles, senza consultare  il ministro: uno stile inequivocabilmente neocon. Ossia incivile e prevaricatore, secondo la moda  delle relazioni internazionali con insulto e inaugurata da Biden e Blinken.

Invece Putin ha telefonato:  la UE vuole  davvero troncare i ponti?

In significativo contrasto, lunedì scorso il presidente Putin ha preso l’iniziativa di alzare  il telefono e chiamare  Charles Michel, un belga da quattro soldi  che presiede il Consiglio Europeo  – un organo di “governance”  (in UE non  c’è “governo” ma “governance”) che  riunisce i 27  capi dei governi, e che Michel dovrebbe  mettere d’accordo su un compromesso  – per un ultimo tentativo  di  disinnescare il conflitto che   i servi europei di Biden stanno creando di sana pianta, a freddo.

Al telefono, il presidente russo deplorato  lo stato dei rapporti tra Ue e Russia, perlomeno non costruttivi, anzi conflittuali,  e si è detto  pronto a ristabilire normali rapporti se anche l’Ue, da parte sua, è interessata.

Ebbene:  il belga gli ha risposto  con arroganza   che lui  comunque non ha il mandato di disinnescare il conflitto,  ma che ci sono grandi divergenze con la Russia e che questi rapporti sono davvero a un livello molto basso. Per l’UE, il miglioramento di queste relazioni dipende solo dalla Russia. E tre condizioni sono formulate contro di esso:

  •    attuare gli accordi di Minsk, di cui ovviamente  l’UE non è più garante ma parte;
  •    porre fine alla “sua guerra ibrida e agli attacchi informatici contro gli Stati membri –  la Russia è  un paese aggressore per l’UE”;
  • rispettare i diritti umani.

La reazione di Lavrov

Immediata  la reazione del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, che  ha dichiarato  che la Russia non ha rapporti con l’Ue come organizzazione: “Bruxelles ha distrutto le relazioni con Mosca. Sono pochi i paesi in Europa che sono guidati dal loro interesse nazionale e mantengono un partenariato equo con la Russia ”.

Non è che Putin abbia scavalcato Lavrov, o che non sappia che la sua iniziativa avrebbe incontrato il muro arrogante del servo occidentalista che cercava  il conflitto ed  ha avuto la sua vittoriuzza .

La sua telefonata  è un gesto ultimo da uomo di pace,  per cos’ dire fatto “davanti a Dio” : non abbiamo lasciato nulla di intentato,  Tu sei testimone.

Realizzato l’incubo di Mackinder

Il punto è che la cosca Biden-Blinken (e Kagan), con gli insulti e   la delirante intenzione (espressa esplicitamente dall’American Enterprise, di cui il Foglio di Ferrara è l’organo per l’Italia) di aizzare un cambio di regime con la caduta di Putin in Russia, e addirittura quella di Xi in Cina, per riportarli da subalterni nel Dollaro Globale, sta rendendo reale l’incubo piratesco di Halford Mackinder, il saldarsi dell “Isola-Mondo”, l’oceano di terra irraggiungibile dalle incursioni navali brtitanniche.   Gli europeisti atlantisti, gettando   Putin ad allearsi con la Cina, stanno rendendo   realtà “  il  superstato eurasiatico, basato tra il Volga e lo Yangtse”, segnala Alastair McLeod.  E  la definizione è restrittiva:  proprio Mckinder definiva come  come fulcro invincibile mondiale “la pianura che si estende dall’Europa centrale  sino alla Siberia occidentale, che ha una posizione strategica su Mar MediterraneoMedio OrienteAsia meridionale” e confina con  la  Cina.

Mackinder   spiegò  che chi l’avesse controllata, avrebbe guadagnato il dominio della intero Continente Antico, ossia l’unione di Eurasia ed Africa”.

E guardate, dice McLeod,  che questo potere non è dovuto alla superiorità militare, ma alla semplice economia. “Mentre l’economia statunitense subisce un esito inflazionistico post-lockdown.   e una crisi esistenziale per il dollaro, l’economia cinese esploderà sulla scia dell’aumento dei consumi interni, che è un obiettivo ufficiale del governo; e  nonostante tutti  gli sforzi  e trucchi   per stroncare l’export della Cina (anche con il blocco di Suez)  l’aumento delle esportazioni, conseguenza inevitabile  dello stimolo  americano della domanda dei consumatori e di un crescente deficit di bilancio”.

I trilioni di dollari di cui la Fed ha inondato il consumatore americano  andranno a comprare merci cinesi., lo si voglia o no, e perfino gas russo.

Vi siete accortti, occidentalisti neocon, che la Cina già controlla l’Africa, come temeva McKinder? Che i treni merce uniscono già Berlino e l’economia tedesca- quindi europea – a Pechino? Saldando quella che McKinder chiamava   l’Eurasia? E’  un fatto oggettivo: “Le nazioni del sud-est asiatico nella sfera di influenza degli Stati Uniti sono teoricamente legate all’economia del partenariato, e le  vie della seta terrestre e marittima legano in modo simile rispettivamente l’UE e gli stati dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico occidentale. Ammonta a oltre la metà della popolazione mondiale che non condivide più gli interessi economici e valutari di 328 milioni di americani.

Lanciandosi a fare la guerra fredda contro Putin,  avete dato alla Cina la superpotenza atomica  che non ha. Quindi: l’amministrazione Biden, contro la potenza  combinata di Russia e Cina, l’America fallirà nei suoi obiettivi politici, non per mancanza di potere militare, ma a causa delle forze economiche” .

I  punto è che  i neocon, temo, lo sanno, e si stanno preparando alla guerra non fredda, ma calda; ancora pochi anni, e la superpotenza Usa non  sarà  in grado di vincere una guerra mondiale; “sanno di avere poco tempo

A  temere i fanatici neocon ew il loro progetto di guerra devono essere anche certi circoli  e  famiglie  di potere  del Deep State. Lo dimostra un articolo sorprendente su Foreign  Affairs. A firma di Richard N. Haass e Charles A. Kupchan, datato 23 marzo 2021,  è sorprendente fin dal titolo:  “Il nuovo Concerto dei Potenze”.  Meglio invitare Cina e Russia alla compartecipazione, invece di antagonizzarle.  Perché?

Perché“ L’Occidente, dicono i due globalisti, sta perdendo non solo il suo dominio materiale, ma anche il suo dominio ideologico. In tutto il mondo, le democrazie stanno cadendo preda dell’illiberalismo e del dissenso populista mentre una Cina in ascesa, assistita da una Russia combattiva, cerca di sfidare l’autorità dell’Occidente .La storia insegna  che tali periodi di tumultuosi cambiamenti comportano un grande pericolo:  le lotte tra grandi potenze sulla gerarchia e l’ideologia portano regolarmente a grandi guerre”.

Molto meglio realizzare il Concerto di Potenze,informale e inclusivo,   che nell’Ottocento frenò “la competizione geopolitica e ideologica che di solito accompagna il multipolarismo. Un concerto globale avrebbe sei membri: Cina, Unione Europea, India, Giappone, Russia e Stati Uniti. Democrazie e non democrazie avrebbero la stessa posizione e l’inclusione sarebbe una funzione del potere e dell’influenza, non dei valori o del tipo di regime. I membri del concerto rappresenterebbero collettivamente circa il 70% sia del PIL globale che della spesa militare globale

Questo articolo, mi dice l’amico Umberto Pascali da Washington, indica che fra i potemnti c’è paura. “Hanno paura che il loro piano —  di “cancellare” la Russia e usare la Cina  come strumento principe del Grande Reset non sembra andare in porto come previsto. Hanno paura della guerra vera dopo le tante guerre facili, guerre coloniali di saccheggio.

I NeoCon, o meglio la maggioranza del Congresso pagato dal Military Industrial e da Big Tech ha sete di profitti da guerra; di saccheggio stile coloniale. Ma l’apparato militare  non e’ in grado di intraprendere una guerra vera con potenze tipo Cina, Russia”.

Questa la situazione ad oggi.

Biden attacca: “Putin è un killer”. Mosca richiama l’ambasciatore  Nuova frattura tra Washington e Mosca. Il presidente Usa continua a segnare discontinuità rispetto all’amministrazione precedente e avverte: “Il numero uno del Cremlino pagherà le conseguenze”

di M. Allevato – G. Zeccardo | 18 marzo 21, 05:58

AGI – Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, continua a tracciare il solco della politica verso Mosca nel segno della discontinuità col predecessore Donald Trump: in un’intervista alla Abc ha detto di essere d’accordo con l’affermazione che Vladimir Putin è un “assassino” e ha avvertito che il leader del Cremlino “pagherà le conseguenze” per aver presumibilmente cercato di danneggiare la sua candidatura nelle elezioni dell’anno scorso. Mosca ha richiamato l’ambasciatore negli Stati Uniti, Anatoly Antonov, per analizzale prospettive delle relazioni con Washington.

“La nuova amministrazione americana è al potere da quasi due mesi, manca poco alla soglia simbolica dei 100 giorni, e questo è un buon motivo per provare a valutare cosa funziona e cosa no nella squadra di Joe Biden”, ha spiegato il ministero degli Esteri, definendo i rapporti con gli Usa “a un vicolo cieco”. “Per noi”, ha tuttavia Mosca, “la cosa principale è determinare quali sono i modi per correggere i legami russo-americani che sono in uno stato difficile e che Washington ha portato a un punto morto negli ultimi anni. Siamo interessati a non far arrivare le nostre relazioni a un degrado irreversibile, se gli americani sono consapevoli di quali rischi questo comporti”.

Le parole di Biden arrivano all’indomani della pubblicazione di un rapporto dell’intelligence Usa secondo cui, la Russia ha tentato di interferire nelle presidenziali 2020, promuovendo Trump e screditando il futuro presidente e lo stesso processo elettorale. Le accuse sono state subito respinte dal Cremlino, che le ha definite “completamente infondate”. Secondo indiscrezioni della stampa americana sono il prologo a nuove sanzioni contro Mosca che potrebbero arrivare già la prossima settima.

Alla domanda del giornalista George Stephanopoulos, che gli ha chiesto se pensa che il leader del Cremlino “sia un assassino”, Biden risponde lapidario: “Lo credo”. Le sue parole sono in netto contrasto con il rifiuto di Trump, durante tutto il suo mandato, di criticare il collega russo, di cui anzi ha spesso tessuto le lodi, con un atteggiamento senza precedenti nella politica americana. La stessa domanda era stata posta a Trump nel 2017 da Fox News.

Ci sono un sacco di assassini, pensa che il nostro Paese sia così innocente?“, fu allora la risposta del miliardario. Biden ha ricordato di aver sentito Putin a gennaio, dopo l’insediamento alla Casa Bianca. “Abbiamo parlato a lungo, lo conosco relativamente bene”, ha ricordato. “Gli ho detto ‘Ti conosco e tu conosci me. Se stabilisco che (l’interferenza) c’è stata, preparati'”, ha affermato il presidente nell’intervista, dove si è pero’ anche detto convinto che sia possibile “lavorare insieme” a Mosca, laddove ci sono “interessi comuni”.

Un esempio è l’estensione dell’accordo per il controllo delle armi nucleari New Start, tra i primi passi intrapresi dalla nuova amministrazione Usa. A Mosca le parole di Biden hanno creato un coro di critiche da parte dei fedelissimi di Putin, come il presidente della Duma di Stato, Vyacheslav Volodin, e l’apprezzamento degli attivisti legati all’oppositore Aleksei Navalny, vittima di un tentato avvelenamento per cui ha accusato direttamente il capo del Cremlino.

“Gli attacchi a Putin sono attacchi alla Russia”, ha tuonato Volodin definendo quella di Biden “isteria generata dall’impotenza”. “Biden definisce senza ombra di dubbio Putin un assassino, perchè lo è davvero”, ha twittato Fbk, mentre commentatori filo-Cremlino come Vladimir Solovyov, si sono chiesti se “quella di oggi non sia la dichiarazione ufficiale della ‘Guerra Fredda 2.0”. 

Usa Cina, sfida in Alaska. Parte in salita la ‘due giorni’ ad Anchorage  Blinken accusa Pechino di “minacciare” la stabilità mondiale. Pechino promette “azioni ferme” di fronte alle “ingerenze” degli Usa

di Nuccia Bianchini | 18 marzo 21, 22:56

AGI  – E’ partita in salita la ‘due giorni’ ad Anchorage, in Alaska, tra i vertici delle diplomazie statunitense e cinese, primo summit dell’era Biden. Gli Usa hanno accusato la Cina di “minacciare” la stabilità mondiale, gli inviati cinesi hanno minacciato  “azioni decise” in risposta alle “interferenza americane“.

“Discuteremo le nostre profonde preoccupazioni per le azioni della Cina nello Xinjiang”, dove Washington accusa Pechino di “genocidio” contro i musulmani uighuri, “Hong Kong, Taiwan, degli attacchi informatici contro gli Stati Uniti e della coercizione economica contro i nostri alleati”, ha attaccato il capo della diplomazia Usa, Antony Blinken; “azioni – ha continuato – che minacciano l’ordine basato sul diritto che mantiene la stabilità globale. Yang Jiechi e il ministro degli Esteri, Wang Yi, che sono i più alti responsabili della politica cinese, hanno esortato gli Stati Uniti ad “abbandonare la mentalità da Guerra Fredda”. 

Gli Stati Uniti non vogliono un “conflitto” con la Cina ma sono favorevoli a una “concorrenza dura”, ha aggiunto  il consigliere per la sicurezza Nazionale, Jake Sullivan.  “Ci batteremo sempre per i nostri principi, per la nostra gente e per i nostri amici”. 

Cina e Stati Uniti si incontrano in Alaska per tentare di rompere il ghiaccio di una relazione che risente di anni di tensioni, anche se è difficile ipotizzare al momento un cambio di rotta.

All’orizzonte c’è la possibilità di un incontro, il mese prossimo, tra i due capi di Stato, il presidente Usa, Joe Biden, e il l’omologo cinese, Xi Jinping. La Cina punta ad organizzare il vertice il 22 aprile, in occasione della Giornata della Terra. Il summit, secondo fonti citate dal Wall Street Journal, sarà legato all’esito dei colloqui in Alaska, e verterà su uno dei rari campi di possibile intesa tra le due sponde del Pacifico, ovvero l’impegno per ridurre l’emissione di gas serra e contrastare il cambiamento climatico.     

Le aspettative sul dialogo sono state già ridimensionate alla vigilia. Per Pechino, l’incontro sarà l’occasione per premere sulla rimozione di tariffe e sanzioni imposte durante il mandato di Donald Trump alla Casa Bianca, mentre Washington vuole avvisare la Cina delle preoccupazioni che gli Stati Uniti e i suoi alleati e partner nutrono sulle sue politiche. .

DAL 12 FEBBRAIO 2021 A OGGI , CI SONO STATE MANIFESTAZIONI IN OLANDA E GERMANIA

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L’Iran dovrà sedersi al tavolo del negoziato con gli USA di Biden o perderà il suo “impero”

La Repubblica Islamica non può permettersi di snobbare l’invito degli americani a trattare un nuovo accordo sul nucleare, anche se la Cina le sta dando una mano

di , pubblicato il 
L'Iran dovrà piegarsi a Biden

Teheran risponde picche all’amministrazione Biden, che le ha chiesto di tornare a sedere al tavolo del negoziato per mettere mano a un nuovo accordo nucleare, a patto di sospendere il programma di arricchimento dell’uranio. L’ayatollah Khameini ha dichiarato circa un mese fa che prima gli USA dovranno ritirare tutte le sanzioni comminate contro l’Iran, sostenendo che siano stati loro ad avere stracciato il vecchio accordo e, pertanto, spetterebbe a loro dimostrare l’intenzione di tornare sui propri passi.
La verità è che le elezioni presidenziali di giugno spingono le parti a prendere tempo. Nessuno a Teheran vuole sbilanciarsi sul tema, anche perché è molto probabile che gli elettori votino il candidato più conservatore e ostile all’Occidente come prossimo capo dello stato. Ma tutto l’Iran può permettersi, tranne che di ignorare Washington. Il peso delle sanzioni è stato pesante per la sua economia. Nell’esercizio 2018/2019 il PIL è sceso del 5,4%, mentre nel 2019/2020 si è contratto di ben il 6,5%, complice la pandemia. E ancora quest’anno dovrebbe arretrare di un altro 3,7%, stando alle stime della Banca Mondiale.
Se nel 2018, l’Iran aveva esportato la media di 2,8 milioni di barili di petrolio al giorno, nel 2020 era sceso ad appena 300 mila. Parliamo di 2,5 milioni di barili al giorno in meno, una enormità per un’economia fortemente dipendente dal greggio e che proprio per questo sta assistendo al collasso del cambio sul mercato nero e al boom dell’inflazione, esplosa nei pressi del 50%. La carenza di beni sugli scaffali dei supermercati è diffusa, così come anche povertà e disoccupazione.

Accordo nucleare con l’Iran alle condizioni di Biden, gli USA sequestrano 2 milioni di barili di petrolio

Scricchiola l’”impero” iraniano

E l’Iran non va considerato come uno stato a sé stante, bensì come un piccolo “impero” con stati-satellite ad esso subordinati.

Essi sono Siria, Libano e Iraq. E qui arrivano i dolori per Teheran, dato che parliamo di tre economie con enormi problemi. Il PIL libanese è crollato del 19% nel 2020 e quest’anno dovrebbe implodere di un altro 13%. Nel frattempo, l’80% della popolazione sarebbe caduto in povertà e l’inflazione è esplosa sopra il 145%, mentre il cambio è precipitato dell’85% rispetto al tasso ufficiale. In Siria, per la prima volta la lira contro il dollaro è arrivata a scambiare a oltre 4.000, perdendo circa un quarto del suo valore in un mese. Fino alla guerra civile del 2011, il cambio era ancora fissato a 1:47. In Iraq, le entrate fiscali dipendono quasi totalmente dal petrolio e lo stato è rimasto a corto di liquidità.
L’Iran esercita una grossa influenza su questi stati, ma non è più nelle condizioni di sostenerli finanziariamente. In un certo senso, la debolezza di tali economie ha finora garantito a Teheran una forte presa politica, attraverso le milizie che utilizza a suo favore in quei territori. Si pensi, ad esempio, ad Hezbollah a Beirut. Tuttavia, l’estrema debolezza non è uno scenario rassicurante per il mantenimento della sfera d’influenza. Le popolazioni di questi stati rischiano di rivoltarsi contro i governi amici dell’Iran, rovesciandoli a favore di soluzioni politiche meno desiderate e incontrollabili. In questo senso, il caso libanese di questi mesi appare il più lampante.

In Libano tensione alle stelle per il crollo del cambio, i militari rimuovono i blocchi stradali

L’aiutino della Cina e il fronte saudita

L’unico modo che l’Iran ha per cercare di salvaguardare la sua influenza nel Medio Oriente sarebbe di tornare a crescere, cioè ad esportare petrolio. E per farlo, dovrà negoziare con gli USA, accettandone le condizioni, vale a dire rinunciando al programma nucleare per scopi militari. Se finora non corre a sedersi al tavolo delle trattative con gli americani è senz’altro per orgoglio, oltre che per calcolo politico, ma anche probabilmente per l’aiuto sotterraneo che sta ricevendo dalla Cina, le cui importazioni di greggio iraniano stanno aumentando di mese in mese sulla considerazione da parte di Pechino che l’amministrazione Biden, contrariamente a quella guidata da Donald Trump, non calcherà la mano sulle sanzioni.

In questa direzione va il recente sblocco parziale dei pagamenti “congelati” nella Corea del Sud.
A dicembre, le esportazioni di greggio dall’Iran sono aumentate a 710 mila barili al giorno, in netta crescita dai 490.000 di ottobre. E Teheran ha annunciato esplicitamente di avere un piano per continuare ad accrescerle, indipendentemente dalla permanenza o meno delle sanzioni USA. Considerando che da inizio anno le quotazioni siano già cresciute del 30%, la pressione sulle casse statali iraniane si sta riducendo e con essa la fretta della politica di trovare una soluzione di compromesso con Washington. Ma la Casa Bianca non tratterà mai da una posizione di debolezza e se dovesse fiutare che la Cina stia agendo per affievolirne il potere negoziale contro l’Iran, probabile che prima di riaprire le trattative farà rispettare sul serio le sanzioni già comminate, dissuadendo i clienti cinesi (e non solo) dall’acquistare greggio iraniano.
Non si sottovaluti, poi, il fronte saudita. L’Iran sostiene i ribelli Houthi nello Yemen, i quali anche nei giorni scorsi sono tornati ad attaccare un impianto petrolifero di Aramco attraverso l’uso di droni. Riad sta evitando di rispondere direttamente, ma è un dato di fatto che non potrà più tollerare che milizie sostenute dall’ayatollah colpiscano i propri territori. L’allentamento della tensione con gli USA servirà a Teheran anche per coprirsi sul fronte saudita. Non può sperare di spuntarla venendo attaccata da più fronti contemporaneamente.

L’Iran blocca il “mining” dei Bitcoin dopo averlo autorizzato e si prepara alla svalutazione del cambio

“Gli Usa stanno schierando bombardieri B-1 in Norvegia”. La sfida alla Russia: difesa degli alleati e corsa all’Artico

“Gli Usa stanno schierando bombardieri B-1 in Norvegia”. La sfida alla Russia: difesa degli alleati e corsa all’Artico

La decisione di Washington è destinata ad accrescere le tensioni con Mosca, dopo lo scontro sull’arresto di Alexei navalny e le intenzioni della nuova amministrazione Biden che ha annunciato una “linea più dura ed efficace” nei confronti del Cremlino

È la prima volta che Washington opta per un’azione del genere, una mossa che, oltre a difendere gli alleati nell’area, come riporta la Cnn, ha l’obiettivo di far capire a Vladimir Putin che l’esercito americano opererà nella regione artica perché ritenuta strategicamente importante. Citando più funzionari della difesa, la tv americana riferisce che quattro bombardieri B-1 della US Air Force e circa 200 membri del personale della Dyess Air Force in Texas saranno spostati nella base aerea di Orland e che nelle prossime tre settimane inizieranno le missioni nel Circolo Polare Artico e nello spazio aereo internazionale al largo della Russia nordoccidentale.

 

Gli Stati Uniti, oltre a rinforzare il proprio controllo nell’area, saranno in grado di reagire più rapidamente a una potenziale aggressione russa. Negli ultimi mesi, il Pentagono ha utilizzato dei bombardieri simili ai B-1, i B-52, in Medio Oriente come mezzo per dimostrare la capacità degli Stati Uniti di spostare rapidamente le risorse militari in regioni potenzialmente tese. Si tratta di missioni che richiedono settimane per essere pianificate, il che significa che il dispiegamento in Norvegia è in fase di organizzazione da tempo, spiegano gli stessi funzionari.

Questa decisione potrebbe essere motivata dalla preoccupazione del Dipartimento della Difesa riguardo alle mosse militari russe tese a bloccare il potenziale accesso all’Artico: “I recenti investimenti russi nell’Artico includono una rete di mezzi aerei offensivi e sistemi missilistici costieri”, ha avvertito Barbara Barrett, segretaria dell’Air Force durante l’amministrazione Trump. Per gli Stati Uniti la Russia considera il mantenimento del proprio accesso all’Artico sempre più vitale, con quasi il 25% del suo prodotto interno lordo proveniente da idrocarburi a nord del Circolo Polare Artico, ha detto Barrett. Solo il mese scorso, un caccia russo ha sorvolato l’USS Donald Cook, un cacciatorpediniere navale statunitense, nelle acque internazionali del Mar Nero.

Caso Navalny, Germania, Polonia e Svezia espellono diplomatici russi

E’ la risposta alle espulsioni decise da Mosca per chi aveva assistito a manifestazioni contro il governo

di AGI.it | 08 febbraio 21, 19:20

AGI – La Germania, la Polonia e la Svezia hanno dichiarato “persona non grata un membro del personale dell’ambasciata russa” rispettivamente a Berlino, Stoccolma e Varsavia. E’ la risposta all’analoga decisione di Mosca contro diplomatici dei tre Paesi Ue accusati di aver partecipato a raduni “illegali” a sostegno all’oppositore del Cremlino, Aleksei Navalny. Decisioni “prive di fondamento”, ha ribattuto Mosca: sono mosse “non amichevoli” che “si aggiungono alla lunga serie di azioni dell’Occidente contro il nostro Paese e noi le riteniamo una interferenza nei nostri affari interni”.

La risposta a Mosca

Il governo di Berlino si è appellato “all’articolo 9 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 18 aprile 1961”, in risposta all’espulsione di un diplomatico tedesco da Mosca che, ha spiegato un portavoce, era presente alla manifestazione degli oppositori russi solo per “informarsi sullo sviluppo degli eventi con mezzi legali”.    
Le proteste di piazza dell’opposizione dei giorni scorsi in Russia, tra le più partecipate degli ultimi anni, chiedevano la liberazione di Navalny, arrestato il 17 gennaio appena rientrato dalla Germania, dove era stato curato dopo l’avvelenamento con un agente nervino. Anche il governo svedese ha voluto chiarire che il suo diplomatico non aveva partecipato alla manifestazione, ma stava solo osservando, attività che rientra nei suoi compiti.

Lo ‘schiaffo’ a Borrell

Venerdì scorso la Russia ha espulso tre diplomatici europei durante la visita a Mosca dell’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell. Un viaggio “necessario” nonostante fosse “un incontro difficile”, ha detto oggi un portavoce della Commissione, esprimendo il sostegno a Borrell della presidente, Ursula von der Leyen. Un portavoce di Borrell ha aggiunto che a Mosca “la discussione si è fatta ‘calda’ quando l’Alto rappresentante ha chiesto di vedere Navalny e il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov gli ha risposto di rivolgersi alla Corte” indicando “una procedura che avrebbe preso più tempo della durata della visita”.

Il coordinamento tra Ue, Gran Bretagna e Usa 

L’Ue sta cercando di fare fronte comune con Usa e Gran Bretagna e ha convocato un incontro in giornata a Bruxelles, allargato a Canada e Ucraina per concordare una posizione comune. Borrell ha sottolineato che sono i Paesi dell’Ue che devono discutere “i passi successivi”, che possono prevedere “anche sanzioni”. Il Cremlino ha fatto sapere che Mosca “rimane interessata a riallacciare le relazioni” con Bruxelles” ma non accetterà interferenze nei suoi interessi: “Non siamo stati noi ad avviare il deterioramento di queste relazioni”, ha detto il portavoce, Dmitri Peskov. “Ripartiamo dalla necessità di prendere in considerazione gli interessi reciproci per mantenere un rapporto, respingiamo in modo categorico l’interferenza negli interessi altrui e l’utilizzo di doppi standard, su questo saremo molto determinati e nessuno dovrebbe dubitarne”. 

 

LA MORTE CIVILE: IL CREATORE DI GAB E LA SUA FAMIGLIA TUTTI BANNATI DA VISA. Ora capite il pericolo dei pagamenti elettronici?

 

Per chi ancora non lo conoscesse GAB è una sorta di twitter alternativo, abbastanza diffuso e funzionante, che pratica la libertà di espressione in modo piuttosto ampio. Nonostante come lo presentino i soliti  mass media (“Ultradestra” etc etc,) non troverete nulla di particolare . Dopo il ban da twitter molti trumpiani si sono mossi su quelle sponde, piuttosto bene accolti

Fatta questa premessa adesso capirete cosa succede ad opporsi al sistema mainstream.  Applicando alla lettera il sistema del social credit cinese,. cioè dando ujn altissimo credito a chi si allinea esattamente alle volontà del partito, ma mettendo socialmente agli arresti chi non si allinea, la VISA, il sistema di pagamento e di carte di credito, ha bannato dal proprio network GAB. Non è il primo caso del genere, ma la società di pagamenti non si è fermata a questo. Come scrive il CEO di Gab, Andrew Torba, VISA ha fatto le cose per bene:

Questa settimana ci è stato detto che non solo Gab è nella lista nera di Visa come azienda, ma anche il mio nome personale, numero di telefono, indirizzo e altro sono stati inseriti nella lista nera da Visa. Se domani volessi lasciare Gab (cosa che non accadrà) e avviare un chiosco di limonate, non sarei in grado di ottenere i pagamenti elettronici per questo business. Semplicemente perché il mio nome è Andrew Torba. Se mia moglie vuole avviare un’impresa non potrà ottenere la partecipazione al sistema dei pagamenti perché vive al mio stesso indirizzo e verrebbe segnalata da Visa.

Torba sottolinea come non è una questione di affidabilità finanziaria, dato che che il suo “Fico score” , il suo punteggio di affidabilità, è quasi il massimo, (800 su 850) , paga le sue bollette ed ha una vita normale con moglie e figlia. Ora, in un processo molto simile a quelli staliniani , la colpa per aver creato un sistema social alternativo ai quelli accettati dalle grandi corporation viene a cadere anche sui suoi figli, come una sorta di peccato originale.

Il Governo sta cercando in ogni modo di incentivare l’uso della moneta elettronica ma questo, ricordatevelo, vi espone agli arbitri di un pugno minuscolo di società di pagamento che possono togliervi l’accesso ai soldi da un momento all’altro, non per problemi di affidabilità, ma, magari, perchè non la pensate esattamente come loro. Per questo m otivo il contante è libertà, perchè quando lo avete potete pagare indipendente dal vostro pensiero politico, credo religioso, razza, età. Il famoso “Cashback”, cioè i soldi regalati ai ricchi, non sono solo un errore sociale e di politica economica, sono anche un vero e proprio attacco la libertà personale. Ricordatevi che oggi colpiranno una persona a voi indifferente, ma domani potreste essere voi.

Il trading online fa esplodere le contraddizioni di una finanza assistita da governi e banche centrali

Robinhood e altre piattaforme di negoziazione sono finiti nell’occhio del ciclone per le limitazioni imposte agli utenti. Nel Congresso è sentimento bipartisan contro la linea “suggerita” dai fondi speculativi.

Robinhood è finito nell’occhio del ciclone dopo la decisione di giovedì scorso, con la quale ha sospeso per gli utenti la possibilità di acquistare nuove azioni di 50 società, consentendo ai trader solamente di venderle. Ieri, ha ridotto la lista a 8 titoli, tra cui AMC, GameStop, Nokia e BlackBerry. Di queste società potrà essere acquistato solamente fino a un certo numero di azioni, mutevole potenzialmente nel corso della seduta. Coloro che posseggono già un quantitativo superiore ai limiti fissati, tuttavia, non saranno soggetti a vendite o chiusure forzate delle loro posizioni.L’ammorbidimento delle restrizioni contro il trading online è arrivato dopo che la deputata democratica Alexandria Ocasio-Ortez, in qualità di membro della Commissione Finanze della Camera, aveva annunciato l’apertura di un’indagine del Congresso a carico di Robinhood e altre piattaforme, che hanno limitato fortemente l’operatività degli utenti successivamente al boom dei prezzi di alcuni titoli azionari, particolarmente di GameStop. Il fenomeno è stato legato al forum WallStreetBets di Reddit, in cui gli utenti avrebbero concordato acquisti in massa dei titoli più “shortati” dell’indice Russell 3000, provocando perdite ingenti a carico degli investitori ribassisti, specie “hedge fund”. Questi hanno dovuto chiudere in fretta le loro posizioni per limitare i danni, dando vita a quello che nel gergo finanziario si chiama “short squeeze”, vale a dire acquisti degli “short sellers”, che amplificano i rialzi dei prezzi.

Lo ‘short squeeze’ semina il panico in borsa. Dopo GameStop, ecco i titoli nel mirino dei trader

Congresso verso un’indagine a carico delle piattaforme

Un trader di Robinhood ha annunciato l’apertura di una class action contro la piattaforma nel Distretto Sud di New York.

Ocasio-Ortez ha fatto presente su Twitter che oltre la metà dei trader iscritti a Robinhood sarebbe in possesso di azioni GameStop, ragione per cui lo stop alle negoziazioni avrebbe provocato danni a moltissimi piccoli investitori. Stranamente, in un clima di scontro tra maggioranza e opposizione come forse mai nella storica americana dopo i fatti di Capitol Hill, le dichiarazioni dell’esponente democratica hanno ricevuto l’appoggio di rappresentanti repubblicani, tra cui Ted Cruz, deputato dell’ala destra del GOP e noto per le sue posizioni “market friendly”.

Ed Elon Musk, fondatore e CEO di Tesla, ha twittato favorevolmente all’apertura di un’indagine a carico delle piattaforme di trading, sostenendo la necessità, addirittura, di vietare le vendite allo scoperto.

Non puoi vendere case che non hai, non puoi vendere auto che non hai, ma puoi vendere azioni che non possiedi. Questa è una str****ta, le vendite allo scoperto sono una truffa. Legali solo per ragioni inutili.

Al Congresso, c’è irritazione per quanto sia accaduto. Tra i deputati della Camera si borbotta contro i fondi speculativi, i quali non possono pretendere di essere al contempo “giocatori e arbitri” della partita. E se la SEC, la Consob americana, ha chiarito che potrebbe aprire un’indagine per capire se dietro ai rialzi eccessivi di alcuni titoli vi sia stata manipolazione del mercato, reato punito dalla legislazione USA, sembra essere arrivati al “redde rationem” tra autorità federali e parte stessa del mercato. E stavolta, la politica a stelle e strisce starebbe iniziando a comprendere la portata di quanto stia accadendo.

Trading online, maxi-multa a Robinhood sulle commissioni. E fari accesi sui clienti giovani inesperti

Colpi di coda della crisi del 2008

L’eccesso di liquidità iniettata dalla Federal Reserve dopo il 2008 ha inondato i mercati finanziari, sostenendo il boom dei corsi azionari e obbligazionari. Le azioni sono rincarate e i rendimenti obbligazionari sono crollati. I detentori di grosse quantità di assets, cioè quell’1% più ricco della popolazione americana, ha beneficiato del rally ormai ultradecennale, aumentando il distacco con il resto degli americani, tra cui serpeggia non a caso un fortissimo malcontento per come l’economia USA sia stata gestita dopo la crisi finanziaria di ormai 12-13 anni fa.

Le banche d’affari furono salvate a carico dei contribuenti con un maxi-piano del governo prima e stimoli monetari subito dopo. Adesso che il trading online starebbe rendendo possibile a un gruppo più numeroso di trader di partecipare ai benefici del boom azionario, ecco che gli stessi fondi speculativi invocano protezione legale contro le “aggressioni” dei parvenu della finanza.Intendiamoci, acquistare titoli dai fondamentali malmessi o inveire contro le vendite allo scoperto è una sciocchezza, che alla fine si ritorcerà contro gli stessi piccoli trader. Ad ogni modo, chi decide se un titolo debba o non debba più essere acquistato perché sopravvalutato? E’ corretto che le limitazioni si applichino solamente quando a beneficiare di un dato boom siano gli investitori retail e mai quando si tratti degli istituzionali? Il trading online va bene quando gli iscritti ci rimettono spesso le penne per via della faciloneria con cui si approcciano a questo mondo, mentre non s’ha da fare quando questi riescono causalmente a vincere una scommessa contro i giganti di Wall Street?

Il successo delle criptovalute spiegato dalla bolla finanziaria

I rischi sociali s’intensificano

Qui, in gioco ci sono due cose: la credibilità del mercato, anzi dell’assetto istituzionale e non soltanto americano; la tenuta sociale. Se i “piccoli” iniziassero a percepire che le regole siano interpretate solamente a favore di alcuni e contro altri, inizieranno a restare fuori dalla sfera finanziaria, rifugiandosi con ogni probabilità nelle alternative offerte dall’economia reale. E questo genererebbe anche sfiducia verso la capacità e la volontà delle istituzioni di tutelare tutti in egual modo e di consentire a tutti di conseguire il massimo benessere, date le condizioni di partenza.In un Occidente sempre più lacerato tra élite e popolo, gli accadimenti di questi giorni in borsa appaiono un segnale piuttosto allarmante sulla capacità di contagio che questo scontro starebbe dimostrando di possedere persino in un mondo ad oggi ritenuto quasi un blocco monolitico contro le vicissitudini esterne.La tecnologia, alias i social, stanno rendendo anche qui possibile quello che un tempo non era immaginabile: il tam tam mediatico per coordinarsi contro qualsivoglia obiettivo. Così come siamo arrivati alla chiusura dei social ai danni di un presidente uscente degli USA, stiamo andando verso restrizioni crescenti per i trader comuni e l’oscuramento delle loro opinioni sui forum online?

Il segnale allarmante della bolla finanziaria: preghiamo che non bussi alla nostra porta di casa

Ray Dalio: “We Are On The Brink Of A Terrible Civil War”

Tyler Durden's Photo

BY TYLER DURDEN
MONDAY, JAN 25, 2021 – 5:01

It was over a decade ago that we first warned the Fed’s unconstrained monetary lunacy will eventually result in civil war, a prediction for which Time magazine, which back then was still somewhat relevant, mocked us. This is what Time’s Stephen Gendel said in October 2010:

What is the most likely cause of civil unrest today? Immigration. Gay marriage. Abortion. The results of Election Day. The mosque at Ground Zero. Nope.

Try the Federal Reserve. Nov. 3 is when the Federal Reserve’s next policy committee meeting ends, and if you thought this was just another boring money meeting you would be wrong. It could be the most important meeting in the Fed’s history, maybe. The U.S. central bank is expected to announce its next move to boost the faltering economic recovery. To say there has been considerable debate and anxiety among Fed watchers about what the central bank should do would be an understatement. Chairman Ben Bernanke has indicated in recent speeches that the central bank plans to try to drive down already low interest rates by buying up long-term bonds. A number of people both inside the Fed and out believe this is the wrong move. But one website seems to indicate that Ben’s plan might actually lead to armed conflict. Last week, a post on the blog Zero Hedge said … that the Fed’s plan is not only moronic, but “positions US society one step closer to civil war if not worse.”

* * * * *

The problem is that the Fed directly sets only short-term interest rates. And they are already about as close to zero as you can go. That’s why Bernanke has been talking about something called “quantitative easing.” That’s when the Fed basically creates money to buy the long-term bonds that it doesn’t directly control and drives down those interest rates as well. That should further reduce the cost of borrowing for large companies and homeowners. Some people are calling this “QE2” because the Fed made a similar move during the height of the financial crisis when it bought mortgage bonds. (See photos of the Tea Party movement)

Not everyone agrees this is a good move. In fact, a number of presidents of regional Fed banks, not all of which get to vote at Fed policy meetings, have recently come out against Bernanke’s plan. Some say it sets bad policy. Others think it will stoke inflation, which might be the point. Few, though, have warned of armed conflict. Here’s how Zero Hedge justifies its prediction of why the Fed’s Nov. 3 meeting will lead to violence:

In a very real sense, Bernanke is throwing Granny and Grandpa down the stairs – on purpose. He is literally threatening those at the lower end of the economic strata, along with all who are retired, with starvation and death, and in a just nation where the rule of law controlled instead of being abused by the kleptocrats he would be facing charges of Seditious Conspiracy, as his policies will inevitably lead to the destruction of our republic.

O.K. The idea that Bernanke might kill large swaths of low-income neighborhoods or Florida by his plan to further lower interest rates is a little ridiculous. But there is a point in Zero Hedge’s crazy. Lower rates do tend to favor borrowers over savers. And the largest borrowers in the country are banks, speculators and large corporations. The largest spenders in the U.S., though, tend to be individuals. Consumer spending makes up 70% of the economy. And the vast majority of consumers are on the low end of the income scale. So I think it is a valid question to ask whether the Fed’s desire to drive down interest rates at all costs is working. Companies are already borrowing at low rates. They are just not spending. (Read a special report on the financial crisis blame game)

That being said, civil war, probably not. “It is a gross exaggeration,” says Allan Meltzer, who is a top Fed historian at Carnegie Mellon. “I cannot recall ever learning about riots or civil war even when the Fed made other mistakes.”

All this happened more than a decade ago – since then we have seen not only QE2, but “Twist”, QE3, “NOT QE”, and eventually QEternity last March which mutated into outright and unlimited helicopter money to pay for universal basic income – and while at the time it merely added to our “reputation” of a tinfoil conspiracy blog, it appears we were (sadly) correct again based not only on the increasing tears within the US social fabric which culminated in unprecedented riots and looting last summer and continued social upheavals in recent months, but also in terms of what one of the biggest investing minds of this generation just tweeted. We are referring to Bridgewater founder and billionaire Ray Dalio, who moments ago tweeted that we are “on the brink of a terrible civil war”.

Here is what Dalio just said:

Back in February, I said I wanted a president who could “bring together our country to face our challenges in a more united and less divisive way.”

I wanted someone who would unite people – i.e. who does not view themselves as the leader of the winning side imposing policies the other side would find intolerable.

I believe we are on the brink of a terrible civil war (as I described in The Changing World Order series), where we are at an inflection point between entering a type of hell of fighting or pulling back to work together for peace and prosperity that addresses the big wealth, values, and opportunity gaps we’re now seeing. For that reason I was thrilled to hear what President Biden said at his inauguration. It is consistent with the direction history has shown the country needs to move in.

Now the question is whether the president and both parties will bring that about. Good words and spirit aren’t enough. People will have to agree on both how to grow the pie and how to divide it well. That will require revolutionary change.

Doing it peacefully requires both bipartisanship and skill. It won’t be easy. Our country is still in a terrible financial state and terribly divided.

While Dalio correctly points out the extremely precarious spot where splintered US society stands right now, it is again disappointing that instead of admitting the true poison eating away at the heart of US society, Dalio once again refers to the symptom – the presidency – and not the underlying diseases that brought it on. We are confident that it has to do with the fact that the well-being of Dalio’s own fortune is heavily reliant on not kicking the hornets’ nest of catastrophic monetary policy, but merely diverting attention to whatever is the media taking point bulletin du jour, in this case the ongoing Trump vs Biden narrative clash.

We can only hope that one day Dalio will have the guts to tell the truth about why we are indeed “on the brink of a terrible civil war” and expose the real criminals behind the deadly divisions tearing apart US society.

L’Iran blocca il “mining” dei Bitcoin dopo averlo autorizzato e si prepara alla svalutazione del cambio

Il regime dell’ayatollah aveva sostenuto la “criptovaluta” per sfuggire alle sanzioni internazionali, ma ha appena fatto un passo indietro sulla crisi in corso.

Iran indeciso sui Bitcoin

Il Bitcoin non s’ha più da estrarre. Retromarcia del governo iraniano, che ha fatto chiudere ben 1.600 centri di “mining” in tutto il paese, persino quelli che aveva precedentemente autorizzato. La decisione è stata presa per effetto dei frequenti “blackout” che si sono registrati nelle ultime settimane e che hanno lasciato al buio milioni di famiglie, Teheran compresa. Estrarre la “criptovaluta” comporta un enorme dispendio di energia e il collasso della rete elettrica è stato messo in relazione proprio al “mining”.L’Iran figura tra le prime 10 economie al mondo per produzione di Bitcoin, con 450 megawatt al giorno di energia impiegati. Tanto per fare un raffronto, gli USA vi impiegano 1.100 megawatt al giorno. Ma secondo i dati dello stesso Ministero delle Telecomunicazioni, i 260 megawatt attualmente consumati per estrarre Bitcoin inciderebbero per appena il 2% dell’intera produzione di energia. In pratica, Bitcoin non sarebbe affatto il problema, semmai è diventato il perfetto capro espiatorio per celare le vere cause della crisi, cioè anni di disinvestimenti da parte della compagnia elettrica per potenziare la rete. Inoltre, essendo sotto embargo, l’Iran non riesce a vendere sui mercati tutto il petrolio che estrae. Questi è ad alto contenuto di zolfo e, una volta estratto, se non esportato subito, finisce per essere bruciato, tra l’altro proprio per alimentare le centrali idroelettriche al posto del gas naturale. Da qui, la coltre nera che sta oscurando da settimane le aree urbane del paese, aumentando i rischi per la salute pubblica.Il regime dell’ayatollah aveva puntato sui Bitcoin per sfuggire alle sanzioni internazionali. Non potendo accedere direttamente ai dollari, aveva sperato che la “criptovaluta” potesse rimediare al problema. E gli stessi iraniani restano profondamente inclini al “mining”, puntandovi per cercare di proteggere il potere di acquisto, altrimenti compromesso da un cambio costantemente al collasso.

La prima grana di Biden in politica estera sarà l’Iran, il regime dell’ayatollah annega nella miseria

Verso la maxi-svalutazione del rial

Negli ultimi 10 anni, il rial ha perso oltre i tre quarti del suo valore contro il dollaro al cambio ufficiale. Preoccupante è anche il crollo che ha subito il cambio vigente sul mercato nero dal 2015, anno in cui veniva raggiunto l’accordo sul nucleare con gli USA, stracciato nel 2018 dall’amministrazione Trump. Nei giorni scorsi, la Commissione Finanze del Parlamento ha votato a favore della proposta di imporre un cambio fisso di 175.000 rial per un dollaro, in relazione all’acquisto dei beni primari. Si tratterebbe di una maxi-svalutazione nei fatti di oltre il 75%. Ad oggi, infatti, vige un sistema di cambi multipli nel paese: il cambio ufficiale di 42.000 viene utilizzato per importare generi alimentari e farmaci. Poi, esiste il NIMA, fissato un po’ più forte del cambio di mercato e che può essere utilizzato per importare altri beni primari, come macchinari e materie prime. Infine, c’è il cambio di mercato, che fornisce la dimensione esatta del valore reale del rial. Attualmente, scambia a circa 233.000 contro un dollaro.Nelle intenzioni di parte del Parlamento, questi cambi andrebbero unificati per evitare le distorsioni ai danni dell’economia iraniana. Nei fatti, Teheran si ritrova con un cambio ufficiale troppo forte, che tende a prosciugare le riserve valutarie, tenendo alte le importazioni e a disincentivare le esportazioni. Ma la maxi-svalutazione in vista con la fissazione di un tasso di cambio prossimo a quello di mercato per gli iraniani significherà pagare a prezzi molto più alti tutti i beni di prima necessità importati dall’estero. Di male in peggio per un paese, che già esibisce tassi d’inflazione in area 45%. Eppure, la misura appare necessaria per evitare una spirale iperinflazionistica come quella del Venezuela degli ultimi anni.I Bitcoin servono come via di fuga non solo dalle sanzioni, ma anche dal collasso proprio del cambio reale e del potere di acquisto delle famiglie.L’Iran aveva persino incentivato il ricorso alla “criptovaluta”, puntando a diventare un riferimento per il “mining”, anche grazie alle bollette della luce sussidiate e che tengono molto bassi i costi di produzione: rispetto ai 13 centesimi per kilowattora degli USA, qui si pagano solamente 3 centesimi. Ma l’inverno rigido ha incrementato i consumi energetici, contribuendo a mandare in tilt la rete. Per il momento, quindi, la repressione ai danni dei Bitcoin renderà molto più difficile per gli iraniani fronteggiare gli spasmi di un sistema economico al collasso. Una buona notizia per le quotazioni della moneta digitale più popolare al mondo, dato che la minore offerta prevedibile dovrebbe sostenerne i corsi. Pessima per le famiglie iraniane, che disporranno di minori mezzi per difendersi dall’inevitabile crac ufficiale del rial.

L’attacco dell’amministrazione Biden a Bitcoin è un avvertimento disperato ai mercati finanziari

In Corea del Nord è ora consentito chiedere aiuto ai parenti all’estero

Il regime di Kim Jong-Un adotta una decisione a suo modo storica e figlia della disperazione per il collasso economico nordcoreano.

 
Il regime di Pyongyang apre agli aiuti dall'estero

Ti accorgi che le cose si siano messe davvero male per la popolazione, quando persino il più spietato regime poliziesco esistente al mondo inizia a chiedere aiuto. Il Ministero per la Sicurezza dello Stato della Corea del Nord ha dato istruzioni ai cittadini sulla possibilità di inviare lettere ai parenti all’estero per chiedere loro denaro. Un permesso senza precedenti, purché avvenga nel rispetto di alcune regole fondamentali. La prima consiste nel non fare accenno ad alcuna situazione politica. La seconda prevede che, accanto ai saluti di rito, ci si potrà lamentare delle proprie condizioni economiche, arrivando a scrivere che dopo la pandemia il parente che vive fuori dai confini nazionali potrà venire a fare visita o, viceversa, che ci si recherà in visita da esso.La corrispondenza sarà chiaramente super-visionata, come sempre accade. Le organizzazioni provinciali del commercio imporranno una commissione sulla valuta estera che i nordcoreani riceveranno dai parenti, ma in misura decrescente rispetto al valore di questi importi. In pratica, un incentivo a farsi spedire quanti più dollari possibili. La notizia è stata riportata in questi giorni dal NK-Daily, quotidiano di opposizione al regime e che ha sede all’estero.E’ di tutta evidenza che siamo dinnanzi a un’emergenza economica gravissima. Lo stesso Kim Jong-Un, leader supremo della Corea del Nord, ha porto le sue scuse alla popolazione all’apertura dell’ottavo congresso del Partito dei Lavoratori per non essere stato in grado di migliorarne le condizioni di vita come promesso. Ma le colpe di tale inottemperanza sono state fatte ricadere sulle sanzioni internazionali dell’ONU, adottate sin dal 2017 su pressione degli USA per la corsa al nucleare di Pyongyang. Il peggio è arrivato, però, solo nell’ultimo anno. Al fine di impedire l’ingresso della pandemia in un paese, in cui gli ospedali ancora posseggono gli strumenti degli anni Settanta, i confini con la Cina sono stati chiusi. I traffici commerciali sono letteralmente collassati, quando già erano molto contenuti a seguito dell’embargo. Da qui, la penuria di cibo e il boom dei prezzi per i prodotti di prima necessità.

Sanzioni, corsa al nucleare ed economia: cosa emerge per la Corea del Nord dal congresso di partito

I rapporti con Biden e il rischio nucleare

Kim Jong-Un teme una nuova carestia come quella che negli anni Novanta costò la vita a circa 2 milioni di persone, un decimo della popolazione di allora. Ma la riapertura delle frontiere sarebbe fuori discussione. Se il Covid-19 dilagasse, sarebbe una potenziale ecatombe. Non ci sono grosse aspettative sull’amministrazione Biden. A differenza di Donald Trump, che arrivò ad incontrare il leader nordcoreano per tre volte tra il 2018 e il 2019, il nuovo presidente non vorrà esporsi sul piano diplomatico e semmai adotterà la politica della massima pressione per spingere Pyongyang a trattare almeno sul congelamento della corsa al nucleare. A tale proposito, il regime comunista osserverà con estremo interesse a quanto accadrà tra USA e Iran. Se i due paesi torneranno ad accordarsi sull’arricchimento dell’uranio, probabile che lo stesso modello verrà applicato su di esso.Ad ogni modo, il permesso di chiedere aiuto all’estero appare disperato e inefficace. Ormai, quasi tutti i nordcoreani hanno fuori dal paese solamente parenti molto anziani, se non ormai deceduti, o fuggiaschi. Dunque, le probabilità che possano ricevere denaro appaiono piuttosto basse. Eppure, il cambio continua a rafforzarsi, guadagnando circa il 10% contro il dollaro solo a gennaio. Non si riesce a capire fino in fondo quale sia la causa di questo apparente paradosso, se il crollo delle importazioni o l’intervento dello stato per contenere i rialzi dei prezzi domestici o entrambi. Quel che è certo è che in un paese pur abituato a vivere in estrema austerità, iniziano a scarseggiare i viveri di prima necessità e tra sanzioni e pandemia, il rischio per il mondo è di assistere a scene di nervosismo di Kim Jong-Un.Con l’impellenza di ottenere qualche concessione immediata da Washington, non possiamo escludere che torni a usare parte dell’arsenale nucleare esibito alla parata militare di pochi giorni fa per il suo compleanno.Biden avrebbe tutta l’intenzione di fargli capire che questo non sarà mai il modo di ottenere qualcosa dalla Comunità internazionale, né un’assicurazione per la vita del regime, ma che anzi costituisce il principale fattore di rischio per la sua sopravvivenza. Il tempo corre e Pyongyang non può permettersi frontiere chiuse per ancora svariati mesi. Sinora, ha dovuto reprimere il mercato nero piuttosto florido a ridosso della Cina e le piccole attività commerciali che negli ultimi anni avevano garantito un minimo miglioramento negli standard di vita. Due i possibili esiti: o il pugno di ferro verrà inasprito fino alle estreme conseguenze o si tornerà verso una maggiore tolleranza delle pratiche commerciali illegali, pur con qualche rischio per la sicurezza sanitaria.

La prima grana di Biden in politica estera sarà l’Iran. Il regime dell’ayatollah annega nella miseria

Teheran ha annunciato un piano di arricchimento dell’uranio al 20%, sfidando apertamente la Casa Bianca a pochi giorni dall’insediamento della nuova amministrazione.

L'Iran sfida Biden sull'uranio arricchito

A pochi giorni dall’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, l’Iran torna a farsi sentire. Lo ha fatto essenzialmente con due novità. La prima è che ha costruito una nuova base missilistica e la seconda riguarda l’annuncio di un programma di arricchimento dell’uranio al 20%, ben al di sopra del limite del 3,67% fissato con l’accordo sul nucleare entrato in vigore nel 2016 e stracciato dall’amministrazione Trump due anni più tardi. Quell’accordo consentiva all’Iran di tornare ad esportare petrolio, grazie all’allentamento delle sanzioni USA, in cambio della rinuncia ai piani nucleari immediati. Prima di lasciare la presidenza, Donald Trump ha posto l’embargo sulle organizzazioni controllate dall’ayatollah Khameini, un modo per rimarcare quale sarebbe l’eredità del suo governo sul dossier Iran.

Fine accordo nucleare con l’Iran, ecco qual è il vero obiettivo di Trump

E’ evidente che le novità di Teheran puntino a mettere pressione al presidente eletto, affinché vagli il dossier sul negoziato al più presto. Il rischio per la Repubblica Islamica consiste in una iniziale concentrazione delle attenzioni di Biden quasi esclusivamente sui temi relativi all’economia domestica, rinviando i capitoli di politica estera al prossimo futuro. E l’ayatollah Khameini non può aspettare più a lungo. Lo stato dell’economia iraniana è miserevole. L’inflazione galoppa attorno al 45% e per ammissione implicita dello stesso presidente Hassan Rouhani, 60 milioni di persone vivrebbero in povertà, cioè i tre quarti del totale.Quest’ultimo dato emerge da un discorso tenuto dallo stesso Rouhani, che ha voluto difendersi dalle accuse di non sostenere abbastanza le fasce più povere della popolazione, ricordando come i sussidi siano stati erogati per l’appunto a 60 milioni di iraniani.

Trattasi di appena 45 mila toman (450 mila rial) al mese, che al cambio attuale sul mercato nero farebbero circa 1,87 dollari, neppure sufficienti per comprare un tozzo di pane per tutta la famiglia. Gli stessi media di stato, pur in uno stato di censura, accusano il governo di cattiva gestione della crisi.Nelle ultime settimane, alla fame si è aggiunto il problema dello smog. Diverse città iraniane sono coperte da una coltre di fumo. La spiegazione più convincente sarebbe che, a corto di gas naturale, gli impianti di generazione dell’energia elettrica sono stati alimentati con petrolio combustibile, maggiormente inquinante. Il ministro dell’Energia, Benjamin Zanganeh, ha negato una simile iniziativa e si è limitato a scusarsi per i frequenti blackout, tra cui anche della TV di stato, mentre ha dichiarato che le forniture energetiche all’industria e agli “estrattori” di Bitcoin sono state limitate alle “strette esigenze domestiche”.

Miseria dilagante e scontro con l’America

Già, i Bitcoin. Con una valuta in caduta libera di anno in anno, per preservare il potere di acquisto molte famiglie stanno puntando sulla moneta digitale. Del resto, i dollari scarseggiano, come evidenzia la distanza siderale tra cambio ufficiale e mercato nero. Secondo il primo, un dollaro dovrebbe essere scambiato contro poco più di 42 mila rial, mentre i cambiavalute nei fatti richiedono ormai la media di 240 mila rial. Chi ha competenze cerca di sfruttare la “bolla” dei Bitcoin per mettere le mani sui dollari, ma il “mining” richiede l’utilizzo di computer ad alto consumo di energia. Metteteci anche un inverno abbastanza rigido e i “lockdown” che stanno costringendo le famiglie a restare a casa e capirete perché i consumi aumentano, a fronte di un’offerta limitata dalle criticità di un’economia davvero mal messa già prima dell’embargo e, a maggior ragione, dopo il suo ripristino.

Il regime dell’ayatollah ufficialmente giustifica la diffusa povertà, additando la “guerra economica” ingaggiata dall’odiata America quale causa unica. Una elevata percentuale della popolazione non crede da tempo a questa spiegazione e, semmai, ritiene che alla base dello scontro con Washington ci siano proprio i comportamenti delle istituzioni iraniane, che continuano a sperperare denaro pubblico in progetti militari anche all’estero (vedi Libano, Yemen e Siria, “proxy war” con l’Arabia Saudita), quando in casa non esistono neppure gli strumenti sufficienti per garantire una sanità minimamente adeguata a fronteggiare la pandemia.

Questa sarà la prima grana di Biden, una volta entrato alla Casa Bianca: tornare a trattare subito con l’Iran o accrescere la pressione sulla sua economia per piegare il regime a un accordo futuro dai termini più vantaggiosi per l’America e la sicurezza mondiale?

L’economia in Iran è al collasso e solo la “pace” con Trump eviterà una crisi totale

La disperazione inascoltata del popolo libanese, costretto a vivere al buio e ridotto alla fame

Economia travolta da crisi e pandemia, cambio crollato ed esplosione della povertà. A Beirut regna la disperazione.

Il Libano sprofonda nella miseria

Le esplosioni al porto di Beirut agli inizi dell’agosto scorso avevano scosso l’intero mondo e avevano quanto meno acceso i riflettori sulla crisi del Libano, quella che un tempo veniva definita la “Svizzera del Medio Oriente”. Dopo pochi giorni, però, le luci si sono spente e il grido di dolore del popolo dei cedri è rimasto inascoltato. Secondo la Banca Mondiale, quell’incidente avrebbe danneggiato la già collassante economia libanese per 8 miliardi di dollari. Tra l’altro, ha distrutto 15 mila attività commerciali nella capitale, la metà del totale, facendo perdere 70 mila posti di lavoro e colpendo 120 mila famiglie. Un disastro, che s’inserisce in un quadro di per sé già molto drammatico.Sempre secondo la Banca Mondiale, il tasso di povertà relativa nel 2020 sarebbe salito al 55%, quella assoluta al 22%. Quest’anno, la prima potrebbe esplodere ulteriormente all’80%. E l’Organizzazione Internazionale del Lavoro stima il tasso di disoccupazione tendente al 65%, pari a 1 milione di persone. Un’enormità per una popolazione di 6,5 milioni di abitanti, a cui si aggiungono 1,5 milioni di migranti.A novembre, l’inflazione era schizzata al 133,47%, conseguenza del collasso del cambio, che al mercato nero ha perso l’80% dalle dimissioni del premier Saad Hariri nell’ottobre 2019, l’atto che ha dato il via alla crisi. La lira libanese scambia a quasi 8.800 contro il dollaro, quando secondo il tasso ufficiale resta fissato principalmente a 1.512. Ormai, i prezzi nei negozi vengono fissati avendo come riferimento proprio il tasso vigente sul mercato nero, risultando in certi casi quintuplicati in appena un anno.

A che punto siamo con la crisi in Libano? Peggio di quanto immaginiamo

Le rimesse tengono a galla i libanesi

Il paese è in default da quasi un anno, non avendo ottemperato alla scadenza di un Eurobond nel marzo 2020.

Il debito pubblico è salito a 94 miliardi di dollari, oltre il 160% del PIL. Di questo, il 43% è detenuto dalla banca centrale, quasi il 29% dalle banche domestiche. L’istituto, guidato dal controverso governatore Riad Salamé, dispone solamente di 19,5 miliardi di dollari di riserve valutarie, di cui 2,5 miliardi effettivamente disponibili per le importazioni, sufficienti per appena un paio di mesi. Malissimo per un’economia, che nel 2019 registrava un deficit commerciale di ben 15,5 miliardi, pur sceso su base annua di quasi il 60% che nel primo semestre del 2020 per effetto del crollo delle importazioni.Per fortuna, pur in calo, ci pensano le rimesse degli emigranti a tenere a galla moltissime famiglie. Nel 2020, sono state pari a 6,6 miliardi, pari alla stratosferica percentuale del 36,2% del PIL, una volta che questi è stato ricalcolato secondo il tasso di cambio più debole applicato per le conversioni delle lire in dollari nelle banche.

La Banca del Libano blocca gli aiuti esteri e aggrava il collasso dell’economia

Banche al collasso e aiuti che non arrivano

E qui, si apre un tasto dolente per i libanesi. Per non fallire, le banche hanno imposto un limite di 200 mila lire al mese ai prelievi. Al cambio ufficiale, farebbero 132 dollari, al cambio vigente sul mercato nero scenderebbero a meno di 23 dollari. Per chi vuole convertire i propri risparmi in dollari, invece, viene applicato un tasso meno favorevole di quello ufficiale, cioè di 3.900. E le famiglie non riescono più a stare dietro ai prezzi. Oltre tutto, si trovano costrette a pagare due bollette della luce, perché la compagnia statale non riesce a garantire l’elettricità tutto il giorno, ma solamente tra le 3 e le 12 ore al giorno, a seconda della zona in cui si vive. Pertanto, bisogna ricorrere al mercato nero e acquistare a costi esosissimi i generatori che consentono di godere dell’illuminazione per il resto della giornata. La spesa complessiva ammonta al 4,5% del PIL.I “blackout” sono ormai un’abitudine, provocata da bollette rimaste fissate alle tariffe di fine anni Novanta, quando le quotazioni del petrolio erano sui 20 dollari al barile. Negli anni, la compagnia ha accumulato debiti su debiti, non riuscendo ad incassare abbastanza dagli utenti per coprire i costi. La scarsa offerta è aggravata dall’aumento della domanda, conseguenza della crescita della popolazione, perlopiù trainata dai migranti.Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ritiene che la riforma del settore sia tra le priorità che il governo deve affrontare per ricevere il prestito di 10 miliardi in 5 anni, ventilato nei mesi scorsi. Ma le condizioni fondamentali per l’erogazione degli aiuti non ci sono. Hariri è tornato premier dopo le dimissioni estive di Hassan Diab e non riesce ancora a guidare un governo nel pieno delle sue funzioni, a causa del mancato accordo tra le varie fazioni e l’opposizione espressa dalla minoranza cristiana.Il presidente francese Emmanuel Macron, che aveva promesso sostegno al Libano dopo la tragedia di agosto, frustrato dai mancati progressi politici, ha chiarito senza fronzoli che non sgancerà un euro a favore di Beirut senza un governo capace di varare le riforme strutturali necessarie a rilanciare l’economia. L’FMI è sulla stessa linea. Oltretutto, Hezbollah è contrario ai prestiti internazionali, non volendo sottoporre Beirut ai controlli di organismi esterni, alle politiche di austerità fiscale e altre misure all’impatto impopolari. Nel frattempo, il Covid aggrava la situazione con le restrizioni imposte per frenare i contagi. E il peggio deve solo arrivare con la fine del “peg” contro il dollaro, che a questo punto sarà solo questione di tempo. Uno scenario venezuelano, che rischia di travolgere politica e banca centrale, accusate non a torto di corruzione e settarismo, con il rischio di tornare agli scontri religiosi sanguinari di inizio anni Ottanta e replicatisi nel 2006.

Libano rimasto senza governo, luce e farina, ricostruzione di Beirut lunga e difficile

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https://www.express.co.uk/news/world/1380722/world-war-3-usa-china-nuclear-weapons-mike-pompeo-donald-trump-administration

La riforma monetaria a Cuba disorienta le famiglie: file ai bancomat e prezzi schizzati

Eliminato il CUC, il peso convertibile, sull’isola si fanno i primi conti con una realtà cambiata drasticamente per la popolazione.

12 Gennaio 2021 

Come procede l'unificazione monetaria a Cuba?

Il “giorno zero” è stato a Capodanno a Cuba. Lo si attendeva da almeno 7 anni e serpeggiavano molti timori sul suo arrivo. E stavolta, il regime de L’Avana ha mantenuto la promessa: via alla riforma monetaria. Scompare il CUC o peso convertibile e rimane in circolazione solo il CUP o peso cubano. Ci sarà tempo fino a giugno per scambiare CUC in CUP a un tasso di 1 contro 24. La riforma monetaria rappresenta un passo importantissimo per migliorare l’efficienza dell’economia dell’isola, ancora largamente pianificata. Ma le conseguenze non sono indolori e le famiglie se ne sono già accorte.

Lunghe file si stanno registrando sia dinnanzi alle filiali della banca centrale per scambiare i CUC in CUP, sia agli ATM. “Quando facevi bancomat, prima ti erogavano banconote da 5, 10 o 20 pesos, adesso da 100 o 200 pesos”, racconta un cittadino alla stampa straniera. E’ il primo segnale di quanto stia accadendo: i prezzi stanno schizzando in alto. In effetti, è lo stesso governo ad averlo previsto, se è vero che abbia quintuplicato stipendi pubblici, sussidi e pensioni. Esso si attende che i prezzi di beni e servizi prodotti dalle società statali aumentino di 1,6 volte, mentre quelli prodotti dal settore privato triplicherebbero.

A Cuba circolano solo i pesos emessi da Ernesto “Che” Guevara, ma è iniziata la maxi-svalutazione

I contraccolpi sulla popolazione

Il motivo è semplice. Fino al 31 dicembre scorso, 1 CUC veniva scambiato contro 1 CUP per le aziende dello stato. Dall’1 gennaio, nei fatti il CUP è stato svalutato di circa il 96%. Importare prodotti dall’estero per le aziende statali diventerà molto più costoso, perché dovranno accedere a un tasso di cambio di 24 volte più debole. E tutto questo sta avvenendo nel bel mezzo di una pandemia, che qui ha prosciugato le entrate del turismo, facendo collassare il PIL dell’11% nel 2020.Oltre a ciò, bisogna considerare che L’Avana stia tagliando gli stessi sussidi. Come accade tipicamente nei regimi comunisti, molti beni e servizi fondamentali vengono forniti alla popolazione in quantità razionate e a prezzi politici o gratuitamente. Poiché questa forma di assistenza non appare più sostenibile, il sostegno alle famiglie sta riducendosi. Questo significa che gli acquisti stanno avvenendo in misura crescente ai prezzi di mercato, che sono chiaramente molto più alti di quelli di favore praticati dallo stato. I dipendenti pubblici e i pensionati rimangono fino a un certo punto tutelati dai rincari, tramite gli aumenti di salari e pensioni decisi dal governo. Chi lavora nel settore privato, invece, sarà esposto all’inflazione per una prima fase, a meno che le imprese non adeguino successivamente i salari, potendo confidare su ricavi maggiori. E c’è per tutti il potenziale sollievo delle rimesse degli emigranti. I dollari che verranno inviati a casa dai cubani espatriati d’ora in avanti varranno di più, una volta convertiti in pesos. Ciò chiaramente creerà vantaggi a favore di chi ha almeno qualche parente all’estero.

A Cuba chiudono gli uffici di Western Union, la popolazione è nel panico

I benefici della riforma monetaria

Ma le implicazioni di medio-lungo termine di questa riforma monetaria saranno positive, pur transitoriamente dolorose. Per prima cosa, viene meno l’incentivo a comprare dall’estero. Un cambio molto più debole spingerà le aziende statali a decidere di produrre di più in loco, anziché importare beni e servizi. I consumi si sposteranno, poi, dai beni sinora sussidiati al resto del paniere, seguendo logiche di mercato e non più calate dall’alto. E l’occupazione dovrebbe beneficiarne. Secondo le statistiche ufficiali, il 65% dei cubani in età lavorativa è occupata, ma questa percentuale è crollata di una decina di punti negli ultimi anni. E molti posti di lavoro sono “fittizi”, cioè creati dallo stato semplicemente per dare un salario.L’aumento vertiginoso dei prezzi renderà il costo della vita molto più caro. Il tempo libero diverrà ben più costoso e rinunciare a un’ora di lavoro sarà sempre meno sostenibile. Con il tempo, molti cubani verranno indotti così a cercarsi un lavoro.Il problema è che la sola riforma monetaria non risolve i problemi dell’economia comunista. Se le aziende cubane vorranno importare di meno e produrre di più sull’isola, serve che il governo renda ciò possibile, allentando le restrizioni a carico dell’iniziativa privata. Se così non fosse, anche volendo i cubani non troverebbero dove andare a lavorare. E’ il settore privato che crea occupazione vera, ma ad oggi resta limitato e circoscritto ad alcuni settori, come il turismo.Infine, la riforma monetaria non ha esaurito la svalutazione del cambio. Al mercato nero, un dollaro viene comprato per 30 CUP, ma negli ultimi giorni si sono visti prezzi ancora più alti. Questo significa che il peso resta forte e continuerà a distorcere le relazioni commerciali a sfavore delle produzioni locali. Una ulteriore svalutazione a breve, tuttavia, non sembra probabile, dati gli effetti ancora più duri che avrebbe sulla popolazione. Eppure, la banca centrale ha avvertito che il cambio del CUP contro il CUC verrà quotidianamente pubblicato, come a mettere in guardia su possibili variazioni. Siamo solo agli inizi di un lungo percorso di transizione verso un’economia più di mercato.

E’ ufficiale: Cuba svaluta il cambio e apre agli investimenti stranieri. Attesa inflazione a 3 cifre!

L’embargo social contro Trump non riguarda solo il tycoon e la politica, è a rischio la stessa economia

L’esultanza degli uni e la rabbia degli altri sulla rimozione/sospensione degli account del presidente USA sono fuorvianti. In gioco, c’è molto di più.

Dopo i fatti di Washington, il clima politico si è drasticamente deteriorato negli USA, e non solo. Un gruppo di scalmanati, al termine di un comizio tenuto da Donald Trump nel giorno della ratifica del Congresso dell’elezione di Joe Biden, si è staccato e ha fatto irruzione niente di meno che a Capitol Hill, costringendo deputati e senatori a barricarsi in aula per paura di essere oggetto di violenze fisiche. E’ il 6 gennaio e il bilancio della vicenda si mostra assai grave: 5 morti, di cui un agente della sicurezza.Trump viene considerato il mandante morale e finanche materiale dei facinorosi, almeno da gran parte della stampa e dell’opinione pubblica mondiale. Nelle ore successive, il presidente americano, che non aveva sino ad allora riconosciuto la sconfitta, prende atto del clima di estrema tensione nella nazione e rassicura sulla transizione pacifica verso l’amministrazione democratica al 20 gennaio. Gli avversari ne chiedono le dimissioni o la rimozione per infermità mentale. E mentre gli schieramenti discutono su come affrontare questi ultimi giorni di presidenza, i social fanno un passo avanti. Facebook ha annunciato di aver sospeso il profilo di Trump fino al 20 gennaio, mentre Twitter dapprima sospende l’account per 12 ore, successivamente decide di rimuoverlo permanentemente. Oltre 88 milioni di follower perduti e, non a caso, nelle negoziazioni pre-market di ieri, il titolo della società dei cinguettii perdeva fino all’8%.Ma è avvenuto qualcosa di più. A parte che ad essere bannati dai social sono stati anche i profili dei più stretti collaboratori di Trump, tra cui Michael Flynn, ex consigliere alla Sicurezza, i diretti interessati avevano annunciato che si sarebbero spostati su Parler, un’app simile a Twitter, usata negli ambienti conservatori americani.Ma immediatamente Google annuncia di averne sospeso il “download” tramite il suo Play Store Android, seguita da Apple poche ore dopo con il blocco su App Store. Motivazione? Non avrebbe una chiara regolamentazione dei contenuti contro l’incitamento all’odio e alla violenza.

Web Tax, Facebook: evasione fiscale per 9 miliardi, il fisco USA batte cassa

La collusione tra i giganti della Silicon Valley

A questo punto, il presidente Trump, quale che sia il giudizio di ciascuno di noi sulla sua persona e sul suo operato, si ritrova nella posizione paradossale di trovarsi ancora per pochi giorni nello Studio Ovale, l’ufficio più potente del pianeta, ma senza alcuna libertà di parola sui social. In molti hanno rimarcato la natura privata di queste società, non tenute a garantire alcunché a nessuno, specie se un profilo ne violi il codice di condotta.A parte che siamo dinnanzi a una lettura semplicistica, perché non esiste società privata che non sia tenuta a rispettare alcune leggi fondamentali, come accade per il mondo dei media. Il fatto è che stiamo parlando di piattaforme ormai quasi monopolistiche sui social. Nell’ultimo decennio, sono diventate la piazza principale della comunicazione politica e non, mentre adesso “scopriamo” che questa possa venir sottratta a chicchessia senza troppe spiegazioni. Un po’ come se negli anni Novanta le reti televisive avessero deciso di censurare un politico, invitandolo ad affidarsi solamente ai giornali. O come se negli anni Cinquanta, le redazioni giornalistiche avessero bannato un capo di stato, suggerendogli di affidarsi ai soli comizi di piazza per comunicare con la cittadinanza.Ma quel che sta accadendo è ancora più grave e non riguarda neppure la sola sfera politica, come le opposte tifoserie anti- e pro-Trump stanno cadendo nell’errore di credere. La censura di Parler è inqualificabile, perché segnala come un piccolissimo nucleo di persone riesca nei fatti a controllare non solo la comunicazione, ma a restringere la concorrenza. In pratica, Google e Apple da soli hanno impedito a una società concorrente a Twitter di crescere con una scusa che non si regge in piedi, dato che il social esiste da un paio di anni e sembra incredibile che solo adesso ci si accorga di eventuali “falle” nei controlli dei post pubblicati.E per caso, Twitter o Facebook stanno censurando i dittatori che usano i social per istigare all’odio o alla violenza contro nemici interni e/o esterni?

Facebook a rischio divorzio da Instagram e WhatsApp, la Silicon Valley ora fa paura

Capitalismo a rischio

Qui, non è in gioco la libertà di parola di Trump, ma di tutti. Anzi, è in gioco la libertà d’impresa stessa. Poiché le infrastrutture di internet sono in mano a pochissimi colossi con sede nella Silicon Valley, questi stanno con ogni evidenza colludendo tra loro per arrestare ogni avanzata possibile di una qualche forma di concorrenza. Sarebbe come se a una gara di auto, in qualità di gestore di un tratto stradale impedissi l’ingresso a nuovi veicoli, accampando la scusa che siano sprovvisti di assicurazione, così che a competere siano sempre gli stessi, spesso anch’essi sprovvisti di copertura assicurativa.Né si creda che i colossi in questione siano genuinamente progressisti. Lo sono ipocritamente per strizzare l’occhio a una stampa liberal molto potente e al contempo per mendicare un po’ di benevolenza dalla prossima amministrazione americana, dopo che i democratici hanno presentato in campagna elettorale un piano per chiedere la scissione di aziende troppo grandi, specie di Facebook. In questo caso, sono stati appoggiati dai rivali repubblicani, con 47 stati su 50 ad avere chiesto che il social venga separato da WhatsApp e Instagram.Chi tifa per l’embargo social di Trump, mosso dalla sola antipatia verso il tycoon, vede il dito e non la luna. A rischio vi sono le libertà fondamentali su cui poggia il capitalismo, vale a dire la circolazione delle idee (tutte, pur un minimo monitorate per evitare sgradevoli ripercussioni) e l’ingresso sempre possibile sul mercato di nuove realtà. Adesso, lo stesso Mark Zuckerberg colto a vendere anni fa i dati sensibili degli elettori americani a Cambridge Analytica, il cui social è sede quotidiana di ogni forma di linguaggio estremo ed esasperazione, si finge interessato alla distensione degli animi.Una colossale presa in giro di un manipolo di monopolizzatori del mercato, che sta cercando di impedire al mondo esterno di trovare alternative con la creazione di una potenziale concorrenza ai loro interessi economici.

Basta Conte, verso governo Draghi? Mr Whatever It Takes sarebbe pronto. E ora c’è anche movimento cittadini che tifa per lui

06/01/2021

Governo Draghi più vicino? Ora c'è anche Movimento spontaneo cittadini Draghi presidente

Si chiama Movimento spontaneo cittadini per Draghi presidente. Nata il 13 agosto 2020, l’Associazione Spontanea Cittadini Draghi Presidente lancia un appello a tutti i cittadini affinché aderiscano alla sua iniziativa: affidare la guida dell’Italia all’ex presidente della Bce Mario Draghi.
Nel comunicato dell’associazione si legge: “In questo momento di grave crisi ma di grande opportunità, l’Italia ha bisogno di essere guidata da un uomo di governo preparato sotto il profilo finanziario ed economico, con una grandissima esperienza alle spalle, rispettato ed ascoltato da tutti e in tutto il mondo. Un uomo credibile in patria e nel mondo, un uomo capace di creare naturale silenzio nel momento in cui prende parola. Un uomo che non abbia paura di assumere posizioni forti e decise per il bene dell’Italia e dei suoi cittadini. Questo uomo esiste e si chiama Mario Draghi“.

L’associazione ricorda che “ci troviamo nel pieno della più grande emergenza sanitaria del secolo, con l’economia da risollevare e 209 miliardi di euro, parte a fondo perduto e parte quale finanziamento, che l’Unione Europea è pronta a stanziare per il recupero e lo sviluppo dell’Italia (attraverso il Next Generation EU-Recovery Fund). Serve una persona che l’Europa reputi affidabile e che sappia pianificarne l’arrivo e la spesa entro i tempi stabiliti”.
L’appello al popolo italiano, è che “si unisca a noi in grande numero per chiedere, a Mario Draghi di assumere un impegno per il Suo e per il nostro Paese”. In che modo? “18 mesi alla guida del governo per uscire dall’emergenza sanitaria e avviare la ripresa del Paese, per poi essere proposto e votato da tutti alla Presidenza della Repubblica allo scadere del mandato dell’attuale Presidente Sergio Mattarella – spiegano i promotori dell’iniziativa – Facciamo appello alle forze politiche in campo affinché diano a Draghi il supporto di una grandissima maggioranza parlamentare, lavorino con lui per risollevare la gravissima situazione attuale e poi lo eleggano alla Presidenza della Repubblica nel 2022″.

Rumor: Draghi avrebbe dato ok a guidare governo ricostruzione nazionale

Allo stesso tempo, un articolo di Affari Italiani rivela rumor secondo cui “Mario Draghi avrebbe dato il suo assenso a guidare un governo della ricostruzione nazionale sostenuto da una foltissima maggioranza parlamentare. Secondo le indiscrezioni, Forza Italia e Lega si sarebbero già dichiarate pronte ad appoggiarlo.
Così come Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, il Pd, la Lega e buona parte, anche, del M5S (il sito scrive “Di Maio in testa“)
Ma il diretto interessato cosa dice? Di lui nelle vesti di presidente del Consiglio o di presidente della Repubblica hanno parlato in molti.
Occhio alla recente dichiarazione di Romano Prodi, che aveva avvertito su un atteggiamento, forse, tipicamente italiano, laddove aveva detto che, con Draghi, “si pensa a un deus ex machina, ma spesso italiani aspettano un salvatore per poi crocifiggerlo”. 
Sempre Prodi, in un’intervista di qualche mese fa rilasciata a L’Aria che tira, aveva fatto notare: “Mario Draghi mica è un disperato alla ricerca di un mestiere, non accetterebbe mai senza una sicurezza politica alle spalle”.

Appello pro-Draghi arriva “all’apice della bufera politica”

L’appello arriva in un momento di grave crisi di governo, con Italia Viva di Matteo Renzi pronta a staccare la spina.
Italia= paese spacciato, commenta Wolfango Piccoli, co-presidente della società di consulenza globale Teneo, secondo cui il paese non riuscirebbe a uscire dal “pantano economico e sanitario provocato dalla pandemia” Covid-19 neanche con un nuovo esecutivo: l’alleanza alla base di un possibile nuovo governo, che si tratti di un #ConteTer o di uno nuovo capitanato da un’altra figura avrebbe infatti il sostegno di un’”alleanza ancora fragile e inadeguata”.
Ma se questo uomo nuovo fosse, invece, Mario Draghi, il cui nome circola da mesi come candidato più papabile a sostituire Conte, da una buona parte della politica e, anche, da molti cittadini italiani?
Di questo supporto di cui gode l’ex timoniere della Banca centrale europea, il Mr Whatever It Takes della Bce che ha salvato l’Eurozona, noto per aver proferito la frase “l’euro è irreversibile” e per aver lanciato bazooka monetari di ogni tipo, ne è ben consapevole il Movimento Spontaneo Cittadini per Draghi Presidente, che definisce il banchiere un “uomo che ha dimostrato di essere un leader competente ed affidabile” e che “oggi grazie alla sua raffinata capacità di analisi ha compreso i bisogni che questo stato di emergenza pandemico sta generando sul piano sanitario, sociale ed economico”.
Chi sia interessato, si legge nel comunicato, “può aderire via web al sito: www.draghipresidente.org  oppure Via Facebook alla pagina “Movimento spontaneo cittadini Draghi Presidente”. Su Facebook è riportato integralmente il comunicato, con tanto di appello:
All’apice della bufera politica che si sta abbattendo sul Governo, con le forze di minoranza che minacciano la sfiducia, il nome di MARIO DRAGHI rimbalza sulla bocca di tutti quale ‘patriae salvatorem’. Ebbene quest’oggi 4 Gennaio 2021 l’associazione Movimento Spontaneo Cittadini Draghi Presidente ha deciso di rivelarsi. A 6 mesi dall’atto costitutivo, con il seguente comunicato diramato a più di 15 agenzie di stampa, ha deciso di scendere in campo per perseguire il suo scopo. Perché ciò che un mese fa era utopia, oggi prende forma e domani sarà realtà. Condividete e comunicate perché solo con l’aiuto di tutti raggiungeremo l’obiettivo!”

Chi sono padri fondatori del Movimento Draghi presidente

Sedici i padri fondatori del Movimento Spontaneo Cittadini Draghi Presidente: si tratta di Stefano Cautero, presidente, oltre che socio fondatore; Paolo Trotta, vicepresidente; Graziella Drago, Vice Presidente; Daniela De Pauli, Tesoriera; Marco Marsico, Responsabile del Programma; Marco Crescente, Reponsabile Comunicazione; Francesco Bocucci, Responsabile Dipartimenti; Leonardo Poletti, Responsabile Promozione; Federico Patriarca, presidente Collegio Sindacale; Alessandro Bruno, vice presidente Collegio Sindacale; Carlo Pirelli Marti, egretario Collegio Sindacale; Adriana Buri, Supplente Collegio Sindacale; Dolso Cristina, Supplente Collegio Sindacale; Marco De Parli, Presidente Collegio Probiviri; Saloua SraydI, Probivira; Lorenzo Nonino, Probiviro.
Draghi, che della possibilità di guidare l’Italia non ha mai parlato, si è messo in evidenza di recente con una intervista rilasciata al Corriere della Sera, in cui ha affrontato diverse questioni, lanciando anche un alert sulle banche e sulla sostenibilità del debito:
“Se le risorse del Next Generation EU saranno sprecate – ha avvertito – il debito alla fine diventerà insostenibile perché i progetti finanziati non produrranno crescita”.
Sulla gravità della crisi, Draghi non ha fatto sconti, sottolineando di non credere assolutamente in una ripresa a V post recessione provocata dalla pandemia Covid, inizialmente ipotizzata da alcuni economisti:
“All’inizio qualcuno diceva che questa sarebbe stata una recessione a forma di V. Non lo è, questa è una lunga recessione. Se dunque i progetti pubblici saranno disegnati bene, saranno di grande aiuto. Se non lo sono, non contribuiranno alla crescita”.
Intanto, in queste ore concitate in cui il governo Conte viene dato vicino al collasso, e in cui si attende il suo intervento in Parlamento, con Matteo Renzi che non risparmia picconate, si apprende dall’Ansa che il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha consegnato al premier Giuseppe Conte la bozza aggiornata di Recovery plan, che recepisce alcune delle osservazioni dei partiti della maggioranza. “Gualtieri, a quanto trapela da fonti di maggioranza, avrebbe illustrato il documento al premier in una lunga riunione a Palazzo Chigi, insieme ai ministri degli Affari Ue e del Sud, Enzo Amendola e Peppe Provenzano, che hanno lavorato insieme al Mef alla stesura della bozza aggiornata”.
A questo punto, bisognerà vedere cosa faranno le ministre di Italia Viva Teresa Bellanova e Elena Bonetti che, come ha confermato Renzi, sono pronte a dimettersi. E sarebbe quella, secondo qualcuno, l’apertura ufficiale della crisi. E, a quanto pare, la fine dei giorni di Conte.

Crisi governo, Renzi continua a picconare Conte. Recovery Plan, commento dall’HEC di Parigi: ‘nodo gordiano è su come spendere fondi’

“Il nodo gordiano è su come spendere i fondi europei, e se destinarli a progetti nuovi o pre-esistenti“. Commenta così la crisi di governo  Alberto Alemanno, Professore di Diritto europeo alla Grande Ecole des Hautes Etudes Commerciales (HEC) di Parigi, interpellato dalla Cnbc.

Crisi governo Conte: Renzi piccona l'esecutivo sul Recovery Plan. Esecutivo al collasso?
Foto Roberto Monaldo / LaPresse
30-12-2020 Roma
Politica
Villa Madama – Conferenza stampa di fine anno del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte
Nella foto Giuseppe Conte
Photo Roberto Monaldo / LaPresse
30-12-2020 Rome (Italy)
Villa Madama – Year-end press conference by the Prime Minister Giuseppe Conte
In the pic Giuseppe Conte

Alemanno fa notare che, se è vero che puntare su progetti nuovi avrebbe l’effetto di far salire ulteriormente il debito pubblico italiano, già ai livelli record, canalizzare le risorse verso progetti pre-esistenti “ridurrebbe l’impatto positivo del sostegno finanziario dell’Ue”.
L’ennesima crisi di governo tutta italiana torna sotto i riflettori di tutto il mondo: il leader di Italia Viva ed ex presidente del Consiglio Matteo Renzi precisa nella sua e-news che il suo partito non chiede poltrone, tanto che le due ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti sono “pronte a dimettersi”. Su Giuseppe Conte: “Il premier ha detto che verrà in Parlamento in modo trasparente. Lo aspettiamo in Senato. E se i responsabili di Lady Mastella sosterranno questo governo al posto nostro, noi non grideremo allo scandalo ma rispetteremo la democrazia parlamentare”.
Dai 5Stelle si fa sentire, con un’intervista ad ad Agorà Rai Tre il deputato Riccardo Ricciardi, che sottolinea che “il M5S non appoggerà nessun governo che non sia il governo Conte”. E che aggiunge: “Il gruppo parlamentare del M5S è assolutamente compatto nell’appoggiare Conte al di là di quello che dicono gli altri”.
Ma le minacce di Renzi di staccare la spina al governo Conte si fanno sempre più concrete: nello stesso giorno (ieri) in cui ha affermato che “ora il premier è Conte” e che “a Palazzo Chigi c’è un presidente del Consiglio alla volta” -, rilasciando anche un commento sull’ex presidente della Bce Mario Draghi – il leader di Italia Viva ha detto ieri sera che la questione non è sul rimpasto, ma sulla necessità di “stare sui contenuti”.
Di conseguenza, che “il presidente del Consiglio sia Conte o sia un altro lo vedremo”, ha sottolineato, riferendosi al problema più urgente, quello di trovare una intesa sul Recovery Plan.
Non sono mancate sferzate ironiche rivolte al presidente del Consiglio. Sempre a “Quarta Repubblica”, Renzi si è così espresso: “Ho sentito anche io che (Conte) ha detto ‘ci vediamo in parlamento’. Lo aspettiamo! Che dobbiamo dire? Non penserà mica che con uno come me dire ‘andiamo in Parlamento’ suoni come una minaccia. Se lui attraverso la senatrice Mastella ed altri ha i numeri per governare senza di noi Evviva!”.
Ancora Renzi nella e-news: “Ma vi rendete conto che nel Recovery Plan per i giovani e l’occupazione, nei prossimi sei anni, ci sono meno risorse di quelle che sono previste per il solo 2021 per il cash-back? Davvero il futuro dei nostri giovani vale meno del futuro di una carta di credito?” E ancora, “perché in Italia andiamo a rilento? Se servono più risorse, c’è il Mes. E se avessimo preso il Mes sei mesi fa oggi avremmo più vaccinati”.
E così l’Italia torna protagonista della stampa mondiale: Italy’s government could soon collapse over a dispute about EU funds, recita l’articolo della Cnbc scritto da Silvia Amaro, che raccoglie i pareri di professori ed economisti, come fatto nel caso di Alberto Alemanno.
Commenta la crisi del governo Conte anche Wolf Piccoli, co-presidente della società di consulenza Teneo, in una delle tante note dedicate all’Italia, facendo riferimento a quegli attriti, che vanno avanti da settimane, tra Conte e Renzi, e che hanno per oggetto il Recovery Plan, ovvero “come utilizzare quei 209 miliardi di euro sotto forma di sovvenzioni e prestiti a bassi tassi di interesse che l’Italia riceverà dal Recovery Fund dell’Unione europea”.
“Italia Viva – scrive Piccoli – il partito (moribondo) di Renzi, ha accusato (Conte) di aver estromesso il Parlamento dalle trattative (sul Recovery Plan), con la sua proposta di creare una task force speciale che decida come spendere i fondi europei”. Piccoli ricorda che Renzi ha chiesto ripetutamente al governo di utilizzare i finanziamenti (per un valore fino a 36 miliardi) del Mes e di aver invitato Conte a rinunciare al comando dei Servizi Segreti, che il primo ministro ha detenuto per mesi.
A questo punto, si attendono le mosse del premier, che ha deciso di confrontarsi direttamente con Renzi al Parlamento, e che nelle prossime ore presenterà al suo esecutivo il Recovery Plan.
Secondo Piccoli, l’apertura ufficiale della crisi di governo potrebbe avvenire con il rifiuto delle due ministre di Italia Viva Bellanova e Bonetti di sostenere il piano. In via alternativa, Renzi potrebbe chiedere alle due ministre di rassegnare le dimissioni prima del Consiglio dei Ministri.
In ogni caso, se Italia Viva decidesse di ritirare il suo sostegno al governo, secondo il dirigente di Teneo si potrebbe arrivare a una mozione di sfiducia contro il governo Conte. (proposta tra l’altro già avanzata da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
“Nello scenario più probabile, la crisi porterà alla formazione di un nuovo governo sostenuto dalle stesse forze di coalizione, guidato da Conte (scenario di base) o da un nuovo premier designato. E’ molto improbabile che si materializzino invece gli altri scenari, che includono le elezioni anticipate o la creazione di un governo di unità nazionale guidato da un tecnocrate rispettato (Mario Draghi è il candidato che viene più spesso menzionato”, ha detto Wolfango Piccoli.
Il nuovo governo si confermerà comunque “un’alleanza fragile totalmente inadeguata a guidare il paese fuori dal pantano economico e sanitario provocato dalla pandemia” Covid-19.

L’Africa è adesso il più grande mercato unico del mondo: si punta sul lavoro per giovani e donne

E’ entrato in vigore l’accordo di libero scambio, che vale 2.500 miliardi di PIL e riguarda 1,2 miliardi di persone. Una svolta per il continente più povero del mondo.

di Giuseppe Timpone , pubblicato il 05 Gennaio 2021 alle ore 15:53

Nasce il mercato unico europeo

Dopo anni di discussioni e trattative complesse tra gli stati, l’1 gennaio scorso è nato ufficialmente il mercato unico africano. In sigla, l’accordo si chiama African Continental Free Trade Area ed è stato ratificato già da 34 paesi sui 53 aderenti. L’unico stato del continente ad essere voluto rimanere fuori è l’Eritrea. Parliamo di un’area di libero scambio di 1,2 miliardi di abitanti, la più grande al mondo, e con un PIL complessivo di 2.500 miliardi di dollari. Per il continente più povero del mondo, si tratta di una grande svolta e si spera di raccoglierne i benefici quanto prima.

Africa controcorrente verso il mercato unico, ma per ora senza i big

L’accordo prevede l’eliminazione dei dazi sul 90% dei prodotti e l’abbattimento delle barriere non tariffarie. Anche sui servizi si va verso una graduale integrazione. Qual è l’idea alla base? Integrare le economie nazionali, ad oggi frutto di retaggi coloniali. Lo dimostra il fatto che gli scambi commerciali interni incidano per appena il 16,6% del totale, mentre in Europa sfiorano il 70% e si attestano al 60%. Di fatto, ancora oggi le esportazioni africane sono concepite per trovare mercati di sbocco presso gli altri continenti, perlopiù materie prime. In effetti, oggi i dazi medi applicati tra stati africani sono del 6,1%, superiori a quelli che gli stessi applicano sulle importazioni dal resto del mondo. Con l’accordo, si punta a intensificare l’import/export infracontinentale di almeno il 50% entro la fine del decennio.Non sarà facile. Anzitutto, perché le infrastrutture sono carenti. Le esportazioni ad oggi avvengono essenzialmente tramite i porti, dai quali le merci vengono caricate per raggiungere il Vecchio Continente, anzitutto. Servono vie di collegamento interne e per costruirle sono necessari grossi investimenti per decine e decine di miliardi di dollari all’anno.Le difficoltà sono ampliate anche dalle forti differenze normative e burocratiche tra stato e stato, che rendono complicato procedere verso una maggiore uniformità di regole e di controlli. Per non parlare dei numerosi conflitti tra i diversi stati, con annessa diffidenza tra i governi e le stesse popolazioni.

Gli obiettivi del mercato unico africano

Ma l’obiettivo del mercato unico è ambizioso: creare milioni di nuovi posti di lavoro, a beneficio particolarmente di giovani e donne. Ad Accra, la capitale del Ghana, ha sede l’organismo che sorveglierà l’implementazione dell’accordo. I dati ci dicono che i tre quarti delle esportazioni extra-continentali sono di natura estrattiva, cioè derivano dalla vendita di materie prime. Le esportazioni infra-continentali estrattive, invece, ammontano al 40% del totale. Esse sono “capital intensive”, cioè tendono a creare relativamente pochi posti di lavoro. Per questo, potenziare gli scambi commerciali tra stati africani indurrebbe le economie a creare più posti di lavoro, specie tra i segmenti spesso più discriminati della popolazione, principalmente le donne.Le donne incidono per una percentuale molto elevata (70%) dei lavoratori coinvolti negli scambi commerciali irregolari tra stati e per questo spesso diventano vittime di abusi e violenze delle autorità. Ma con l’entrata in vigore dell’accordo, il mercato nero perderà progressivamente di significato, per cui queste posizioni lavorative troveranno spazio a favore del mercato regolare, contribuendo alla crescita del gettito fiscale. Sarà un cambio di mentalità dirompente. In pratica, ad oggi i dazi sono stati concepiti dai governi africani come una fonte di entrata, mentre d’ora in avanti diverranno uno strumento di politica industriale.Non mancano i dubbi circa i risultati. Ad esempio, i benefici dell’aumento degli scambi infra-continentali saranno ripartiti in maniera omogenea o alcuni stati rischiano di vederne pochi o niente? L’accordo reggerà alle possibili contestazioni degli uni contro gli altri sull’implementazione delle regole? E i governi sono realmente preparati al cambio di mentalità, che presume anche la creazione di un unico spazio per il riconoscimento di brevetti, licenze e il libero accesso al mercato dei servizi da parte di società straniere? Tutte domande che resteranno senza risposta per questa prima fase e che valgono la scommessa, quella di debellare la povertà dal continente.Un tema che riguarda noi europei da vicinissimo, come dimostrano gli sbarchi incessanti di migranti sulle nostre coste da anni a questa parte.

Economia africana a una possibile svolta: mercato comune in tutto il Continente

Petrolio in rally su scia rumor: Opec+ pronta a tagliare offerta. Incidono tensioni geopolitiche con fattore Iran

Prezzi del petrolio in rialzo, dopo alcune indiscrezioni secondo cui l’Opec +, l’alleanza tra i paesi Opec e non, starebbe valutando l’opzione di tagliare l’output nel mese di febbraio.La Cnbc riporta rumor relativi a un documento dell’Opec datato 4 gennaio (ieri), secondo cui il gruppo starebbe studiando l’opzione di procedere a una riduzione dell’offerta di 500.000 barili al giorno, oltre ad altri tre scenari, che includerebbero le ipotesi, anche, di lasciare l’offerta stabile o di procedere a un aumento di 500.000 barili al giorno.Sulle oscillazioni dei prezzi del petrolio, incidono anche le tensioni geopolitiche, rinfocolate con la notizia del sequestro di una nave cargo battente bandiera sudcoreana, la MT Hankuk Chemi, diretta verso gli Emirati Arabi Uniti, da parte delle Guardie della rivoluzione islamica iraniana, nei pressi dello Stretto di Hormuz. La nave sarebbe stata condotta verso un porto in Iran.I negoziati tra i paesi partecipanti all’Opec+ riprenderanno nelle prossime ore. I prezzi del contratto WTI scambiato a New York salgono dell’1,81% a $48,48, mentre quelli sul Brent avanzano dell’1,76% a $51,99 al barile.

A Cuba circolano solo i pesos emessi da Ernesto “Che” Guevara, ma è iniziata la maxi-svalutazione

Fine dei pesos convertibili e unificazione monetaria. Dopo 7 anni di annunci, la grande riforma voluta dal regime comunista è partita.

Fine del peso convertibile a Cuba

A 62 anni dalla “Revolucion”, il CUP o peso cubano è stato svalutato per la prima volta. A partire dallo scorso 1 gennaio, il regime comunista guidato dal presidente Miguel Diaz-Canel ha semplificato il sistema dei cambi dell’isola, eliminando il CUC o peso convertibile. A partire da quest’anno, un dollaro può essere scambiato contro 24 CUP, ma la banca centrale ha annunciato che pubblicherà quotidianamente i tassi di cambio, evidentemente lasciando intendere che questi non siano necessariamente fissi, ma in una certa misura fluttuanti.

E’ ufficiale: Cuba svaluta il cambio e apre agli investimenti stranieri. Attesa inflazione a 3 cifre!

Per capire la portata della riforma, di cui si discuteva sin dal 2013 e più volte rinviata per le sue potenziali grosse conseguenze negative per la popolazione, dobbiamo spiegare il sistema dei cambi vigenti fino a pochi giorni fa. Era il 1959 e Fidel Castro riesce a rovesciare il regime di Fulgencio Batista, instaurando sull’isola una dittatura di stampo comunista e filo-sovietica. A capo della banca centrale venne nominato il rivoluzionario Ernesto “Che” Guevara, che emette il peso cubano o CUP, firmandone le prime banconote. Dopo il collasso dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est, L’Avana rimane senza sostegni finanziari da parte di Mosca e sin dal 1993 consente ai cubani di usare il dollaro per gli scambi anche interni. Poiché la valuta americana stava prendendo troppo piede, nel 1994 viene istituito il CUC o peso convertibile contro il dollaro a un tasso di 1:1. Il CUC, in vigore fino al 31 dicembre scorso e che resterà scambiabile presso la banca centrale fino al 30 giugno prossimo, non era direttamente accessibile a tutta la popolazione, bensì al solo settore privato, specie quello legato all’economia turistico-alberghiera e alle esportazioni.Un CUC poteva essere acquistato dalla popolazione contro 24 CUP e venduto per 25. Allo stesso tempo, era stata fissata una parità di 1:1 per le imprese statali. Di fatto, questo sistema di cambi multipli è finito per creare confusione e distorsioni nell’economia cubana. In effetti, coloro che hanno potuto accedere ai CUC per via del loro lavoro hanno beneficiato di redditi ben più alti di quelli medi nazionali. Un lavoratore nel turismo, ad esempio, è riuscito così a guadagnare anche 7 volte in più di un suo collega del settore statale, come un medico. Per non parlare del fatto che il CUC risultasse eccessivamente forte contro il dollaro, colpendo le esportazioni, già di loro danneggiate dall’embargo USA.

La paura dei cubani

Le vittime di questa unificazione monetaria sono già coloro che subiranno gli effetti della maxi-svalutazione del cambio. Per questo, il governo ha contestualmente provveduto a quintuplicare stipendi pubblici, pensioni e sussidi. Alle imprese statali, che non beneficeranno più dell’accesso ai dollari a prezzi di favore, verranno erogati aiuti per 18,3 miliardi di CUP o circa 625 milioni di euro.

Il timore è che questo passaggio inevitabilmente provochi l’esplosione dei prezzi al consumo, cioè inflazione incontrollata. Un fenomeno che il Venezuela di Nicolas Maduro, stretto alleato di Cuba, conosce da anni per via proprio della svalutazione del cambio, prima avvenuta sul mercato nero e successivamente adottata dallo stesso regime “chavista”, arresosi alla realtà. Ma la riforma risulta necessaria per eliminare le evidenti distorsioni interne e sostenere i tassi di crescita dell’economia cubana, da anni in stagnazione. La popolazione non sta accogliendo serenamente la misura storica, temendo di perdere potere di acquisto. Il problema è che il cambio di 1 dollaro contro 24 CUP risulterebbe persino troppo forte. Sul mercato nero, si registrerebbe un tasso di 1:50. In altre parole, la maxi-svalutazione ufficiale di questi giorni potrebbe rivelarsi insufficiente per adeguare il cambio ai fondamentali macro dell’isola.La fame di dollari contribuisce alla crisi valutaria. Nel 2020, L’Avana ha posto fine al divieto di utilizzare la divisa americana, introdotto nel 2004, tra l’altro eliminando la tassa del 10% sulle transazioni in dollari e aprendo negozi che accettano proprio dollari come mezzo di pagamento. La speranza del regime si chiama Joe Biden. Se il presidente eletto, una volta insediatosi alla Casa Bianca tra poche settimane, decidesse di riallacciare i fili del dialogo, recisi dall’amministrazione Trump, seguendo la linea di Barack Obama, molte misure restrittive ai danni dell’economia cubana verrebbero meno. Il turismo tornerebbe a respirare, oltre che per l’allentamento delle misure anti-Covid, così come verrebbe nuovamente consentito alla popolazione di ricevere le rimesse degli emigranti negli USA, determinanti per la sopravvivenza di un’alta percentuale delle famiglie.Ma una svolta immediata appare esclusa. I cubani avvertiranno gli effetti della riforma monetaria, che per quanto necessaria sarà ugualmente dolorosa.

A Cuba chiudono gli uffici di Western Union, la popolazione è nel panico

Il 2021, l’anno spaziale: dai primi turisti in orbita allo sbarco cinese su Marte

L’Agenzia spaziale italiana sarà protagonista di una spedizione che tenterà di colpire un asteroide per cercare di deviarlo. Sul Pianeta rosso il 9 febbraio entrerà in orbita una sonda degli Emirati, il 18 atterrerà il rover americano Perseverance

Il 2021, l'anno spaziale: dai primi turisti in orbita allo sbarco cinese su Marte Il rendering dell’arrivo del rover Perseverance su Marte (Nasa/Jpl-Caltech) shadow

Sarà un’annata di avventure spaziali da record il 2021, con la Nasa e i miliardari alla guida delle nuove imprese inseguiti dai cinesi in un confronto sempre più acceso. Tutto inizia all’insegna di Marte quando in febbraio (il 9) una sonda degli Emirati Arabi entrerà in orbita attorno al pianeta: l’hanno battezzata «Hope», speranza, per trasmettere fiducia ai giovani nel guardare al futuro del Paese. In arrivo c’è anche la sonda cinese «Tianwen-1» che in aprile farà scendere un rover nella Utopia Planitia. Così Pechino, dopo aver dimostrato di padroneggiare gli sbarchi lunari, entrerà per la prima volta nell’orizzonte marziano.

Perseverance

Il 18 febbraio, poi, sarà la volta di «Perseverance» della Nasa. Sbarcherà nel Jezero Crater, avviando la terza fase della ricerca della vita dopo Spirit, Opportunity e Curiosity. Il nuovo sofisticato robot cercherà tracce fossilizzate di microorganismi in un luogo alla confluenza di antichi fiumi che sfociavano in un lago, giudicato ideale per le ardue scoperte. Nelle indagini aiuterà il primo drone-elicottero Ingenuity.

Luna

Altro obiettivo privilegiato dell’annata sarà di nuovo la Luna. Due sonde americane private con strumenti finanziati dalla Nasa, valuteranno le risorse del suolo utili al futuro insediamento oppure da portare sulla Terra (come l’elio-3 per i reattori a fusione). «Peregrine» di Astrobotic partirà con il nuovo vettore Vulcan Centaur arrivando nella pianura basaltica Lacus Mortis verso il Polo Nord e in autunno sarà seguita da «Nova-C» di Intuitive Machines che si adagerà nella contorta Vallis Schröteri.

I turisti

Dopo tante promesse sarà finalmente l’anno dell’avvio dei voli turistici alle soglie dello Spazio, a cento chilometri d’altezza, per provare l’ebrezza di alcuni minuti di assenza di peso. Il miliardario britannico Richard Branson, a 70 anni, dopo aver tentato in passato senza fortuna il giro del mondo in pallone, sarà a bordo del secondo volo a pagamento del suo aeroplano a razzo «SpaceShipTwo» decollando dal New Mexico negli Usa. Intanto sono in attesa gli oltre seicento passeggeri che hanno già versato un anticipo del biglietto da 250 mila dollari. Con gli stessi propositi Jeff Bezos, fondatore di Amazon, sta preparando operazioni analoghe. La sua capsula New Shepard con sei passeggeri volerà dallo spazioporto in Texas e dopo il balzo ritornerà con brivido appesa a un paracadute.

Gli asteroidi

Altre missioni automatiche della Nasa inseguiranno invece l’ambita meta dei pianetini. «Lucy» andrà ad esplorare i sette asteroidi troiani nell’orbita di Giove e «Dart» raggiungerà la coppia Didymos e Dimorphos. Su quest’ultimo sparerà un proiettile nel primo tentativo di deviazione della traiettoria di un piccolo corpo rischioso per la Terra. Prima dell’incontro si staccherà il nanosatellite LiciaCube dell’Asi italiana. Costruito da Argotec con la collaborazione del Politecnico di Milano e dell’Università di Bologna, verificherà gli effetti dell’esplosione.ArtemiInfine, se entro dicembre il super-razzo della Nasa SLS, il più grande mai concepito, riuscirà ad affrontare la prima missione Artemis-1 collaudando la nuova astronave Orion in un volo circumlunare, dall’ultimo stadio del razzo si libererà un grappolo di undici nanosatelliti con fini diversi. L’unico scelto dalla Nasa in Europa è l’italiano ArgoMoon sempre di Asi-Argotech che trasmetterà le immagini dall’orbita lunare. In parallelo nanosatelliti americani e giapponesi cercheranno il ghiaccio al Polo Sud. E sono solo le tappe più importanti di un 2021 che segna un rilancio in grande stile dell’esplorazione tra scienza ed economia.

Sparito’ Jack Ma, mistero sul fondatore di Alibaba

Perse le tracce da 2 mesi dopo la stretta cinese sul suo impero

Jack Ma, fondatore di Alibaba © EPA

Jack Ma è sparito dalla scena da almeno due mesi, dal naufragio di inizio novembre della mega Ipo di Ant Group, la fintech della sua Alibaba, alimentando il mistero sulla sua sorte.A 48 ore dalla doppia quotazione a Hong Kong e Shanghai, un’esplicita segnalazione del presidente Xi Jinping, secondo una ricostruzione del Wall Street Journal, portò al blocco della più grande operazione della storia del suo genere, da 37 miliardi di dollari. Ai vertici del Partito comunista non erano andate giù le aspre critiche che Ma aveva pronunciato ad un evento del 24 ottobre a Shanghai, in cui aveva affermato che “la Cina non ha un rischio finanziario sistemico semplicemente perché non ha un sistema, e questo è il rischio”.Vantandosi del livello record dell’Ipo di Ant prezzata addirittura lontano da New York, aveva rincarato la dose accusando le banche cinesi di operare “con mentalità da banco dei pegni”, quando invece “la buona innovazione non ha paura delle regole, ma di regole antiquate”. Dopo numerose indiscrezioni, tra cui quella riportata da Bloomberg secondo cui le autorità di Pechino gli avrebbero raccomandato di non lasciare il Paese, il Financial Times ha riferito che Ma – il cui account su Twitter non è aggiornato dal 10 ottobre – era stato sostituito da un dirigente di Alibaba per la registrazione della finale di ‘Africa’s Business Heroes’, concorso televisivo per imprenditori in erba del continente africano con in palio un assegno da 1,5 milioni di dollari.Del resto, fanno notare all’ANSA fonti finanziarie, con Alibaba al centro di indagini antitrust per presunte pratiche monopolistiche (circolano le voci anche di un possibile spezzatino per il gruppo) e Ant Group oggetto di ‘correzioni’ del business da parte delle autorità di regolamentazione, a partire dalla Banca centrale cinese (Pboc), “uscire dalla luce dei riflettori è la mossa più prudente che si possa fare”.Il Pcc ha sempre visto con sospetto l’influenza fuori misura dei grandi capitani d’impresa cinesi, a maggior ragione quella costruita da un miliardario carismatico noto sia sul fronte domestico sia in Occidente come un ‘visionario’ della tecnologia. 

EMBARGO SU OLIO DI PALMA PRODOTTO IN MALESYA :TRUMP 3-01-2021

Circa l’85% della produzione mondiale di olio di palma, ampiamente utilizzato nell’industria alimentare e della cosmetica, proviene solamente da due stati: Indonesia e Malaysia. La prima ha prodotto nel 2019 42,5 milioni di tonnellate, il 58% del totale nel mondo; la seconda 19 milioni di tonnellate, il 26%.L’amministrazione Trump ha concluso il 2020 con l’imposizione dell’embargo ai danni di Sime Darby, principale società produttrice di olio di palma della Malaysia. Il Customs and Border Protection (CBP) ha riscontrato l’impiego diffuso e ripetuto di lavoro forzato nella produzione della materia prima e, in virtù di una legge risalente agli anni Trenta del secolo scorso, ha disposto il divieto di importare olio di palma da questa società.

Olio di palma prodotto con il lavoro forzato: gli USA bannano la maggiore società al mondo

Stop alle importazioni da Sime Darby, terza produttrice malaysiana sanzionata dagli USA. Ma il 2020 è stato un anno d’oro per i prezzi.

03 Gennaio 2021 alle ore 09:10

Embargo USA contro Sime Darby

L’amministrazione Trump ha concluso il 2020 con l’imposizione dell’embargo ai danni di Sime Darby, principale società produttrice di olio di palma della Malaysia. Il Customs and Border Protection (CBP) ha riscontrato l’impiego diffuso e ripetuto di lavoro forzato nella produzione della materia prima e, in virtù di una legge risalente agli anni Trenta del secolo scorso, ha disposto il divieto di importare olio di palma da questa società. Eventuali carichi potrebbero essere sequestrati sul territorio americano. Sime Darby è la terza società della Malaysia dopo FGV Holdings e Top Glove ad essere finita nel mirino delle autorità americane per lo sfruttamento della manodopera.

L’embargo rischia di avere conseguenze pesanti per quella che risulta essere la prima produttrice al mondo di olio di palma con una percentuale del 20% dell’offerta globale. Le accuse contrastano nitidamente con il messaggio rassicurante pubblicato da Sime Darby sul suo sito web: “Noi crediamo di avere la responsabilità di rispettare, sostenere e perseguire i diritti umani fondamentali, secondo quanto espresso dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e i Principi Guida delle Nazioni Unite sul Business dei Diritti Umani”.

Circa l’85% della produzione mondiale di olio di palma, ampiamente utilizzato nell’industria alimentare e della cosmetica, proviene solamente da due stati: Indonesia e Malaysia. La prima ha prodotto nel 2019 42,5 milioni di tonnellate, il 58% del totale nel mondo; la seconda 19 milioni di tonnellate, il 26%. Sappiamo che Sime impiega 24.800 lavoratori immigrati, il 63% dell’intera forza lavoro. Nel complesso, la Malaysia occupa 337 mila immigrati nelle piantagioni di olio di palma, principalmente provenienti da paesi come Indonesia, India e Bangladesh.

Olio di palma, Bruxelles dà ragione a Nutella: sentenza di primo grado ribaltata

Prezzi in forte rialzo per l’olio di palma

Le esportazioni della Malaysia verso gli USA nell’anno fiscale che si è concluso il 30 settembre scorso sono state pari a 410 milioni di dollari, il 31% dei consumi totali americani di olio di palma. Di questi, però, solo 5 milioni sarebbero state le vendite di Sime Darby. Nel complesso, il 2020 è stato un anno complicato per questo mercato, che tra condizioni meteo avverse e distanziamento sociale da tenere anche durante i raccolti per l’emergenza Covid, ha visto arretrare la produzione globale di 4,5 milioni di tonnellate. Questo ha contribuito decisamente all’aumento dei prezzi: in euro sono saliti del 13% nei primi 11 mesi dell’anno a 775 euro per tonnellate. Nella valuta della Malaysia, si è registrato un +24% nel corso dei 12 mesi a circa 3.880 ringgit per tonnellata.

I prezzi potrebbero continuare a salire fino alle prime settimane del nuovo anno, tra l’altro anche per effetto dell’aumento dei dazi sulle esportazioni imposto dalle autorità indonesiane. Tuttavia, proprio la crescita vertiginosa delle quotazioni, ai massimi da tre anni in euro, fungerebbe da premessa per un tracollo nei mesi successivi, forse già a partire dalla tarda primavera. I consumi rischiano, infatti, di contrarsi per la ricerca di prodotti alternativi da parte delle aziende alimentari e cosmetiche. Peraltro, da anni l’olio di palma è al centro delle attenzioni dei governi e dell’opinione pubblica per le modalità con cui viene coltivato, ovvero per l’impatto ambientale derivante dalla deforestazione selvaggia e per lo scarso rispetto dei diritti umani tra i lavoratori impiegati, nonché per i presunti effetti nocivi che avrebbe sulla salute. Tuttavia, questi ultimi ad oggi non risultano realmente dimostrati. L’embargo americano con ogni probabilità accenderà ulteriormente i fari su questa industria.

TEMPI DIFFICILI, TEMPI PERICOLOSI!

Tempi difficili di Charles Dickens: in attesa di Grandi Speranze

Il nostro Dickens oggi ci direbbe…

“Ora, quello che voglio sono Fatti. Insegnati a questi ragazze e queste ragazze Fatti e niente altro. Solo di Fatti abbiamo bisogno nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo coi Fatti si può plasmare la mente degli animali che ragionano: il resto non servirà mai loro assolutamente nulla. Questo è il principio su cui ho allevato i miei figli, e questo è il principio su cui ho allevato questi fanciulli. Tenetevi ai Fatti, signore!

In una bellissima frase che ben si addice ai tempi attuali nella finanza, Dickens nel suo libro scrisse…

“…gli indefinibili moti dell’animo umano, che continueranno a eludere tutte le astuzie dell’algebra, anche le più sottili, fino al giorno in cui le trombe del giudizio non abbatteranno l’algebra stessa.”

Charles Mackay, amico di Dickens e pioniere degli studi sulle crisi finanziarie, sottolinea nel suo Extraordinary Popular Delusions and the Madness of Crowds (pubblicato
per la prima volta nel 1841) come la mania speculativa sia la manifestazione della tendenza momentanea della società a essere vittima di illusioni e follie collettive:

«È stato giustamente affermato che gli esseri umani pensano come un gregge, si vedrà che diventano matti in gregge e ritrovano l’uso della ragione lentamente e singolarmente».

Che si tratti di Tesla o bitcoin poco importa, secondo l’odierna teoria economica, invece, i mercati sono sempre efficienti, il prezzo delle azioni riflette il loro valore reale, e gli speculatori sono semplici agenti economici razionali intenti ad ottimizzare la propria ricchezza.
Non ci sarebbe posto quindi per pulsioni elementari, istinti collettivi, avidità, paura… Per dimostrare la validità di questa prospettiva si ricorre a modelli econometrici che analizzano le cosiddette «aspettative razionali» e prevedono le trasformazioni delle variabili in gioco secondo schemi predefiniti.

L’impeachment di Trump oggi è il classico cerino acceso dentro una santabarbara, lo stesso cerino che stanno accendendo i vari giganti del web che guarda caso sono criticati non da un blogger qualunque ma da una signora che non ha mai sopportato Trump, perché il confine sottile della libertà decisa da un oscuro signore con una lunga barba da saggio presunto è un avvertimento per ogni democrazia…https://platform.twitter.com/embed/index.html?dnt=false&embedId=twitter-widget-0&frame=false&hideCard=false&hideThread=false&id=1348628087530024963&lang=it&origin=https%3A%2F%2Ficebergfinanza.finanza.com%2F2021%2F01%2F12%2Ftempi-difficili-tempi-pericolosi%2F&theme=light&widgetsVersion=ed20a2b%3A1601588405575&width=550px

Se poi ci aggiungi che le banche di affari americane hanno sospeso i contributi ai politici americani, sia repubblicani che democratici, sino a quando non saranno sicure che tramano contro la democrazia, ti pieghi in due dalle risate e poi all’improvviso diventi serio, tempi difficili, davvero pericolosi.

Da tempo noi denunciamo la finanza, come più pericolosa di mille eserciti, chiedendo scusa a Thomas Jefferson se lo citiamo, frode, manipolazione, inganno, elusione, evasione, commercio di armi, riciclaggio di denaro e soprattutto, “sliding doors” porte scorrevoli, si passa dalla politica alla finanza e viceversa in maniera disinvolta, portandosi dietro enormi conflitti di interesse…https://platform.twitter.com/embed/index.html?dnt=false&embedId=twitter-widget-1&frame=false&hideCard=false&hideThread=false&id=1347939057758855168&lang=it&origin=https%3A%2F%2Ficebergfinanza.finanza.com%2F2021%2F01%2F12%2Ftempi-difficili-tempi-pericolosi%2F&theme=light&widgetsVersion=ed20a2b%3A1601588405575&width=550px

Tempi difficili e pericolosi per l’America, che parla di colpo di Stato quando è una fuoriclasse nell’organizzarli in Paesi altrui, tempi meravigliosi per gli avidi e gli psicopatici che dominano ovunque.

I giganti del WEB, le multinazionali sono altrettanto pericolosi, le regole della democrazia, chi far parlare o meno le decino loro, pure le campagne elettorali, decidono loro i politici più rappresentativi, quelli che meglio si uniformano ai loro pensieri.

Basterebbe osservare come in questi anni hanno fatto trilioni di dollari ovunque senza pagare uno straccio di tassa e poi parlano di evasione, tempi ridicoli.

In Italia poi le cose sono meravigliose, il bomba ha deciso di far cadere il Governo, ma come sempre le bombe alla Renzi si disinnescano in un istante, il prossimo giro forse voteremo per posta anche noi e via mail, giusto perché gli italiani non sbaglino a scegliere il candidato migliore, quello che piace all’establishment europeo, altra spettacolare piovra degli ultimi 20 anni.

Il tutto mentre nessuno o quasi parla dello sterminio delle piccole e medie imprese, dei liberi professionisti, delle aziende famigliari, lo sterminio del punto di forza di questo Paese, fallimenti, chiusure, spesso per colpe loro ma in maniera preponderante per colpa di un tessuto politico ed economico inadeguato.https://platform.twitter.com/embed/index.html?dnt=false&embedId=twitter-widget-2&frame=false&hideCard=false&hideThread=false&id=1348452239451582470&lang=it&origin=https%3A%2F%2Ficebergfinanza.finanza.com%2F2021%2F01%2F12%2Ftempi-difficili-tempi-pericolosi%2F&theme=light&widgetsVersion=ed20a2b%3A1601588405575&width=550px

Nel frattempo il dollaro rintraccia e il dibattito sull’inflazione si fa sempre più selvaggio con i banchieri centrali che inneggiano all’inflazione e progettano il colpo di Stato sull’economia, inflazione selvaggia per tutti.

Che ci riescano è un altro problema, ci provano da 12 anni, ma hanno un piccolo problema, non studiano la realtà, il cervello dimora in una biblioteca.

Philipp Heimberger on Twitter: "It is breathtaking how wrong ECB forecasts for core inflation have been over the past decade - systematically predicting an upward recovery despite persistent deflationary pressures. Source: https://t.co/OKDk98McO3…

Per carità si può sempre sbagliare come vedete dai grafici sotto e sopra, ma dopo che sbagli oltre 25 volte in soli otto anni, forse qualche domanda sarebbe meglio porsela.

Inflation and the Bank of England's Catch 22 - Positive Money
The Grumpy Economist: Futures forecasts

La scorsa settimana Barkin della Fed di Richmond ha detto che è felice di vedere salire le aspettative di inflazione, è quello che stanno cercando di sostenere, anche Bullard come pure Daly, peccato che il presidente Harker, della Fed di Philadelpia suggerisce che i dati sulle vaccinazioni sono incredibilmente deludenti e che guarda ad un lungo periodo con i tassi che resteranno sostanzialmente a zero.

Tempi difficili, tempi pericolosi, non resta che spegnere tutto e attendere gli eventi.

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