INPS : Ma i Conti Torneranno ?

Eccoci a un nuovo appuntamento , questa volta dedicato all’Istituto Nazionale Previdenza Sociale :

INPS : Ma i Conti Torneranno ?  

Questo “Fantomatico” Virus Finanziario , che come immaginavamo è indiscutibilmente il più importante Market Mover del 2020 ( vedi quanto detto nelle analisi Mercati : Chi c’è dietro questa Strategia ?  MARKETS : LET’S TWIST AGAIN ? e Shine on you Crazy Financial Market) sta producendo effetti ,che a dire poco sono devastanti ,per i conti pubblici ma anche per i conti dell’INPS.


Partiamo dalle dichiarazioni del Presidente INPS di Marzo e Aprile 2020 in piena “bufera Pandemica” che di certo non sono state rassicuranti in merito alla situazione dell’ Istituto :


25/03/2020

“Pensioni? Abbiamo soldi fino a maggio”. Come stanno davvero le cose

Una frase del presidente dell’Inps in tv gela milioni di pensionati e fa infuriare i sindacati. Poi la spiegazione e l’intervento di Tridico


 

23/04/2020

“Così a luglio non paghiamo le pensioni”. Ma l’allarme rosso non placa M5s e Pd


Aggiungiamo a queste dichiarazioni il  recente Record Storico della Cassa Integrazione:


10/06/2020

Cassa integrazione, record storico

Già superati i 3 milioni di ore in soli quattro mesi. In tutto il 2009, anno post-crisi, fu un milione e mezzo


 
E  gli altri trattamenti erogati dall’INPS  come :
 

REM – Reddito di Emergenza

REDDITO DI CITTADINANZA

PENSIONE DI CITTADINANZA

PENSIONE SOCIALE

PENSIONI DI INVALIDITA’

NASPI DISOCCUPAZIONE


 
Tutto questo , mentre il noto e FANTOMATICO VIRUS FINANZIARIO ,  impedisce una regolare attività a molti settori , costretti ad attuare spesso  forti ridimensionamenti delle loro attività per rispettare i Protocolli del Governo   che hanno già avuto e avranno ancora,  forti ripercussioni sul PIL , sull’occupazione e inevitabilmente sulle Tasse  e Contributi INPS versati.
 

10/06/2020

Lavoro, Istat: 101mila occupati in meno nel primo trimestre Effetto Covid 19 sul lavoro: gli occupati calano di 274mila unità (-1,2%) rispetto a marzo 2020 e il tasso di occupazione scende al 57,9% (-0,7 punti in un mese). 260mila inattivi in più a causa del virus


Se a questa situazione, diciamo “straordinaria” per certi versi e  “ordinaria” per altri , aggiungiamo  quanto si ipotizzava  in questo articolo del quotidiano LA STAMPA  del

INPS : Ma i Conti Torneranno ?


 
GOD SAVE ITALY !
 
AD MAIORA !
 
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ARTICOLO DEL QUOTIDIANO LA STAMPA

 
 

L’anno zero delle pensioni è il 2030, quando gli assegni saranno a rischio

La Stampa ha analizzato le proiezioni di diversi esperti, incrociando previsioni demografiche e studi sulla spesa previdenziale. In un’Italia sempre più vecchia un milione di neo pensionati metteranno in pericolo i conti Inps

Nel 2030 il sistema pensionistico italiano potrebbe implodere. È uno scenario realistico, secondo le proiezioni che La Stampa ha analizzato assieme a diversi esperti, incrociando previsioni demografiche e studi sulla spesa previdenziale. Il 2030 non è una data a caso: è l’anno in cui andranno in pensione i figli del baby boom, cioè i nati nel meraviglioso biennio 1964-65, quando l’Italia nel pieno miracolo economico partorì oltre un milione di bambini. Quei bambini, al compimento dei 66-67 anni, busseranno alla porta dell’Inps. Un picco di richieste che si tradurrà in uno choc, soprattutto se la crescita economica rimarrà modesta. Il periodo più critico arriva fino al 2035. Poi, se le casse dell’Inps reggeranno, anno dopo anno la situazione dovrebbe migliorare per stabilizzarsi tra il 2048 e il 2060.

IL GIALLO DEI NUMERI

Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, fa professione di ottimismo e snocciola diagrammi che non vedono schizzare all’insù la spesa pensionistica in rapporto al Pil. Una risalita ci sarà, dopo anni di curva verso il basso, esattamente attorno al 2030. All’Inps, infatti, ammettono che «qualche problema potrebbe esserci fino al 2032, quando il sistema sarà tutto contributivo». Una fotografia che alimenta l’ansia se si pensa che è tra pochi anni e che stiamo ragionando in un sistema che è stato già stravolto dalla tanto detestata legge Fornero del 2011. Adesso che di pensioni si è tornato a parlare quotidianamente, con varie ipotesi di modifica per alleggerire la Fornero, c’è chi alza gli scudi e anzi dice che quella legge potrebbe non bastare.

Raffaele Marmo, collaboratore di Maurizio Sacconi e della stessa Fornero al ministero del Welfare, poi inventore della start up Miowelfare.it, racconta l’urgenza in cui maturò quella riforma e avverte: «Con la disoccupazione che abbiamo e la mancata crescita economica, in un’Italia sempre più anziana, l’Inps rischia di saltare entro 15 anni». Marmo è poco convinto anche delle previsioni di Boeri che sono alla base della Busta arancione, il prospetto che consente ai lavoratori di calcolare la pensione futura: «L’Inps presuppone il canonico 1,5% di crescita del Pil, ma chi l’ha detto che sarà così?». Nel 2015 l’Italia è rimasta inchiodata allo 0,8%, le recenti stime sul 2016 sono all’1,2% e il 2030, in un certo senso, è dopodomani. Servirebbe un nuovo miracolo.

IL PROBLEMA DEMOGRAFICO

Gian Carlo Blangiardo è ordinario di Demografia all’Università Bicocca di Milano. Ha appena rielaborato i dati Istat in uno scenario che svela un processo di invecchiamento inarrestabile con tutte le conseguenze che questo comporta sulla spesa previdenziale e le inevitabili ricadute sulle nuove generazioni. «Il rapporto tra la popolazione attiva (20-65 anni) e i pensionati si raddoppierà nel giro di una generazione. La percentuale di pensionati rispetto ai lavoratori passerà dal 37% di oggi al 65% nel 2040 (da 1 su 3 a 2 su 3)».Questo significa: il doppio del carico previdenziale. A parità di condizioni, in pratica, servirebbe raddoppiare la produttività. I 16 milioni di pensionati di oggi aumenteranno fino a 20 milioni, in meno di 25 anni. «Tra i nuovi pensionati e chi muore, cioè tra chi entra e chi esce dal sistema previdenziale, c’è uno sbilancio che oggi è nell’ordine delle 150 mila unità. Nel 2030 salirà a 300 mila e resterà tale fino a circa il 2038». Poi comincerà a scendere il numero dei nuovi pensionati e ad aumentare quello dei morti. Magicamente, attorno al 2048, i due gruppi si equivarranno, finché, da lì a poco, non avverrà il sorpasso. La spiegazione è semplice. Dopo gli anni del boom demografico del 1964-65, l’Italia ha fatto sempre meno figli e nel 2015 ha toccato il nuovo minimo storico dall’Unità: 488 mila nati. Sono i pensionati del futuro, la metà di quelli che ci andranno tra 14 anni.

Il problema della sostenibilità delle pensioni si potrebbe risolvere demograficamente: «Sì – spiega Blangiardo – sempre che prima del 2050 l’Inps non scoppi». Una catastrofe nella quale l’Italia sarebbe già sprofondata se, come dice la Corte dei Conti, non ci fossero state le riforme dal 2007 al 2011: la spesa per le pensioni sarebbe stata superiore di ben 2 punti di Pil, cioè 30 miliardi di euro l’anno per altri 15 anni.

Le statistiche però devono anche fare i conti con la vita quotidiana e le sempre minori certezze di chi in pensione andrà nel 2030, come Sergio Bucciarelli, baby boomer, oggi 51enne, impiegato a Fabriano in una ditta di cappe aspiranti. «Lavoro ininterrottamente dal marzo 1989 e guadagno 2 mila euro al mese – racconta -. La mia pensione sarà il 60% dello stipendio quindi da vecchio stringerò la cinghia. Non potrò aiutare i miei figli e se avrò problemi di salute non potrò curarmi al meglio». Già oggi, secondo l’Inps il 63% degli assegni è fermo sotto i 750 euro al mese.

Sui numeri complessivi del sistema, che è ancora misto (retributivo e contributivo), e sulla sua tenuta ci sono letture divergenti. Chi, come gli artigiani di Mestre (Cgia) dice che nonostante gli sforzi la spesa pensionistica è sfuggita alla spending review ed è salita solo nell’ultimo anno di 3,1 miliardi. E chi propone invece di allentare le rigidità della Fornero attraverso varie ricette. Per esempio, la flessibilità in uscita: è il cuore di due proposte, una di Boeri, l’altra del presidente della commissione Lavoro alla Camera, Cesare Damiano, Pd, ex ministro autore della riforma del 2007. La prima prevede fino al 9% di decurtazione e un’uscita dal lavoro dai 63 anni e 7 mesi in poi con disincentivi. Applicandosi solo alla quota retributiva, se quest’ultima scende la penalizzazione è minore (4,5%). Per le coperture, Boeri ha pensato a un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte. Damiano, invece, propone di uscire anche un anno prima (62 anni e 7 mesi) con un taglio del 2% l’anno fino a un massimo dell’8%.

Entrambe le soluzioni si basano sul presupposto che i costi a breve saranno compensati dai risparmi futuri. Ma nessuna delle due convince Giuliano Cazzola, economista, tra i massimi esperti di previdenza, strenuo difensore della Fornero: «Ci vorrebbero 50 anni per ammortizzare queste operazioni. Non peggiorerei le cose e comincerei a pensare ai giovani e agli occupati, che sono la classe contributiva, purtroppo ancora debole, del futuro».

Il conflitto tra generazioni è già in corso. Se n’è accorto Ivan Pedretti, segretario generale dei 3 milioni di pensionati della Spi-Cgil che di fronte all’inevitabilità della Fornero è convinto che la soluzione non sia la sua totale abrogazione, ma correttivi precisi. Come sui lavori usuranti e ancor di più sui requisiti anagrafici agganciati alla speranza di vita: «Se il contributivo nasce con la logica del “prendo quanto verso”, non spetta allo Stato decidere quando mandare in pensione il lavoratore. Permettete che lo decida lui?». In effetti è un paradosso. Però Pedretti fa anche mea culpa: «Anche noi abbiamo permesso una transizione troppo lungo dal retributivo al contributivo». Il tabù Fornero deve essere affrontato senza ideologismi. Anche secondo Cazzola è necessaria una rivalutazione dei requisiti anagrafici legati all’aspettativa di vita. «Altrimenti, si arriverà a 45 anni di contributi». L’Italia è già in cima alla classifica Ue delle soglie stabilite per la pensione, però è di ben 5 anni sotto la media europea per la permanenza sul mercato del lavoro (10 in meno rispetto all’Olanda). Un divario che per le donne è inequivocabile: la durata media è sotto i 25,5 anni.

Il Paese sconta una storia nota, di privilegi e pensioni usate come arma politica, che ancora pesa sui conti e trasferisce sui più giovani un carico insopportabile. «Sì, ma bisogna stare attenti – continua Cazzola – siamo l’unico Paese che usa il sistema pensionistico per fare politiche occupazionali». Il riferimento è a uno studio di Boeri presentato alla Bocconi a gennaio che lega la riduzione delle assunzioni al forte aumento dell’età pensionabile imposto dalla Fornero. «Se la quota di posti bloccati è al 5% – sostiene Boeri – il tasso di assunzioni scende al 6%». E così via. In una situazione di crisi economica, la convinzione del presidente dell’Inps è che il turnover potrà far crescere occupazione e produttività.

FISCO E IMMIGRATI

Una delle proposte alternative che si sta facendo largo ribalta l’impostazione sulle pensioni. Da un sistema previdenziale a uno più assistenziale finanziato in parte dalla fiscalità generale. In commissione Lavoro alla Camera giace una proposta di legge a firma Marialuisa Gnecchi (Pd) che prevede una pensione di base di 442 euro, a cui si aggiunge quella maturata dal lavoratore con il contributivo. Sarebbe un salto culturale verso un sistema che tiene conto del mercato del lavoro di oggi e di domani. È uno sforzo che chiedono anche i fiscalisti italiani. Tra loro, Raffaello Lupi, docente di diritto Tributario: «Bisogna inventarsi un nuovo welfare. La gestione della terza età si deve trasformare in una delle tante funzioni pubbliche, come sanità e istruzione».

Gli over 95 passeranno dai 150 mila di oggi a quasi 1,3 milioni del 2063. Alla flessibilità in uscita vanno affiancate formule di pensionamento attivo. Il demografo Blangiardo ha calcolato che se fossero valorizzate le persone tra i 65 e i 75 anni, con un attività light capace di essere monetizzata in 5 mila euro l’anno di media, avremmo tra il 2016 e il 2020 33 miliardi di euro in più ogni anno, tra il 2021 e il 2040, 40 miliardi. C’è chi guarda con speranza anche a chi arriva da fuori. È il fattore immigrazione che spacca l’opinione pubblica e anche gli studiosi. È un’ancora di salvezza o un’ulteriore zavorra? Blangiardo lo chiama «invecchiamento importato» convinto che i giovani immigrati diano solo una boccata di ossigeno ai conti dell’Inps con i loro contributi, ma che non siano una soluzione definitiva al calo della popolazione attiva, «perché anche loro invecchieranno e riceveranno in cambio la pensione».

Boeri invece sostiene che il loro aiuto sia determinante. In futuro, quando varrà solo il sistema contributivo, il riequilibrio coinvolgerà anche gli stranieri che prenderanno quanto versato. Intanto, l’Inps calcola che il 21% degli immigrati già in pensione secondo le regole italiane, e che in gran parte tornato nei Paesi d’origine, non ha ricevuto gli assegni previdenziali. Un tesoretto di contributi lasciati all’Italia di 16 miliardi di euro. In vista del 2030, non si butta via nulla.

logocard

NEWS ARRIVATE DOPO NOSTRO ARTICOLO

Tridico (Inps): un salario minimo oggi per sostenere le pensioni di domani

Sempre più necessario introdurre un salario minimo per arginare l’allargamento della povertà anche fra chi lavora. Le pensioni di garanzia possono attendere.

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Il 15% dei lavoratori è povero in Italia. Lo saranno anche da pensionati. Il presidente dell’Inps Pasquale Tridico torna a parlare della necessità di introdurre il salario minimo nel nostro Paese, uno dei pochi a non averlo ancora adottato.

Da esso dipende anche la tenuta del sistema pensionistico, minacciato alla base dall’assenza di un adeguato gettito contributivo. Ma anche dal basso tasso di natalità che costituisce un problema non certo risolvibile con una riforma pensioni.

Troppi lavoratori irregolari

A preoccupare maggiormente – secondo Tridico – è il basso livello delle retribuzioni, rispetto alla media Ue. Buste paga troppo basse mandano in sofferenza i conti dell’Inps. Bassi livelli salariali non possono sostenere a lungo la spesa per le pensioni non commisurata coi contributi versati.

In Italia ci sono 23 milioni di lavoratori che sostengono 16 milioni di pensionati su una popolazione di 60 milioni. Numeri che la dicono tutta sulla precarietà del sistema pensionistico italiano e sulla tenuta dei conti Inps nel lungo periodo.

“Troppo poco per avere una certezza di lunghissimo periodo che le cose possano andare bene. 3,5 milioni di irregolari, un tasso di inattività molto alto concentrato al Sud e tra le donne rappresentano delle mine”.

La pensione di garanzia

Quello che serve in Italia non è tanto una pensione di garanzia, ma di un salario minimo vitale. Retribuzioni più alte implicano pensioni più alte perché si versano più contributi e per i giovani sarà di vitale importanza.

Un punto che trova pienamente d’accordo anche il ministro al Lavoro Andrea Orlando. Nell’ultimo incontro coi sindacati ha infatti rilanciato sulla necessità di introdurre una soglia minima di garanzia di retribuzione.

Nel 2022 ci sono ancora milioni di lavoratori in Italia che prestano la propria attività per meno di 9 euro all’ora quando la Germania sta già pensando di alzarlo a 12 euro.

Non solo, il 15% dei lavoratori vive in stato di povertà e quasi la metà delle donne si trova in una situazione di part time involontario.

 

La pensione di garanzia, invece, è riconducibile ancora una volta ad aiuti di Stato. Si andrebbe ancora una volta a far leva sull’assistenza anziché sulla previdenza con ricadute sulla fiscalità generale e aumento delle tasse.

Riforma pensioni, ecco perché il modello tedesco può darci una mano

Il dibattito sulla riforma delle pensioni è rimasto sospeso con la guerra. Il modello tedesco sarebbe un buon compromesso tra le parti.

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Riforma delle pensioni

 

 
 

Silenzio quasi tombale sulla riforma delle pensioni. Quando mancano nove mesi alla fine di quota 102 e al conseguente ritorno alla legge Fornero in assenza di soluzioni alternative, dal panorama politico si coglie un senso di disinteresse per la materia. La guerra ucraina ha scombinato i piani dei partiti al governo, monopolizzandone l’attenzione dopo due anni passati a parlare quasi esclusivamente di pandemia.

Il sistema previdenziale italiano è molto frammentato, complicato da riassumere in poche battute. I lavoratori possono andare in pensione a 67 anni, ma possono anticipare il pensionamento a seconda della categoria di appartenenza e dei requisiti posseduti. Con quota 102, fino al 31 dicembre 2022 potranno andare in quiescenza con 64 anni di età e almeno 38 di contributi. Questa soluzione dall’anno non prossimo non sarà più disponibile. La principale forma di pensionamento anticipato resterebbe quella dei 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, indipendentemente dall’età anagrafica.

Riforma delle pensioni sul modello tedesco

Quando si discute di riforma delle pensioni, sarebbe opportuno guardare cosa accade fuori dall’Italia e prendere i modelli migliori, chiaramente adattandoli alla nostra realtà socio-economica. Il modello tedesco appare molto interessante per la sua semplicità e per la sostenibilità garantita ai conti dello stato. In Germania si va in pensione da quest’anno a 65 anni e 11 mesi. Entro il 2031, i lavoratori tedeschi percepiranno il primo assegno gradualmente a 67 anni.

Tuttavia, anche Berlino offre un minimo di flessibilità. E’ possibile andare in pensione anche a 63 anni, purché in possesso di ben 45 anni di contributi. Il ragionamento è limpido: se hai lavorato senza interruzione dal raggiungimento alla maggiore età, puoi goderti la pensione già a 63 anni.

Un altro mondo. In Italia, 45 anni di contributi sono in possesso di una minoranza di lavoratori. Pensate ai medici, che hanno la possibilità di restare in servizio fino ai 70 anni. Non che lavoriamo meno dei tedeschi, semplicemente non sempre in regola. E sempre più spesso dilagano contratti di lavoro atipici, che non garantiscono continuità nella copertura previdenziale.

In realtà, i tedeschi possono andare in pensione a 63 anni anche senza possedere 45 anni di contributi. In quel caso, l’assegno sarà gravato da una penalizzazione dello 0,3% per ogni mese di anticipo. Ad esempio, quest’anno la decurtazione massima arriva al 10,5%. Infatti, anticipando il pensionamento a 63 anni, si percepirà l’assegno con 35 mesi di anticipo sui 65 anni e 11 mesi dell’età ufficiale. Moltiplicandoli per 0,3%, fa proprio 10,5%.

In pensione prima con assegno più basso

Come introdurre il modello tedesco alla riforma delle pensioni in Italia? Fissare 45 anni di età sarebbe una soglia eccessiva per la stragrande maggioranza dei lavoratori. La si potrebbe abbassare a 40-41 anni, meno del requisito previsto per la pensione anticipata, accoppiandola con l’età anagrafica minima dei 63-64 anni. Rispetto ad oggi, sarebbe garantita maggiore flessibilità, ma ad un costo: assegno decurtato di una percentuale legata ai mesi dell’anticipo. Nel frattempo, il resto lo farebbe l’applicazione dei coefficienti di trasformazione, che già oggi riducono l’importo dell’assegno in base all’età del pensionamento.

Ad esempio, un lavoratore che decidesse di andare in pensione a 63 anni con 41-42 anni di contributi, riceverebbe un assegno più basso del 13,5% per la sola applicazione del coefficiente di trasformazione. Aggiungendo eventualmente la penalizzazione extra sul modello tedesco (non necessariamente della stessa entità), si avrebbe un altro -14,4%. Totale: assegno del 27,9% più basso rispetto a quello percepito a 67 anni. Sarebbe obiettivamente troppo, anche se in Germania, a fronte di una penalizzazione inferiore, gli assegni medi risultano più bassi dell’Italia. A quel punto, il legislatore potrebbe scegliere di penalizzare in misura minore il pensionamento anticipato, abbassando la percentuale di decurtazione mensile, magari al di sopra di una certa età (65 anni?).

Pensioni 2023, l’Inps chiarisce ma il governo tace: cosa succederà?

Nel 2023 andremo ancora in pensione a 67 anni. Per l’Inps non cambiano le uscite ordinarie, ma per quelle anticipate restano troppe incertezze.

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A chiarirlo è l’Inps con la circolare n. 28 del 18 febbraio 2022 che recepisce le disposizioni del decreto del Ministero dell’Economia e del Lavoro in tema di pensioni. Il governo ha infatti certificato che l’aspettativa di vita non è aumenta.

La circolare Inps e l’età della pensione

Cosa significa questo? In pratica l’adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita resta congelato fino al 2024 a causa della pandemia che ha frenato l’aumento della longevità della popolazione.

L’anno prossimo, dunque, si andrà ancora in pensione al compimento di 67 anni. Il requisito anagrafico, legato alle aspettative di vita, non aumenta come sarebbe dovuto accadere per legge. L’alta mortalità causata dal covid ha ridotto le speranze di vita degli italiani di 1,2 anni per una vita media che oggi si attesta intorno agli 82 anni (79,7 per gli uomini e 84,4 per le donne).

La corsa al rialzo dell’età pensionabile riprenderà, quindi, nel 2025 (3 mesi in più) per raggiungere il limite fissato dalla Fornero a 68 anni nel 2031. Da lì in avanti gli incrementi, sempre legati alla speranza di vita, passeranno da 3 mesi a 2 mesi ogni biennio fino al 2054.

Il governo tace o non sa cosa fare?

Fin qui niente di nuovo, se non il fatto che il governo sta lavorando a una riforma pensioni che deve tenere conto anche di questo imprevisto aspetto. Benché le pensioni anticipate siano entrate nel mirino dell’esecutivo, non si sa ancora bene cosa intende fare il premier Draghi.

Finora si è limitato a dire che qualsiasi manovra dovrà essere finanziariamente sostenibile. Ma niente di più. Posto dunque che le regole Fornero per le pensioni ordinarie non saranno toccate, bisogna capire quanto spazio di manovra c’è per rivedere quelle anticipate.

Le intenzioni del governo sono quelle di concedere la pensione anticipata a tutti a partire dai 64 anni ma col ricalcolo contributivo dell’assegno. I sindacati vorrebbero l’uscita a 62 anni e quota 41 per tutti.

Le parti restano ancora distanti, ma è imprescindibile che per la riforma pensioni anticipate bisognerà tenere conto anche del fatto che la speranza di vita non è cambiata. Quindi tagliare di troppo le rendite, come chiede il governo, sarebbe sbagliato.

L’ITALIA E’ IN UNA SITUAZIONE DIFFICILE

RAPPORTO DEBITO – PIL AL 161%

NON ACCADEVA DALLA 1MA GUERRA MONDIALE

CROLLO DEL PIL-PROCAPITE NEL 2020 AI LIVELLI DEL 1995

NON ACCADEVA DALLA 2NDA GUERRA MONDIALE

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Voragine debito destinata ad espandersi di anno in anno e superare muro 3.000 miliardi nel 2024

Debito italiano a livelli record nel 2024 quando arriverà a sfondare il tetto dei 3mila miliardi di euro e questo a causa degli effetti della pandemia Covid. La cifra è quella che emerge da  un’analisi del Centro studi di Unimpresa secondo cui in totale, nel quinquennio che va dal 2020 al 2024 la quota di debito aggiuntiva dovrebbe essere pari a 624 miliardi, con una media di 125 miliardi l’anno, sui quali influiscono anche i 191 miliardi del Recovery Fund e gli altri 30 miliardi garantiti dal governo per assicurare la ripresa, per un totale di 221 miliardi.

Nel 2024 debito sopra 3mila miliardi 

Se nel 2020 il debito è schizzato fino a quota 2.573 miliardi, quest’anno dovrebbe arrivare a 2.786 miliardi e poi salire ancora a 2.893 miliardi nel 2022, a 2.983 miliardi nel 2023 e a 3.033 miliardi nel 2024. Secondo l’analisi, l’annus horribilis sarà il 2021 con un’impennata del debito pari a 213 miliardi, in crescita di oltre l’8% rispetto al 2020.
Quanto alla sostenibilità, l’anno scorso il debito pubblico è salito, con una inevitabile, impennata al 155,8% del pil dal 134,6% del 2019. Il picco sarà raggiunto quest’anno con il 159,8%, poi una progressiva, ancorché lenta, discesa nel triennio successivo: 156,3% nel 2022, 155,0% nel 2023 e 152,7 nel 2024. La sostenibilità del debito, in costante crescita, negli auspici del governo, dovrebbe essere garantita da una robusta ripresa dell’economia: le stime contenute nel Def approvato ad aprile, indicano il pil del 2021 in aumento del 6,2% rispetto al 2020, da 1.651 miliardi a 1.753 miliardi, con un incremento di 102 miliardi nell’arco dell’anno; altri 98 miliardi in più di pil dovrebbero essere accumulati nel corso del 2022, quando il pil salirà fino a 1.851 miliardi in aumento del 5,6%, mentre nel 2023 l’aumento dovrebbe essere del 4,0% (+74 miliardi) fino a quota 1.925 miliardi; nel 2024 il pil dovrebbe crescere del 3,2% (+62 miliardi) arrivando a 1.987 miliardi.

Bankitalia: debito pubblico a 2.678,4 miliardi a fine dicembre 2021

Al 31 dicembre del 2021 il debito delle Amministrazioni pubbliche era pari a 2.678,4 miliardi; a fine 2020 il debito ammontava a 2.573,5 miliardi (155,6 per cento del PIL). Così Bankitalia secondo cui l’aumento del debito nel 2021 (104,9 miliardi) ha riflesso sia il fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche (92,1 miliardi) sia l’incremento delle disponibilità liquide del Tesoro (5 miliardi, a 47,5); gli scarti e i premi all’emissione e al rimborso, la rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e la variazione del cambio hanno complessivamente accresciuto il debito per 7,8 miliardi.

Mazziero Research: debito atteso sotto i 2.700 mld a fine anno, confermata stima Pil 2021 al 6,3%

“Siamo entrati nella fase di diminuzione del debito che puntualmente ritorna ad ogni fine anno, stimiamo il debito a novembre al di sotto dei 2.700 miliardi (2.696 miliardi) con una possibile chiusura del 2021 tra 2.668 e 2.680 miliardi.
Il debito torna a crescere da inizio 2022 sino a giugno portandosi tra 2.747 e 2.789 miliardi”. Questa la previsione di Mazziero Research sui dati sul debito pubblico italiano spiegando che “i finanziamenti dell’Unione Europea relativi al PNRR introducono alcune incertezze legate all’utilizzo delle disponibilità liquide del Tesoro che potrebbero influenzare la precisione delle nostre previsioni”.

Per quanto riguarda le stime sul Pil 2021, Mazziero Research mantiene invariate le previsioni precedenti per un progresso dello 0,4% nel quarto trimestre, con conseguente variazione del +6,3% rispetto allo scorso anno. “Pur trovandoci nella fase acuta della diffusione della variante Omicron, presumibilmente i contagi inizieranno a scendere entro due o tre settimane, gli impatti sui fattori che possono far deviare il PIL dalle precedenti stime restano limitati”, spiega nella nota.

Debito pubblico sale ancora: a luglio si attesta a quota 2.725,9 mld di euro

Non si arresta a luglio la salita del debito pubblico italiano. Secondo i dati diffusi oggi dalla Banca d’Italia che ha pubblicato “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”, a luglio il debito delle amministrazioni pubbliche è aumentato di 29,7 miliardi di euro rispetto al mese precedente, risultando pari a 2.725,9 miliardi. “L’incremento – spiega Bankitalia – è dovuto all’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (36,3 miliardi, a 120,8), che ha più che compensato l’avanzo di cassa delle Amministrazioni pubbliche (7,1 miliardi); l’effetto degli scarti e dei premi all’emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e della variazione dei tassi di cambio complessivamente ha aumentato il debito per 0,4 miliardi”.

Con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 30,0 miliardi, mentre quello delle Amministrazioni locali è diminuito di 0,3 miliardi; il debito degli Enti di previdenza è rimasto stabile. La quota del debito detenuta dalla Banca d’Italia è stata pari al 23,4 per cento (0,4 punti percentuali in più rispetto al mese precedente); la vita media residua è lievemente diminuita, a 7,4 anni.

Bankitalia: debito pubblico sale a quota 2.686,8 mld a maggio

Sale ancora il debito pubblico italiano. Lo scorso maggio il debito delle Amministrazioni pubbliche è aumentato di 6 miliardi di euro rispetto al mese precedente, attestandosi 2.686,8 miliardi. Lo rende noto la Banca d’Italia nella pubblicazione statistica “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”.

L’aumento, spiega la nota, è dovuto al fabbisogno (14,4 miliardi), che ha più che compensato la riduzione delle disponibilità liquide del Tesoro (10,5 miliardi, a 91,3); l’effetto complessivo di scarti e premi all’emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e della variazione dei tassi di cambio ha aumentato il debito per 2 miliardi. Con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 5,1 miliardi mentre quello delle Amministrazioni locali di 0,9 miliardi; il debito degli Enti di previdenza è rimasto invariato.

Nella nota si precisa che la quota del debito detenuta dalla Banca d’Italia era pari al 22,8% (22,4 nel mese precedente); la vita media residua del debito è rimasta stabile a 7,5 anni. A maggio è stata erogata la sesta e ultima tranche (0,8 miliardi) dei prestiti previsti nell’ambito dello strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency, SURE). Complessivamente l’Italia ha ricevuto prestiti erogati attraverso questo strumento per 27,4 miliardi.

Mazziero Research: debito atteso oltre i 2.700 mld, Pil 2021 al 5,7% (per ora)

Il debito pubblico italiano è atteso ancora in salita a luglio. Secondo le stime di Mazziero Research dovrebbe salire a 2.726 miliardi di euro (nuovo record), da qui in avanti la pendenza di crescita dovrebbe diminuire ed entrare in una fase di stabilizzazione. L’anno terminerà in una forchetta compresa tra 2.709 e 2.749 miliardi.”Le stime considerano gli anticipi nell’ambito del programma Next Generation EU erogati ad agosto dall’Unione Europea”, si legge nella nota di Mazziero nella quale si spiega che “in virtù di questi anticipi ci sarà una ricalibrazione delle necessità di finanziamento mediante titoli di Stato e da qui sino a fine anno le stime da noi elaborate potranno subire scostamenti maggiori rispetto alla serie storica. Pertanto, i modelli previsionali da noi elaborati potrebbero necessitare di una fase transitoria di adattamento”.

Bankitalia: debito pubblico balza a quota 2.680,5 miliardi ad aprile

Prosegue la salita del debito pubblico italiano ad aprile. Stando ai dati diffusi dalla Banca d’Italia, il debito delle amministrazioni pubbliche è aumentato di 29,3 miliardi di euro rispetto al mese precedente, risultando pari a 2.680,5 miliardi. L’incremento, si legge nella nota di Bankitalia, riflette l’aumento delle disponibilità liquide (17,1 miliardi, a 101,8) e il fabbisogno del mese (11,9 miliardi). Gli scarti e i premi all’emissione e al rimborso, la rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e la variazione dei tassi di cambio hanno aumentato il debito per ulteriori 0,4 miliardi.

Con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle amministrazioni centrali è aumentato di 25,9 miliardi mentre quello delle Amministrazioni locali di 3,5 miliardi; il debito degli Enti di previdenza è rimasto invariato. Alla fine di aprile la quota del debito detenuta dalla Banca d’Italia era pari al 22,4 per cento (0,2 punti percentuali in più rispetto al mese precedente); la vita media residua del debito è lievemente aumentata, a 7,5 anni.

Debito pubblico ancora in salita a marzo, arriva a quota 2.650,9 mld

Sale ancora a marzo il debito pubblico italiano. Secondo i dati diffusi dalla Banca d’Italia, il debito delle amministrazioni pubbliche è aumentato di 6,9 miliardi di euro a marzo rispetto al mese precedente, risultando pari a 2.650,9 miliardi. “L’aumento è dovuto al fabbisogno (25,3 miliardi), che ha più che compensato la riduzione delle disponibilità liquide del Tesoro (18,3 miliardi, a 84,6); l’effetto complessivo di scarti e premi all’emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e della variazione dei tassi di cambio ha ridotto il debito per 0,1 miliardi”, spiega Bankitalia. Con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle amministrazioni centrali è aumentato di 7,7 miliardi mentre quello delle Amministrazioni locali è diminuito di 0,8 miliardi; il debito degli Enti di previdenza è rimasto invariato.

Bankitalia spiega inoltre che alla fine di marzo la quota del debito detenuta dalla Banca d’Italia era pari al 22,2% (0,4 punti percentuali in più rispetto al mese precedente); la vita media residua del debito è lievemente aumentata a 7,4 anni. A marzo sono state erogate due ulteriori tranche (per un totale di 5,7 miliardi) dei prestiti previsti nell’ambito dello strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza (support to mitigate unemployment risks in an emergency, Sure); alla fine del mese i prestiti erogati dalle istituzioni europee al nostro Paese ammontavano nel complesso a 26,7 miliardi.

Debito pubblico 2.646 miliardi: atteso stabile a marzo, pausa momentanea prima di ulteriore risalita sino a luglio (Mazziero Research)

Dopo gennaio e febbraio in forte crescita (+71 miliardi) stimiamo un debito stabile a marzo a 2.646 miliardi, una pausa momentanea prima di un ulteriore allungo sino a luglio. L’anno terminerà in una forchetta compresa tra 2.652 e 2.715 miliardi. E’ quanto si apprende dalle stime di Mazziero Research che precisa che “le stime al momento non considerano i finanziamenti che potrebbero arrivare da Bruxelles nell’ambito del programma Next Generation EU”.

Debito pubblico: Bankitalia, balza a gennaio a quota 2.603,1 mld

Sale a gennaio il debito delle Amministrazioni pubbliche. Stando ai dati diffusi dalla Banca d’Italia, il debito è aumentato di 33,9 miliardi di euro rispetto alla fine del 2020, risultando pari a 2.603,1 miliardi. L’incremento, spiegano da Bankitalia, è dovuto all’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (32,6 miliardi, a 75,1) e al fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche (2,1 miliardi); l’effetto degli scarti e dei premi all’emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e della variazione dei tassi di cambio ha ridotto il debito per 0,9 miliardi. Con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 33,6 miliardi e quello delle Amministrazioni locali di 0,3 miliardi; il debito degli Enti di previdenza è rimasto stabile. A gennaio la quota del debito detenuta dalla Banca d’Italia è risultata pari al 21,8% (21,6% a dicembre). La vita media residua del debito è leggermente diminuita rispetto a dicembre, a 7,3 anni.

 

Bankitalia: nel 2020 il debito pubblico è salito a 2.569,3 miliardi

Quanto sarà alto il debito pubblico a dicembre?

Debito pubblico italiano in ulteriore crescita ad agosto, toccando un ennesimo record storico. Ecco le previsioni per fine anno.

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Anche ad agosto, il debito pubblico italiano ha continuato a salire. Lo hanno confermato venerdì scorso i dati della Banca d’Italia, che hanno calcolato lo stock a 2.734,4 miliardi di euro, in crescita di 8,5 miliardi. Il dato riflette da un lato l’avanzo delle amministrazione pubbliche per 10,7 miliardi, dall’altro l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro di 18,9 miliardi. Infine, gli scarti di emissione, l’indicizzazione dei titoli agganciati all’inflazione e la variazione dei tassi di cambio hanno innalzato il dato complessivo di altri 0,4 miliardi.

Ed ecco che è stato toccato un ennesimo record storico per il debito pubblico. A questo punto, ci chiediamo a quanto ammonterà alla fine del 2021. Partiamo dalla previsione del governo Draghi, contenuta nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza. Essa parla di un rapporto debito/PIL atteso per il 2021 in calo al 153,5%. Grazie alla maggiore crescita dell’economia italiana e alla ripresa dell’inflazione, il PIL nominale salirebbe in area 1.775 miliardi. Pertanto, lo stock di debito pubblico si porterebbe a circa 2.725 miliardi.

La discesa del debito pubblico a fine 2021

Confrontando questa previsione con il dato di agosto, possiamo affermare che dovremmo registrare una discesa intorno a una decina di miliardi. In altre parole, da qui in avanti e fino a dicembre, il debito pubblico scenderebbe. Accade praticamente ogni anno. E nel 2020, tra agosto e dicembre lo stock è sceso esattamente di 10 miliardi, portandosi poco sotto 2.570 miliardi. Come mai? Per due ragioni: gli ultimi mesi dell’anno sono relativamente “ricchi” per lo stato, grazie alle scadenze fiscali di novembre e dicembre, in particolare.

Secondariamente, il Tesoro tende ad accumulare liquidità nella prima parte dell’anno, quando il costo del denaro sui mercati risulta minore.

Utilizza l’eccesso di scorte detenute nell’ultima fase dell’esercizio, quando emette meno debito pubblico di quanto ne arrivi a scadenza. E, infatti, negli ultimi quattro mesi del 2020 la liquidità è diminuita di oltre 58 miliardi a 42,5 miliardi.

Mettendo insieme tutti questi dati, otteniamo quanto segue: il debito pubblico italiano dovrebbe effettivamente chiudere il 2021 a circa 2.725 miliardi e con scorte di liquidità nettamente superiori a quelle di fine 2020, forse finanche doppie. Nello stock di agosto erano compresi i prestiti erogati dall’Unione Europea all’Italia con il Recovery Fund per 15,9 miliardi, ma non anche i sussidi. Questi ultimi, infatti, non sono da considerarsi debiti, in quanto non vanno restituiti. Aggiungendo anche i finanziamenti del SURE, lo schema europeo a sostegno dei disoccupati, arriviamo a 43,4 miliardi.

Riforma pensioni e Quirinale, così il nuovo presidente della Repubblica può colpire i lavoratori

Le trattative sulla riforma delle pensioni non si fermano, ma l’elezione del prossimo presidente della Repubblica cambia le carte in tavola

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I sindacati di CGIL, CISL e UIL incontreranno domani il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, per fare il punto tecnico sulla riforma delle pensioni. Il prossimo 7 febbraio, invece, la discussione inizierà ad essere politica con una prima sintesi tra le parti. Da qui ad allora, il quadro politico potrebbe risultare stravolto. La prossima settimana, il Parlamento in seduta comune avvierà le votazioni per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Stando al toto-Quirinale, nessun candidato informale avrebbe la certezza di farcela, neppure il premier Mario Draghi, il quale eppure sembrava essere destinato a traslocare al Colle senza alcuna resistenza dei partiti.

La riforma delle pensioni ha molto a che vedere con l’identikit del prossimo capo dello stato e del premier. Sono tre i capitoli su cui il dibattito di queste settimane si sta concentrando: flessibilità in uscita per i lavoratori, garanzie per giovani e donne e previdenza complementare. L’obiettivo comune, anche se ambito maggiormente dai sindacati, consiste nell’evitare il ritorno alla legge Fornero nel 2023. Dal prossimo anno, quota 102 non ci sarà più. Dopo la fine di quota 100, spirata nel 2021, i lavoratori possono andare in pensione in anticipo con almeno 64 anni di età e 38 di contributi. In assenza di misure sostitutive, dal prossimo anno resterebbero in vigore i requisiti previsti dalla riforma del 2011: 67 anni di età o almeno 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.

Riforma pensioni a rischio impasse

Draghi si è detto disponibile a trattare, pur nel quadro della sostenibilità previdenziale. Ma l’elezione del presidente della Repubblica rischia di impattare negativamente sul confronto. I partiti della maggioranza sono divisi praticamente su tutto, riforma delle pensioni compresa.

Lega e Movimento 5 Stelle chiedono maggiore flessibilità in uscita, PD e Forza Italia si mostrano più tiepidi. A tenere uniti tutti ci pensa Draghi. Ma se questi si trasferisse al Quirinale, sarebbe in grado un nuovo premier di fare da paciere tra i partiti o di far leva sulla propria autorevolezza per metterli a tacere?

L’ipotesi alternativa sarebbe che Draghi restasse premier, per cui al Quirinale andrebbe un’altra figura. Ora, in assenza di un voto che unisca l’intera maggioranza, questo scenario porterebbe irrimediabilmente a una crisi di governo. Il centro-destra non resterebbe nell’esecutivo, se fosse eletto un presidente individuato solo dal centro-sinistra, e viceversa. La conseguenza di questo epilogo politico sarebbe l’impasse parlamentare. Che le elezioni anticipate si tenessero in primavera o, come i più credono, nell’autunno prossimo, quando i parlamentari potranno maturare il diritto al “vitalizio”, da qui a fine anno non si avrebbe più il tempo di approvare alcuna riforma delle pensioni. Anzi, il tema diverrebbe oggetto di confronto elettorale. Con buona pace dei lavoratori, che non sono di certo in cima alle priorità del Parlamento.

L’INPS conferma che ci sono pochi lavoratori per pagare le pensioni

I soldi per le pensioni sono pochi, altro che flessibilità in uscita. Anche l’INPS s’accorge che ci sono pochi lavoratori a pagare contributi

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INPS e pensioni con pochi lavoratori

 

 
 
Farmindustria, ‘manifattura high tech italiana 

La scorsa settimana, il presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, ha rilasciato una dichiarazione che avrà fatto saltare dalla sedia in tanti, quando ha spiegato che un Paese con 60 milioni di abitanti e solamente 23 milioni di occupati non può pensare di avere un sistema delle pensioni sostenibile. Secondo Tridico, tra inattivi, giovani, donne e scoraggiati mancano all’appello 10 milioni di posti di lavoro. Ha sottolineato come la piaga riguardi particolarmente il Sud, sebbene anche il Nord sia attraversato dal problema del lavoro nero.

L’allarme di Tridico cade nei giorni “caldi” del dibattito sulle pensioni. I sindacati di CGIL e UIL hanno organizzato uno sciopero generale per giovedì scorso e tra l’altro da oggi dovrebbero tornare a confrontarsi con il governo proprio sul capitolo della previdenza. Nessuno (o quasi) vuole tra i partiti e i ministri il ritorno alla legge Fornero, che ha innalzato l’età pensionabile per uomini e donne a 67 anni. Dopo quota 100, in scadenza alla fine di questo mese, dovrebbe esservi quota 102 e successivamente un qualche meccanismo flessibile per uscire dal lavoro, magari tarato sui lavoratori che svolgono lavori gravosi.

Pensioni, numeri INPS

I numeri non depongono a favore di uno slancio di generosità. In Italia, nel 2019 abbiamo speso circa 273 miliardi tra pensioni di vecchiaia, ai superstiti e invalidità (IVS). Nello stesso anno, le entrate contributive si fermavano a 236 miliardi. Significa che altri 36-37 miliardi, pari a oltre 2 punti di PIL, sono stati coperti dallo stato ricorrendo alla fiscalità generale, ovvero alle tasse pagate dai contribuenti, come IRPEF, IVA, IRES, IRAP, accise, etc.

Facendo due conti spiccioli, troviamo che mediamente ogni lavoratore in Italia paghi la media di 10.000 euro di contributi all’anno all’INPS.

Ora, i 10 milioni di lavoratori che mancherebbero all’appello secondo Tridico sono una stima esagerata secondo ogni criterio. Pensate solamente che se tendessimo ai livelli di occupazione altissimi della Germania, al 76% contro il nostro poco più del 58%, avremmo 7 milioni in più di lavoratori rispetto ad oggi. Accontentandoci di tendere alla media UE di circa il 68%, i posti di lavoro mancanti ammonterebbero a 4 milioni. E se ognuno di questi pagasse i 10.000 euro di contributi in media di cui sopra, l’INPS avrebbe entrate di 40 miliardi più alte.

In pratica, un mercato del lavoro in piena occupazione riuscirebbe a colmare il deficit delle pensioni in Italia. E considerate che lo stato incasserebbe anche un maggiore gettito fiscale grazie alla creazione di redditi aggiuntivi, mentre ci sarebbe minore bisogno di erogare sussidi e altre forme di assistenza, dato che milioni di persone in più godrebbero di redditi da lavoro. La flessibilità diverrebbe possibile in un siffatto scenario, perché alla base vi sarebbe una robusta economica e finanziaria che ad oggi non s’intravede. Fino ad allora, dovremmo concentrarci sulla creazione di posti di lavoro e non di nuovi pensionati.

Reddito di Cittadinanza settembre, perché l’importo è più alto e quanto sarà ricaricato nei prossimi mesi

I percettori di Reddito di Cittadinanza potrebbero ricevere una doppia ricarica, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra.

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I percettori di Reddito di Cittadinanza proprio questo mese potrebbero ricevere un doppio accredito. In particolare, solamente tra qualche giorno sarà accreditata la mensilità del mese di settembre. Ma non è tutto, alcuni di essi potrebbero anche ricevere il pagamento del nuovo “assegno unico temporaneo. Vediamo meglio di cosa si tratta.

Debito: 218 mld per emergenza Covid pesano su finanze pubbliche, serve piano di rientro

Ammonta a oltre 218 miliardi di euro il conto finale, sulle finanze pubbliche italiane, della emergenza sanitaria causata dal Covid. Il dato si riferisce all’impatto, sulle casse dello Stato, spalmato sul triennio 2020-2022, di tutte le misure decise dal governo italiano, con otto decreti legge, a partire da marzo a dicembre dello scorso anno, considerando anche la riduzione delle entrate tributarie derivante dalla recessione economica.

Ai 139 miliardi di euro di uscite straordinarie necessarie per assicurare gli aiuti economici sia alle imprese sia ai lavoratori sia alle famiglie non abbienti si sommano, infatti, più di 79 miliardi di minori incassi fiscali. È quanto emerge da un’analisi del Centro studi di Unimpresa che ha passato ai raggi X le conseguenze del Covid sulle finanze pubbliche.

“Il temporary framework avallato dall’Unione europea l’anno scorso ha consentito, all’Italia e ad altri paesi alle prese con particolari difficoltà, di avere spazi di manovra particolarmente ampi per far fronte all’emergenza economica e sociale causata dalla pandemia. Tuttavia, quella dell’Ue non è una generosità perenne e non è a costo zero: sin d’ora, il governo deve programmare un percorso di rientro per rimettere in equilibrio le finanze dello Stato”, commenta il vicepresidente di Unimpresa, Giuseppe Spadafora, secondo il quale “molto dipenderà dal successo del Piano nazionale di ripresa e resilienza: più saranno spesi bene gli oltre 200 miliardi del Pnrr e più potremo avere effetti positivi sui conti pubblici”.

Perché la pandemia ci sta costando più di 7.000 euro a testa

Il costo della pandemia si sta rilevando elevatissimo e i numeri sul debito pubblico dello stesso governo Draghi lo confermano

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Il costo della pandemia

Non sono lutti e grosse sofferenze sul piano economico per milioni di famiglie. La pandemia ci lascerà in eredità numeri pesanti da smaltire anche sul piano dei conti pubblici. Abbiamo colto l’occasione di verificare il suo impatto definitivo, attingendo alle cifre pubblicate dal governo con la Nota di Aggiornamento al Documento di economia e finanza (NaDef). Trattasi di previsioni pluriennali, non numeri scolpiti sulla roccia, ma certamente un punto fermo con cui fare i conti.

Il governo Draghi prevede che nel 2024, il debito pubblico italiano sarà sceso al 146,1% del PIL, sfiorando i 3.000 miliardi di euro. Rispetto all’ultimo bilancio pubblicato prima della pandemia, relativo all’esercizio 2019, l’aumento sarà stato di quasi 580 miliardi. Trattasi di una crescita monstre, di una media di oltre 115 miliardi all’anno. Tuttavia, questo non può considerarsi per intero il costo del Covid, dato che in sua assenza l’Italia avrebbe verosimilmente continuato a fare debiti, pur a ritmi molto più moderati.

Il costo della pandemia nel lungo periodo

Nel 2019, il deficit dello stato fu dell’1,6% del PIL. E nel quinquennio 2015-2019, la crescita media del PIL nominale fu dell’1,5%. Tenendo conto di questi dati, potremmo immaginare cosa sarebbe accaduto ai conti pubblici italiani se non ci fosse stata la pandemia. Al 2024, il debito pubblico sarebbe salito di 150 miliardi rispetto al 2019, attestandosi al 133% del PIL. Il dato sarebbe risultato di circa 430 miliardi più basso di quello stimato dal governo tra tre anni. Questo effettivamente sarà il costo della pandemia, non necessariamente definitivo, dato che non sappiamo ancora se il suo impatto si trascinerà anche oltre il 2024.

Suddividendo i 430 miliardi di maggiore debito tra i 60 milioni di abitanti, otteniamo un conto salatissimo: oltre 7.100 euro.

E attenzione, esso ricade su ogni residente, compresi bambini e anziani. Una famiglia di quattro persone risulta oberata da maggiori debiti contratti dallo stato per 28.500 euro. Se, poi, suddividessimo il costo della pandemia solamente tra gli occupati, cioè coloro che effettivamente lavorano, producono ricchezza e pagano le tasse, l’aggravio pro-capite esploderebbe a 18.600 euro. Infine, se ci concentrassimo sui soli occupati del settore privato, il cui gettito fiscale di fatto mantiene anche gli occupati del pubblico impiego, saliamo ancora a 21.400 euro a testa.

Le cifre ci appaiono già significative in sé, ma diventano ancora più pesanti se pensiamo che alla fine di quest’anno il PIL pro-capite italiano dovrebbe risalire a quasi 29.600 euro. In buona sostanza, la pandemia ci costerà circa tre mesi di stipendio attuale. E l’effetto non svanirà nel tempo, pur riducendosi. Infatti, sui debiti accumulati a causa di essa saremo costretti a pagare gli interessi, la cui spesa netta al 2024 è attesa al 2,5% del PIL o 1,7% dello stock. A questo tasso medio, nel lungo periodo continueremo a spendere sopra 7 miliardi all’anno per la pandemia, circa 120 euro a testa.

“In 10 anni mai centrati gli obiettivi dei governi sui conti”

Lo afferma l’analista Maurizio Mazziero, fondatore della Mazziero Research, in vista della Nota di aggiornamento al Def che l’esecutivo dovrebbe varare domani
di Giorgia Ariosto | 29 settembre 21, 04:33

AGI – I documenti ufficiali dei governi “non hanno mai centrato” gli obiettivi indicati sui conti pubblici. Ne è convinto Maurizio Mazziero, fondatore della Mazziero Research, società di ricerca finanziaria indipendente che pubblica osservatori trimestrali sui conti pubblici.

“I governi che si sono succeduti non hanno mai centrato le previsioni ma è anche difficile riuscirci – spiega all’AGI Mazziero, a poche ore dal varo della Nota di aggiornamento al Def – Oggi per un governo è difficile centrare l’obiettivo perché le variabili sono tante, nel passato le chance c’erano ma non è mai successo. Io ho un simpatico grafico che lo dimostra, con le varie stime debito/pil nei vari Def: non ce n’è una che sia stata centrata”. In particolare, sottolinea, “quello che si vede è che ogni governo, a partire dal 2010, ha sempre detto che non riusciva a diminuire il debito nell’anno in corso ma lo avrebbe fatto l’anno successivo, e puntualmente il debito è aumentato”.

Secondo l’analista è necessario quindi mantenere una certa cautela nelle previsioni, anche perché a complicare ulteriormente il quadro è la pandemia. “Nel nostro ultimo osservatorio abbiamo mantenuto la stima di crescita al 5,7% per l’anno in corso – prosegue Mazziero – e pur avendo portato per primi la previsione sopra al +5%, a fronte del +4,5% indicato dal governo nel Def, ora ci troviamo indietro rispetto ad altri istituti di ricerca. Manteniamo una stima annua del 5,7% perché in questo momento vogliamo mantenere una certa cautela sui livelli dei consumi nel quarto trimestre. C’è una previsione di aumento delle bollette che il governo sta cercando di sterilizzare ma che non riuscirà a sterilizzare completamente. Questo – osserva l’analista – insieme alla possibilità che con il clima più freddo ci possa essere una leggera ripresa dei contagi, ci induce a essere più cauti. Non è escluso che la fiducia dei consumatori e delle imprese si indebolisca un po’ nel periodo natalizio, e quindi alla fine non si riesca effettivamente a raggiungere il 6%”.

Per Mazziero, “molto dipenderà da una serie di fattori, ad esempio il ritorno al lavoro in presenza di dipendenti pubblici e privati”. “C’è tutta una parte di settori che non hanno recuperato i livelli di attività che avevano prima della pandemia, come servizi, bar e ristorazione che sono rimasti al palo – sottolinea l’analista finanziario – noi siamo al di sotto dei livelli pre-pandemici di circa un 2-2,5%, se riuscissimo a colmare questo gap si avrebbe una forte spinta sul Pil che potrebbe crescere ulteriormente di circa il 2% su base annua, dopo 12 mesi dal rientro al lavoro”.

L’analista esprime cautela anche sui livelli di deficit e debito. “La ripresa è forte e avremo una buona riduzione del rapporto debito/Pil che dovrebbe però rimanere sopra al 150%. Quanto al deficit – prosegue – diventa difficile stabilire oggi una stima corretta. Presumo che si attesterà intorno al 10% ma ci sono tante incognite”.  

E sugli spazi finanziari che si apriranno l’analista mette in guardia: “Non si può ancora per molto tenere l’acceleratore premuto sulle misure sostegno, non è questa la strada. Penso che sicuramente una parte delle risorse dovranno essere impiegate per evitare un aumento di tassazione. Circa 3-4 miliardi serviranno per sterilizzare una parte dell’aumento delle bollette, ma non conviene spingere troppo sul deficit. Abbiamo comunque tanti fondi che provengono dall’anticipo del Pnrr, risorse che andranno a rimpolpare il debito ma che dovrebbero già indicare qualche impiego, e quindi sostenere il Pil”.

Per Mazziero, “la vera sfida sarà però nel 2022. Finché siamo sul 6% è un rimbalzo – spiega – perché con una caduta dell’8,9% nel 2020 non stiamo nemmeno raggiungendo i livelli pre-pandemia. Qundi cruciale sarà il 2022, soprattutto per le misure che si metteranno in atto con il Pnrr. Gli investimenti devono partire, altrimenti rischiamo l’anno prossimo di dover scendere a una crescita del 5%, poi nel 2023 al 2,5% e nel 2024 -2025 torniamo a una crescita dello ‘zero virgola’ a cui eravamo abituati qualche anno fa”.

Per il 2022, conclude l’analista, “stimiamo una crescita tra il 4,5% e il 5% allo stadio attuale, poi vedremo quanto riusciranno a mettere in moto gli investimenti del Pnrr. Gli investimenti che possono davvero incidere sono quelli in grandi opere perché l’ammodernamento infrastrutturale del Paese può far crescere il Pil, ma sappiamo anche che le grandi opere hanno sempre avuto gestazioni molto lunghe. Se si riuscirà a mettere in moto opere infrastrutturali la crescita si attesterà intorno al 5% altrimenti si fermerà al 4,5%”.

Pensioni 2022, sul destino di Quota 100 non si discuterà prima di fine anno. Ora solo ipotesi: ecco quali

Aumento pensioni d’oro nel 2022: buone notizie per gli assegni alti

Cambia ancora il meccanismo di rivalutazione delle pensioni per il 2022, comportando un aumento maggiore per gli assegni più pesanti

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Per i cosiddetti pensionati d’oro, il 2022 potrebbe passare come un anno da ricordare in positivo. Sono due essenzialmente le ragioni dell’ottimismo. La prima riguarda l’aumento delle pensioni per effetto di una nuova modalità di calcolo della rivalutazione annua. Nel triennio 2019-2021, la legge ha previsto la suddivisione degli assegni mensili in sei fasce. Dal 2020, tuttavia, sono state ridotte a cinque. In sostanza, la perdita del potere di acquisto dovuta all’inflazione è recuperata totalmente per gli assegni fino a quattro volte il trattamento minimo. Quest’ultimo è stato fissato per il 2021 a 515,58 euro al mese. Per gli importi superiori, ecco le rivalutazioni previste:

  • 77% fra quattro e cinque volte il minimo;
  • 52% fra cinque e sei volte il minimo;
  • 47% fra sei e sette volte il minimo;
  • 45% fino a 4.566 euro (nove volte il minimo);
  • 40% per trattamenti d’importo superiore.

Ma si trattava di un meccanismo transitorio, destinato a lasciare il passo dal 2022 a un altro meccanismo più favorevole alle pensioni più alte. In base ad esso, gli assegni saranno agganciati totalmente all’inflazione fino a quattro volte il trattamento minimo, al 90% per i trattamenti tra quattro e cinque volte e al 75% per gli assegni sopra le cinque volte.

Aumento delle pensioni maxi per gli assegni alti

E arriviamo alla seconda buona notizia per i pensionati d’oro. Dall’anno prossimo, stop al contributo di solidarietà per gli assegni più alti. Sarebbe dovuto durare per cinque anni, ma la Corte Costituzionale ha fissato a tre anni il periodo massimo di vigore della tagliola sopra i 100.000 euro. Tale contributo era stato fissato per legge al 15% per gli assegni tra 100.000 e 130.000 euro, al 25% tra 130.000 e 200.000 euro, al 30% tra 200.000 e 350.000 euro, al 35% tra 350.000 e 500.000 euro e al 40% sopra 500.000 euro.Che cosa succede a un pensionato con un assegno annuo lordo di 150.000 euro? Per effetto del venir meno del contributo di solidarietà, percepirà 9.500 euro in più. A confronto, sembrano noccioline i circa 600 euro in più all’anno di aumento proveniente dalla rivalutazione più favorevole. Circa +10.000 euro, qualcosa come oltre 830 euro al mese. A rimetterci sarà chiaramente lo stato, che stima in 4 miliardi il maggiore esborso per effetto del nuovo metodo di rivalutazione, mentre il minore gettito per il cessato contributo di solidarietà ammonterebbe a un’ottantina di milioni. I pensionati con assegni annui sopra i 100.000 euro sono 90.000, comunque una platea ridotta che costa all’INPS mediamente 6,5 miliardi all’anno.

La riforma pensioni 2022 sarà fatta all’ultimo momento. Per il dopo quota 100 vi sono però già delle ipotesi credibili.

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La riforma pensioni 2022 sarà fatta all’ultimo momento. Per il dopo quota 100 vi sono però già delle ipotesi credibili.

Sulla riforma pensioni 2022 il governo prende tempo. Il problema, però, è che non ne rimane molto essendo che quota 100 scade fra tre mesi e il rischio scalone di 5 anni con le regole Fornero appare preoccupante.

Il tavolo negoziale fra governo e parti sociali, istituito al Ministero del Lavoro, è fermo e al momento il governo sembra più preoccupato di attuare la riforma del fisco e quella del lavoro piuttosto che quella delle pensioni.

Pensioni 2022, la riforma nella legge di bilancio

Fino all’ultimo, quindi, non si saprà nulla. La riforma pensioni 2022 sarà inserita nella legge di bilancio che il Parlamento sarà chiamato ad approvare entro fine anno. Il premier Mario Draghi ha detto in proposito che

Quota 100 è discorso che affronteremo durante la legge di bilancio. Oggi è prematuro discuterne così come di altri provvedimenti che vanno corretti“.

Quindi una riforma a sorpresa con novità dell’ultima ora? E’ indubbio che le difficoltà per trovare una soluzione per il dopo quota 100 vi siano. Alla base di tutto c’è l’indisponibilità a fare nuove riforme per le pensioni 2022 a debito. Quindi si tratterà di aggiustare il tiro sugli strumenti già esistenti consentendo il pensionamento anticipato solo con penalizzazione rispetto alle regole Fornero.

Per il dopo quota 100, tre ipotesi in cantiere

Nonostante i dubbi e le incertezze, qualcosa già sta prendendo forma per il dopo quota 100. Le ipotesi su cui si sta ragionando in concreto sarebbero tre e tutte improntate a un taglio delle pensioni.

La prima è Ape Sociale allargata. In sostanza si tratta di concedere le pensioni 2022 a una più vasta platea di lavoratori che rientrano nella categoria degli usuranti. La commissione governativa lavori gravosi ha appena terminato di stilare una nuova graduatoria composta da 92 mansioni usuranti.

Per costoro potrebbe aprirsi la strada del pensionamento anticipato a 63 anni o, in maniera flessibile, anche prima (o dopo), ma con tetto limite di 1.500 euro al mese.

La seconda ipotesi è quella di prorogare opzione donna che consente alle lavoratrici di lasciare il lavoro a 58 anni di età (a 59 per le autonome) con 35 anni di contributi. La pensione è calcolata esclusivamente col sistema contributivo.

La terza e ultima via sarebbe quella di introdurre un sistema di pensionamento flessibile, come proposto dall’Inps, con liquidazione della pensione in due tranches. La prima al compimento di 62 o 63 anni per la sola parte contributiva maturata, mentre la seconda al raggiungimento dei 67 anni per la parte retributiva restante.

Reddito di cittadinanza, in arrivo la mensilità di settembre

La data di ricarica della carta del reddito di cittadinanza è diversa in base a quando è stata presentata e accolta la richiesta di accesso al sussidio. In particolare, i nuovi fruitori del sussidio, oppure coloro che hanno chiesto il rinnovo allo scadere delle prime 18 mensilità, già a partire dal 15 di ogni mese, possono recarsi agli uffici di Poste Italiane per ritirare la carta di reddito di cittadinanza già accreditata della relativa mensilità.

Per i vecchi possessori di carta di Rdc, invece, la ricarica sarà effettuata a partire dal giorno 27 di ogni mese e comunque non oltre il 30.

Assegno unico temporaneo

L’assegno unico temporaneo, sostanzialmente, è una prestazione transitoria destinata alle famiglie in possesso dei requisiti previsti dalla legge per ogni figlio minore di 18 anni, inclusi i figli minori adottati e in affido preadottivo.

La misura, finalizzata a dare un sostegno immediato ai nuovi genitori, è stata adottata in attesa dell’attuazione dell’assegno unico e universale che dovrà riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei figli.

Il pagamento dell’Assegno Unico dovrebbe essere accreditato a partire dal 20 settembre.

La misura, così come si legge sul sito dell’Inps, è compatibile con gli altri sussidi e bonus, compreso il Reddito di Cittadinanza.

A breve, dunque, i percettori del Rdc potrebbero ricevere una doppia ricarica, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra.

 
Al 31 dicembre del 2020 il debito delle Amministrazioni pubbliche era pari a 2.569,3 miliardi contro i 2.409,9 miliardi di fine 2019 (134,7 per cento del PIL). Così la Banca d’Italia diffonde le stime del debito e del fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche per l’anno 2020.
L’aumento del debito nel 2020 (159,4 miliardi) ha riflesso sia il fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche (152,4 miliardi) sia l’incremento delle disponibilità liquide del Tesoro (9,6 miliardi, a 42,5).

Natixis: il sistema pensionistico italiano continua a perdere posizioni

L’Italia scende al 31° posto nel Global Retirement Index 2021 di Natixis Investment Managers a causa del peggioramento dei dati sull’occupazione e sulla qualità della vita: stabile il benessere materiale

 di Leo Campagna  21 Settembre 2021 – 7:50
 

Scivola di una posizione dal 30° al 31° posto l’Italia nel Global Retirement Index 2021 di Natixis Investment Managers. Il sondaggio annuale, realizzato quest’anno tra marzo e giugno, approfondisce lo stato di salute dei sistemi pensionistici in 44 Paesi in tutto il mondo: non soltanto le economie avanzate del Fondo Monetario Internazionale (FMI), comprende anche i membri dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e i paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina).

18 INDICATORI DI PERFORMANCE DEL BENESSERE DEI PENSIONATI

Il sondaggio esamina 18 indicatori di performance del benessere dei pensionati, raggruppati in quattro aree tematiche: dagli gli strumenti per vivere in modo agevole in età pensionabile all’accesso a servizi finanziari di qualità per preservare i propri risparmi, valorizzare e massimizzare il reddito, dall’accesso a servizi sanitari di elevato standard alla qualità della vita, compreso un ambiente sano e sicuro in cui vivere.

MIGLIORA L’INDICATORE IN MATERIA DI GOVERNANCE

Il risultato di quest’anno dell’Italia, poco al di sotto dell’anno scorso, è la sintesi del lieve peggioramento nell’andamento delle condizioni finanziarie in età pensionabile e alla salute e qualità della vita. Nell’area Finanze, in particolare, la riduzione dei punteggi è relativa ai segmenti delle sofferenze bancarie, del tasso di interesse, della pressione fiscale dell’indebitamento pubblico: migliora, al contrario, l’indicatore in materia di governance

UN MIGLIORAMENTO DELL’INDICATORE DI FELICITÀ

Nell’area Salute, invece, l’indagine rileva un calo dell’aspettativa di vita , mentre in quello della Qualità della vita, il punteggio dell’Italia diminuisce leggermente rispetto all’anno scorso, come risultante di un arretramento dell’indice dei fattori ambientali che non è stata sufficientemente compensata da un miglioramento dell’indicatore della Felicità.

L’INDIVIDUO PIÙ COINVOLTO E PIÙ ATTIVO

“I dati che emergono dal sondaggio segnalano che l’Italia accusa ancora dei postumi relativi agli impatti dell’epidemia” commenta Antonio Bottillo, Country Head ed Executive Managing Director per l’Italia di Natixis Investment Managers “Al contempo, tuttavia si rileva un miglioramento sull’uguaglianza della distribuzione del reddito che prelude ad un importante passaggio, quello in cui l’individuo risulta più coinvolto e più attivo nelle decisioni alla base dei propri investimenti”.

FORNITURA DI SOLUZIONI ROBUSTE E INNOVATIVE

In particolare, fa notare il manager, emergono diversi segnali che delineano la tendenza nella direzione di costruirsi una pensione sicura. “Il Gruppo Natixis è fortemente attivo e strutturato nella fornitura di soluzioni robuste e innovative per realizzare tale obiettivo”, sottolinea Bottillo.

LA TOP TEN MONDIALE

Ma qual è la top ten mondiale stilata dal Global Retirement Index 2021? Sul podio, nell’ordine, figurano Islanda, Svizzera e Norvegia, seguiti da Irlanda, Paesi Bassi, Nuova Zelanda e Australia: questi primi sette Paesi in classifica hanno conservato le medesime posizioni per il secondo anno consecutivo. Restando tra i primi 10 al mondo, se la Danimarca è rimasta stabile al nono posto, la Germania è salita dal decimo all’ottavo, e il Canada ha invertito il piazzamento, scivolando dall’ottava alla decima posizione.

EUROPA LEADER MONDIALE NELLE AREE SALUTE E QUALITA’ DELLA VITA

Da segnalare infine come, per il terzo anno consecutivo, il Nord America guadagni il punteggio più alto (72%) tra tutte le macro-aree geografiche a livello globale, mentre l’Europa occidentale si posiziona al secondo posto con un punteggio complessivo del 69%, vantando tuttavia i punteggi più alti nelle aree Salute e Qualità della vita.

Reddito e pensione di cittadinanza: Inps, 1,36 mln i nuclei beneficiari per oltre 3 mln di persone

Nel mese di agosto i nuclei percettori di Reddito di Cittadinanza (RdC) sono stati oltre 1,22 milioni, mentre i percettori di Pensione di Cittadinanza (PdC) sono stati quasi 135mila, per un totale di quasi 1,36 milioni di nuclei e oltre 3 milioni di persone coinvolte. È quanto emerge dai dati diffusi dall’Inps che ha pubblicato l’osservatorio su reddito e pensione di cittadinanza e reddito di emergenza.

Prevalgono i nuclei composti da tre e quattro persone, rispettivamente 646mila e 673mila. I nuclei con minori sono quasi 443mila, con un numero di persone coinvolte di oltre 1,64 milioni, mentre i nuclei con disabili sono quasi 231mila, con oltre 536mila persone coinvolte. Quanto all’importo medio erogato a livello nazionale, nel mese di agosto è di 546 euro (576 euro per il RdC e 270 per la PdC). L’importo medio varia sensibilmente con il numero dei componenti il nucleo familiare, passando da un minimo di 446 euro per i monocomponenti a un massimo di 699 euro per le famiglie con quattro componenti.

La platea dei percettori di Reddito di cittadinanza e di Pensione di Cittadinanza è composta da 2,58 milioni di cittadini italiani, 318mila cittadini extra comunitari con permesso di soggiorno UE e 119mila cittadini europei. La distribuzione per aree geografiche vede 592mila beneficiari al Nord e 427mila al Centro, mentre nell’area Sud e Isole supera i 2 milioni di percettori. Nei primi otto mesi del 2021, le revoche raggiungono il numero di quasi 83mila nuclei e le decadenze sono oltre 230mila

Anche chi non ha mai lavorato ha diritto ad andare in pensione?

Se una persona non ha mai lavorato e non ha mai versato i contributi, ha diritto ad andare in pensione? Rispondiamo.

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Se una persona non ha mai lavorato e non ha mai versato i contributi, ha diritto ad andare in pensione? Rispondiamo.

Se una persona non ha mai lavorato e non ha mai versato i contributi, ha diritto ad andare in pensione?È davvero possibile percepire l’assegno di pensione di vecchiaia se non sono stati versati i contributi? Rispondiamo alle domande pervenute alla redazione.

Pensione di Vecchiaia: quando spetta?

La pensione di vecchiaia è una rendita vitalizia che spetta al momento della cessazione del rapporto di lavoro in corrispondenza del raggiungimento dei requisiti richiesti.La pensione di vecchiaia che spetta al compimento di una determinata età ed in presenza di un determinato numero di anni di contributi.Nel 2021 la misura previdenziale richiede 67 anni di età ed almeno 20 anni di contributi versati.Se i contributi sono stati versati a partire dal 1996, è richiesto un altro requisito, quello relativo all’importo dell’assegno previdenziale che deve essere pari ad almeno 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale INPS.

Pensione di Vecchiaia: è davvero possibile senza aver versato i contributi?

Non è possibile vedersi erogato l’assegno previdenziale di vecchiaia senza aver versato i contributi.Non è possibile presentare la domanda di pensione di vecchiaia se sono stati versati meno di 5 anni di contributi.La pensione di vecchiaia con 5 anni di contributi può essere ottenuta soltanto da chi non ha contributi versati prima del 1° gennaio 1996.Pertanto, la pensione di vecchiaia con 5 anni di contributi può essere richiesta soltanto dai lavoratori soggetti al calcolo integralmente contributivo.Chi ha versato contributi prima del 31 dicembre 1995, non è soggetto al calcolo contributivo della pensione, ma al calcolo misto o retributivo. Pertanto, non può ottenere la pensione di vecchiaia con 5 anni di contributi.

Pensione di vecchiaia con 5 anni di contributi nella Gestione Separata?

I lavoratori che possiedono contributi versati in gestioni previdenziali diverse, tra le quali la gestione separata, possono optare per il computo dei contributi.È possibile fare confluire tutti i contributi posseduti nelle varie casse previdenziali all’interno della Gestione Separata.I contributi versati nella Gestione Separata sono automaticamente assoggettati al calcolo contributivo, quindi, si può presentare la domanda per richiedere la pensione di vecchiaia contributiva.

Pensione di vecchiaia con 5 anni di contributi con il cumulo?

Non c’è alcuna possibilità di ottenere la pensione di vecchiaia con 5 anni di contributi utilizzando il cumulo della contribuzione.

Con il cumulo possono essere ottenute solo la pensione anticipata ordinaria, la pensione di vecchiaia ordinaria, la pensione d’inabilità e ai superstiti

Taglio della pensione di reversibilità: il problema esiste e riguarda le donne

L’OCSE ha suggerito all’Italia di ridurre la spesa per la pensione di reversibilità. Sarebbe eccessiva nel nostro Paese e in Grecia.

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Nella sua relazione economica sull’Italia, pubblicata all’inizio di questa settimana, l’OCSE ha suggerito all’Italia una misura che certamente farà discutere e che rischia di rendere ancora più incandescente il dibattito politico di queste settimane. L’organizzazione con sede a Parigi ha consigliato all’Italia di tagliare la pensione di reversibilità. Stando ai dati, ogni anno il nostro Paese spende il 2,4% del PIL per questo tipo di assegno, nettamente sopra la media dell’area all’1%.

Per pensione di reversibilità, in gergo ai superstiti, s’intende l’assegno che percepisce il/la vedovo/a dopo la morte del coniuge. Attenzione, perché contrariamente a quanto spesso tendiamo a credere, non si tratta di un “regalo” dello stato. I contributi INPS versati dal lavoratore dipendente o autonomo contemplano già tale ipotesi. In pratica, versiamo all’istituto di previdenza non solo i contributi per la nostra pensione, ma anche per il caso di vedovanza.

Tuttavia, i dati OCSE ci spiegano anche che la spesa per la pensione di reversibilità in Italia sarebbe eccessiva. Dovremmo ridurre l’importo dell’assegno? Il problema è più complesso e riguarda particolarmente le donne. Sappiamo che statisticamente una donna vive in media quasi 5 anni in più di un uomo. E fino alla legge Fornero, andava in pensione anche 5 anni prima con l’età ufficiale, almeno nel settore privato. Di fatto, le leggi in materia avevano garantito un assegno di vedovanza alle donne di almeno una decina di anni.

Pensione di reversibilità e bassa occupazione femminile

Oggi, l’età pensionabile per uomini e donne è stata parificata. Resta il fatto che le donne italiane siano tra le meno occupate nel mondo ricco.

Solamente il 48% in età lavorativa ha un’occupazione contro una media europea del 62,5% e una OCSE del 59,6%. Questo ha conseguenze d’impatto enormi proprio sulla pensione di reversibilità. Arrivando alla vecchiaia con pochi contributi o nessuno versato, la donna italiana rischia di rimanere priva di reddito con la morte del coniuge. E necessariamente, lo stato deve riconoscerle l’assegno. D’altra parte, se non facesse così, dovrebbe preoccuparsi in qualche altro modo a consentirle almeno un livello di vita minimamente dignitoso.

Stiamo affermando, quindi, che la pensione di reversibilità in molti casi sia erogata per scopi assistenziali. Se la donna italiana lavorasse fino a garantirsi un assegno sufficiente per la vecchiaia, non ne avrebbe diritto o ne avrebbe diritto in misura inferiore. Dunque, l’eccesso di spesa rilevato dall’OCSE è reale, ma non dipende dalla manica larga dello stato (al di là del calcolo retributivo effettuato in passato e parzialmente oggi), quanto dallo scarso funzionamento del nostro mercato del lavoro. La bassa occupazione femminile si riflette nell’esigenza per le donne di vivere durante la terza età in un qualche modo. Il vero invito di Parigi sarebbe, dunque, di agire per aumentare tale percentuale per farla tendere ai livelli europei. E ciò risulta particolarmente vero al Sud, dove i tassi di occupazione tra le donne sprofondano anche al 30% o poco sopra, la metà degli standard occidentali.

Pensioni: secondo l’Ocse sia Quota 100 che Opzione Donna non vanno rinnovate

Il nuovo rapporto Ocse boccia Quota 100, suggerendo di lasciarla scadere a fine anno senza alcuna proroga. L’Ocse, riprendendo una stima fatta dal Tesoro, ricorda che adottare Quota 100 su base permanente, la spesa pensionistica registrerebbe un aumento cumulativo pari a 11 punti percentuali del Pil tra il 2020 e il 2045. L’Ocse ritiene quindi che sarebbe opportuno lasciar scadere Quota 100 nel dicembre 2021, così come la cosiddetta ‘Opzione Donna’ che da’ diritto al pensionamento anticipato con un trattamento calcolato su base contributiva fino a fine anno. A detta dell’Ocse tale misura amplifica i rischi di povertà in età avanzata. In generale su sistema pensioni, l’Ocse vede le pressioni sulla spesa legate all’invecchiamento demografico e agli interessi “elevate e destinate ad aumentare nel lungo termine”.

La mappa degli immobili dell’Inps all’asta a settembre 2021

Autore:Flavio Di Stefano

Continua il piano di dismissioni immobiliari del patrimonio dell’Inps. Dopo la tornata di maggio scorso, tra il 22 e il 30 settembre verranno messi all’asta altri appartamenti e locali commerciali tra Lombardia, Veneto, Lazio, Toscana e Marche. idealista/news ha preparato una mappa con alcune delle proprietà più interessanti che saranno messe in vendita. Vediamo tutte le info utili per presentare un’offerta.

Tra gli immobili di proprietà dell’Inps che saranno messi all’asta non ci sono solo appartamenti ma anche diversi locali commerciali e un complesso immobiliare. Particolarmente nutrita, poi, l’offerta immobiliare presente su Roma.

Le aste verranno effettuate per singoli lotti, ognuno costituito da una o più unità comprensive di eventuali pertinenze e accessori. Gli immobili verranno messi in vendita a corpo, nello stato di fatto, di diritto, di manutenzione e di consistenza in cui si trovano, con ogni pertinenza di proprietà, impianti esistenti, servitù attive e passive ove esistenti.

Per ogni lotto, nella scheda riguardante l’immobile nello specifico, viene specificato il termine entro cui presentare l’offerta. Gli immobili in questione saranno venduti tramite la Rete Aste Notarili (RAN), il sistema informatico realizzato dal Consiglio Nazionale del Notariato per la gestione delle aste telematiche.

Attraverso il collegamento dagli studi notarili su tutto il territorio italiano, infatti, è possibile per gli interessati partecipare alle aste via web, potendo effettuare i rilanci anche a centinaia di km dall’immobile, abbattendo le barriere territoriali con la garanzia e sicurezza del notaio.

La Rete Aste Notarili (RAN) si caratterizza per:

  • sicurezza eliminando il rischio turbative e di clonazioni; tracciabilità degli atti e dei soggetti che partecipano alla procedura e applicazione normativa antiriciclaggio;
  • accessibilità dei cittadini che possono partecipare attraverso gli studi notarili dislocati sull’intero territorio;
  • trasparenza in quanto gli attori del sistema assistono, in tempo reale, a tutti gli eventi;
  • orientamento dei cittadini che possono richiedere ai notai informazioni giuridiche, fiscali o pratiche.

Come si partecipa ad una asta telematica notarile? Una persona interessata all’acquisto di un immobile non dovrà più recarsi presso il professionista presso il quale si tiene l’asta, ma potrà andare in qualsiasi studio notarile aderente alla RAN per depositare la cauzione e fare le offerte.

Successivamente, nel giorno e nell’ora stabiliti dal bando, il cittadino si recherà presso lo studio del notaio presso il quale ha presentato l’offerta. Durante la sessione d’asta, che si svolgerà via web collegando tra loro tutti i notai, il notaio avrà cura di comunicare a tutti i partecipanti presenti, le offerte provenienti da tutta Italia, in modo tale che ognuno abbia la consapevolezza di come l’asta si sta svolgendo, e fare offerte, se lo ritiene.

Riforma pensioni e reddito di cittadinanza 2022: cosa succederà a settembre dopo le ferie estive

L’agenda politica autunnale è fitta di impegni importanti. Riforma delle pensioni e del reddito di cittadinanza sono al primo posto.

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L’agenda politica autunnale è fitta di impegni importanti. Riforma delle pensioni e del reddito di cittadinanza sono al primo posto.

Il Parlamento è in ferie fino a settembre, ma il dibattito sulle riforme del welfare continua. Alla ripresa dell’attività parlamentare ci si attende un’attività infuocata. I temi spinosi da sciogliere sono tanti e scottanti.

Il più importante riguarda la riforma delle pensioni che dovrà essere attuata in vista della fine di quota 100 al 31 dicembre. Ancora non si è trovata una quadra perché le esigenze di bilancio non consentono più manovre a debito. Poi c’è il reddito di cittadinanza da rivedere, perché così com’è non va affatto bene.

La riforma pensioni

Il nodo della riforma pensioni ruota tutto intorno alla fine di quota 100. In assenza di interventi legislativi, dal primo gennaio 2022 scatterà per i lavoratori uno scalone di 5 anni. Il pensionamento anticipato a 62 anni con 38 di contributi volge infatti al termine.

Quota 41 come soluzione alternativa è stata bocciata perché costa troppo. Al suo posto ci sarebbero due ipotesi, sempre onerose ma meno impegnative per il Tesoro. Una nuova quota 100 (in pensione a 64 anni di età con 36 di contributi) e una forma di pensionamento flessibile. Essa prevede due fasi: l’uscita a 63 anni di età con pagamento della pensione per  la sola parte contributiva a cui si aggiungerebbe la parte retributiva al compimento dei 67 anni.

C’è poi da trovare le risorse per fornire maggiori garanzie ai giovani, o meglio, a coloro che avranno una pensione intermente calcolata con sistema contributivo e che non gode della integrazione al trattamento minimo di pensione.

Per le donne, infine, si sta pensando di estendere opzione donna che prevede il pensionamento anticipato a 58 anni di età con 35 di contributi.

Il reddito di cittadinanza

Altro tema caldo è la riforma del reddito di cittadinanza, la grande riforma del 2019 introdotta insieme a quota 100.Da un punto di vista politico, se viene meno la seconda, anche la prima non potrà rimanere così com’è.Non è ancora chiaro che fine farà, ma una cosa è certa non sarà abolito, ma nemmeno resterà così. Anche qui, come per le pensioni, le esigenze di bilancio impongo una revisione della misura che del resto, così com’è concepita, non convince appieno.Più probabile, invece, che non sia toccata la pensione di cittadinanza che, viceversa, potrebbe prendere rappresentare la nuova forma di pensione di garanzia per i giovani lavoratori.

Ecco come l’INPS vuole aumentare l’assegno delle pensioni per gli operai

L’INPS propone un nuovo sistema di calcolo per aumentare le pensioni agli operai. Vediamo perché e come avverrebbe questa riforma.

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Il presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, vuole trovare il modo per aumentare gli assegni per le pensioni degli operai. Per farlo, propone di agire sul cosiddetto coefficiente di trasformazione, che come vedremo in seguito è un meccanismo studiato per determinare l’importo della pensione sulla base del montante, per la parte relativa al metodo contributivo.

L’idea di Tridico parte da una considerazione: ad oggi, i pensionati più poveri pagano le pensioni a quelli più ricchi. In che senso? Mediamente, chi svolge lavori qualificati e percepisce generalmente redditi e pensioni future più alti, vive 3 anni in più di chi svolge lavori non qualificati e percepisce, quindi, redditi e pensioni future più bassi. La differenza si dimezza a 1,5 anni per le donne. E dall’analisi dei dati, emergerebbe che questo divario tende ad ampliarsi con il tempo.

Con il metodo contributivo, un lavoratore percepirà un assegno determinato dai versamenti accumulati fino alla data del pensionamento. A questo montante viene applicato un coefficiente di trasformazione sulla base dell’età anagrafica e uguale per tutti. Ad esempio, nel 2021-’22 un lavoratore che scelga di andare in pensione a 67 anni riceverà un assegno lordo annuale pari al 5,575% dei contributi accumulati e annualmente rivalutati. Se andasse in pensione a 62 anni, l’assegno lordo annuale scenderebbe al 4,77% di tale montante.

Pensioni INPS differenti tra operai e impiegati?

Questo è il motivo, ad esempio, per cui i beneficiari di quota 100 si vedono decurtato parte dell’assegno. E’ conseguenza del fatto che andranno in pensione con qualche anno di anticipo rispetto all’età ufficiale. Secondo Tridico, alla luce di quanto emerso dai dati sull’aspettativa di vita, sarebbe opportuno correggere tale “stortura” differenziando i coefficienti di trasformazione tra lavoratori non qualificati e qualificati.Ai primi verrebbe concesso, a parità di età e montante, di andare in pensione con un importo più elevato, dato che statisticamente vivrebbero qualche anno in meno.

Il coefficiente di trasformazione, in effetti, è tarato proprio sull’aspettativa di vita. Obiettivamente, risulta difficile immaginare che le pensioni INPS saranno differenziate sulla base della tipologia lavorativa. Forse, una soluzione alternativa più pratica sarebbe di riconoscere per ogni anno di lavoro manuale svolto tot settimane valide per andare in quiescenza con anticipo rispetto all’età ufficiale. Ad ogni modo, il dibattito aperto dall’ente previdenziale si mostra interessante e anche molto pernicioso sul piano politico e sindacale. Restano, tuttavia, le criticità legate all’immediata individuazione dei lavori effettivamente poco qualificati. La distinzione classica del passato tra ruoli manuali e intellettuali è venuta parzialmente meno con la terziarizzazione delle economie.

Debito pubblico alle stelle, ma ecco i numeri che ci fanno ben sperare

Nuovo record per lo stock a maggio, sebbene il costo di emissione continui a scendere, toccando a giugno nuovi minimi storici.

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Il debito pubblico italiano continua a correre e a maggio ha toccato un nuovo record storico di 2.686,8 miliardi di euro. Probabile che entro la fine dell’anno salirà ancora e fino a toccare e finanche superare i 2.700 miliardi. Di fatto, nel biennio 2020-2021 la pandemia ci sarà costata ben 300 miliardi. L’ammontare esatto dello stock a fine dicembre, tuttavia, dipenderà dai primi fondi del Recovery Plan che l’Italia riceverà già da questa estate e attesi nell’ordine dei 25 miliardi, di cui una parte in forma di sovvenzioni, cioè senza obbligo di restituzione. Il loro ottenimento sgraverebbe le emissioni di BTp, cioè frenerebbe la corsa dello stock.

Suddividendo i 2.687 miliardi per il numero degli abitanti, abbiamo che ciascun residente (inclusi i neonati) in Italia porti sulle spalle un debito pubblico di 44.500 euro. Se facciamo ricadere tale montagna solamente sul numero degli occupati pre-Covid, il fardello per ciascun lavoratore dipendente o autonomo, pubblico e privato, s’impenna sui 115.300 euro. Se ci concentrassimo, infine, solamente sui lavoratori del settore privato, si arriva a circa 134.350 euro.

I numeri positivi del debito pubblico

Le cifre non hanno bisogno di alcun commento. Tuttavia, ne esistono di altre ad attenuarne la gravità. Infatti, il Tesoro ci fa sapere che al 30 giugno scorso il costo di emissione del debito pubblico italiano risulti sceso ai minimi storici dello 0,17%. Era allo 0,59% nel 2020. Se restasse sempre così, questa immensa montagna ci costerebbe ogni anno appena circa 4,5 miliardi, cioè 60 miliardi in meno della spesa per interessi dell’anno scorso. Praticamente, oltre 3 punti di PIL risparmiati. Riusciremmo persino a chiudere i conti pubblici in attivo, tornando ai livelli di avanzo primario del 2019.

Altro andamento positivo è l’allungamento tendenziale della durata media del nostro debito pubblico. Siamo saliti a 7,11 anni dai 6,95 anni di fine 2020. Dunque, non solo emettere BTp ci costa di meno, ma oltretutto stiamo allungando le scadenze e abbiamo così minori impellenze nel breve e medio termine. Parte di questi risultati si deve agli acquisti ingenti della BCE di questi anni. Al 30 giugno scorso, l’istituto possedeva debito pubblico tricolore per 421,6 miliardi con il “quantitative easing” e al 31 maggio altri 183 miliardi con il PEPP. In tutto, 605 miliardi, il 22,5% dell’intero stock.

Tra un quinto e un quarto del debito pubblico dell’Italia lo possiede la BCE, sui quali nei fatti l’Italia non paga gli interessi. In effetti, le cedole versate vengono restituite dall’istituto alle banche centrali nazionali, che a loro volta le girano ai governi. E’ come dire che il debito pubblico realmente fruttifero sia meno dell’80% del totale. E la percentuale scenderà ulteriormente con il prosieguo degli acquisti di Francoforte.

Patto di stabilità dal 2023, ma l’Italia dice “no” e la Germania avverte contro il “debito incontrollabile”

Dopo il Covid torneranno in vigore le vecchie regole fiscali? Il dibattito a Bruxelles è appena iniziato e le distanze tra nord e sud sono tante.

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Patto di stabilità dal 2023

Anche l’anno prossimo le regole fiscali del Patto di stabilità saranno sospese per il terzo anno consecutivo, ma a partire dal 2023 dovrebbero tornare in vigore. Lo annuncia la Commissione europea, aprendo un dibattito latente da mesi e che sta coinvolgendo alcuni dei principali rappresentanti dell’Italia. Il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, sostiene che quelle regole siano inadeguate, tant’è che sono state sospese in quanto non avrebbero funzionato durante l’emergenza. Gli fa eco il commissario agli Affari monetari ed ex premier, Paolo Gentiloni. Questi rimarca come compito della Commissione sia di “custodire” il Patto di stabilità, ma avverte anch’egli che serva cambiarlo.

A tale proposito, ricorda come il mondo sia cambiato rispetto a quando tali regoli fiscali furono concepite. Allora, spiega, il tasso medio d’interesse era del 4% e il rapporto debito/PIL al 60%. In un certo senso, il Patto di stabilità fotografava la realtà dei tempi. Ma oggi, continua, i tassi sono a zero e il debito pubblico nell’Eurozona è salito mediamente al 102%. E aggiunge: dopo il 2008, gli investimenti pubblici netti si sono gradualmente azzerati. Se crediamo a quello che diciamo, è necessario che gli stati accompagnino la svolta “green” con investimenti.

Ma dalla Germania arriva una doccia fredda per mezzo del candidato alla cancelleria, Armin Lachet. Il braccio destro di Angela Merkel corre per il centro-destra e, stando ai sondaggi, lotta contro i Verdi per il primato alle prossime elezioni federali. L’attuale governatore del NordReno-Vestfalia ritiene che dopo la pandemia serva “stabilità” e avverte che una politica “del debito incontrollabile” sarebbe insostenibile e una minaccia per la Germania e l’euro.

Germania a difesa del Patto di stabilità

Laschet ha posizioni moderate e molto simili a quelle di Frau Merkel, ma su temi come il debito sente il fiato sul collo dell’ala destra del suo partito e, soprattutto, deve evitare ad ogni modo di regalare consensi alla destra euro-scettica dell’AfD.

Questa insidia il primato della CDU-CSU alle elezioni nell’Alta Sassonia di domenica. Considerato poco carismatico, Laschet non scalda i cuori degli elettori, tant’è che in settimana a un comizio proprio in una cittadina della regione è stato atteso solamente da una donna anziana. E anche l’ex ministro delle Finanze e attuale presidente del Bundestag, Wolfgang Schaeuble, invoca il ritorno alle vecchie regole fiscali e boccia l’ipotesi degli Eurobond, carezzata tra l’altro dal premier Mario Draghi.

Il Patto di stabilità contiene le regole fiscali essenziali per l’Area Euro. Esse puntano a un rapporto debito/PIL negli stati del 60% e a un deficit massimo del 3%. L’Italia quest’anno chiuderà con un indebitamento al 160% e un deficit al 12%. Per quanto dalla stessa Commissione abbiano rassicurato che persino nel 2023 si terrebbe conto delle situazioni specifiche, il rischio di tornare alle note diatribe tra Roma e Bruxelles sui conti pubblici è altissimo, così come anche di ricreare tensioni finanziarie sui mercati. Peraltro, nel 2023 l’Italia avrà un nuovo governo, con ogni probabilità di natura politica e con un vincitore chiaro. Insomma, la luna di miele garantita al momento dalla presenza di Draghi a Palazzo Chigi svanirebbe.

E il ripristino del Patto di stabilità non sarà l’unico serio problema che l’Italia si troverà affrontare nei prossimi anni. La BCE dovrà necessariamente ritirare gli stimoli monetari, tagliando prima e azzerando dopo gli acquisti di bond e successivamente ancora alzando i tassi d’interesse. Rifinanziarsi sui mercati diverrà più costoso e se per allora l’Italia non sarà tornata a crescere robustamente, i mercati la penalizzeranno, chiedendo uno spread più alto per acquistare i suoi titoli del debito. E la lievitazione della spesa per interessi sul PIL sarebbe l’ultima cosa di cui avremmo bisogno per ricostruire l’economia italiana dopo la pandemia.

Il debito pubblico italiano segna l’ennesimo record e lo sapete che ciascun lavoratore paga il 10% dello stipendio per gli interessi?

Boom dello stock ad aprile, con il nuovo massimo storico a oltre 2.680 miliardi. E il problema della sostenibilità si può guardare con gli occhi di chi produce ricchezza.

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Banca d’Italia snocciola gli ultimi dati sul debito pubblico, che nel mese di aprile ha segnato l’ennesimo record in valore assoluto. Lo stock è lievitato a 2.680,5 miliardi di euro, +29,3 miliardi rispetto a marzo. Praticamente, è cresciuto alla media di quasi 1 miliardo al giorno. E se è vero che parte di questa crescita sia dovuta all’accumulo di liquidità da parte del Tesoro (+17,1 miliardi a 101,8 miliardi), d’altra parte già quest’anno siamo a +111,2 miliardi. E non è per niente finita. Stando alle stesse indicazioni arrivate dal governo in sede di Def, il deficit nell’intero 2021 dovrebbe salire all’11,8% del PIL.

Questo significherebbe che l’indebitamento netto dovrebbe lievitare sopra i 200 miliardi. A fine dicembre, quindi, il debito pubblico italiano si attesterà verosimilmente in area 2.775 miliardi. Un conto salatissimo quello che ci lascerebbe in eredità la pandemia, se pensiamo che al 31 dicembre 2019, il debito pubblico fosse ancora “solamente” a 2.410 miliardi. In un paio di anni, risulterà schizzato di oltre 360 miliardi. E gli strascichi si noteranno ancora per qualche anno, per cui non è peregrino prevedere che alla fine il Covid ci sarà costato qualcosa come 500 miliardi.

Debito pubblico sostenibile? I numeri

Grazie alla BCE e al suo estremo accomodamento monetario, il nostro debito pubblico è e resta sostenibile. La spesa per interessi si manterrà anche quest’anno nei pressi dei 65 miliardi. Il tasso implicito scenderà, quindi, in area 2,3-2,4%. All’epoca della prima crisi dello spread – eravamo nel 2011 – si attestava al 4%. Insomma, sembra che siamo ben lontani da un allarme. Eppure, la logica con cui guardiamo alla sostenibilità di un debito andrebbe rivista sulla base di altri parametri.

Un debito è sostenibile se si riesce a pagare senza problemi.

E questo si ha quando coloro che pagano sono tanti e/o producono tanta ricchezza. In Italia, il numero dei lavoratori (privati e pubblici, dipendenti e autonomi) è relativamente scarso. Non arriva neppure al 40% della popolazione residente. Prima della pandemia, si era toccato il record storico dei 23,3 milioni di occupati. Suddividendo il debito pubblico di aprile per questo numero, si ottiene un importo medio sui 115.000 euro. E’ l’onere a carico di chi ogni mattina si alza per recarsi al lavoro. Alto, basso? Beh, pensiamo soltanto che sulla base del PIL pro-capite medio, ammonterebbe a quasi 4 volte (3,86).

In pratica, ciascun lavoratore italiano avrebbe un mutuo sulle spalle quadruplo rispetto al suo reddito. E le cose si complicano se prendiamo in considerazione i soli lavoratori del settore privato. Facciamo una precisazione: i lavoratori pubblici contribuiscono a portare avanti il sistema-Italia, fornendo preziosi servizi come istruzione, sanità, sicurezza, giustizia, Pubblica Amministrazione, etc. Ma i loro stipendi sono pagati attingendo al gettito fiscale generato dal settore privato, senza il quale lo stato non avrebbe risorse per mantenere sé stesso. Ecco, suddividendo lo stock del debito per i 20 milioni di occupati nel privato, otteniamo un importo medio di 134.000 euro, 4,5 volte il PIL pro-capite.

Il prezzo della sostenibilità

Se questi numeri iniziano già a farvi traballare la certezza che il nostro sia un debito pubblico sostenibile, dovete anche tenere conto dell’incidenza della spesa per interessi sui soli redditi dei lavoratori. Tenendo in considerazione tutti i 23,3 milioni di occupati pre-Covid, i 65 miliardi sopra indicati farebbero 2.800 euro a testa, qualcosa come circa il 9,5% del reddito. Se ci limitiamo ai 20 milioni di occupati del settore privato, l’incidenza sale a 3.250 euro all’anno, il 10% del reddito medio. Questo significa che mediamente un dipendente del settore privato o un lavoratore autonomo avrebbe sulle spalle una rata di soli interessi per oltre 270 euro al mese.

Per quanto ci possano sembrare numeri teorici – nella vostra testa starete pensando che si tratti di fuffa allarmistica – la realtà dei fatti è questa.

Nessuno a fine mese ci sollecita formalmente il pagamento di questi citati 270 euro, ma lo stato li preleva, senza farcelo neppure notare, in diverse forme. In primis, facendoci pagare più tasse del dovuto; secondariamente, offrendoci servizi più scadenti o non offrendoceli affatto. Abbiamo presente quando inveiamo contro la “malasanità”, perché per una visita specialistica o una TAC i tempi di attesa sono biblici e magari siamo costretti a rivolgerci al privato, date certe impellenze? Ecco un esempio di costo che rientra nei 270 euro mensili di cui sopra. Il debito pubblico italiano è finanziariamente sostenibile per il semplice motivo che a pagarne il prezzo siamo noi cittadini contribuenti-utenti. Pensiamoci ogni volta che restiamo vittime di un disservizio o che notiamo una busta paga leggera, malgrado i sacrifici per guadagnarcela.

Inps: oltre 561.000 pensioni in pagamento da oltre 40 anni

Per il settore privato le pensioni fino al 1980 sono 423.009 e 67.245 quelle decorrenti nel 1981. Per il pubblico le pensioni decorrenti nel 1980 e negli anni precedenti sono 53.274 e 17.508 quelle risalenti al 1981

 
Pensioni, Sbarra: con fine quota 100, non tornare alla Fornero

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Sono oltre mezzo milione le pensioni risalenti al 1981 e agli anni precedenti se si considerano quelle di vecchiaia, ai superstiti e di invalidità previdenziali, mentre il numero scende a 318.000 se non si considerano le invalidità: è quanto emerge dagli Osservatori Inps sulle pensioni vigenti a inizio 2021.
Per il settore privato le pensioni fino al 1980 sono 423.009 e 67.245 quelle decorrenti nel 1981. Per il pubblico le pensioni decorrenti nel 1980 e negli anni precedenti sono 53.274 e 17.508 quelle risalenti al 1981 quando a guidare l’Unione sovietica c’era ancora Breznev e il presidente del Consiglio italiano era Spadolini.

Privato: età e importi medi

Per il settore privato le pensioni in vigore almeno dal 1980 quando il presidente della Repubblica in Italia era Sandro Pertini hanno un’età media alla decorrenza del pensionato di 41,84 anni per un importo medio di 587 euro. Il dato risente della bassa età media alla decorrenza delle 168.403 pensioni ai superstiti (38,29 anni) e di quella delle 200.972 pensioni di invalidità previdenziale (41,63 anni) mentre per le 53.634 pensioni di vecchiaia l’età media al momento della liquidazione della pensione era d 53,76 anni. Il dato tiene conto del fatto che sono chiaramente rimasti in vita soprattutto coloro che hanno percepito l’assegno a un’età più giovane. Inoltre erano in vigore diverse regole per l’accesso alla pensione con le donne che andavano in pensione di vecchiaia a 55 anni. Per il settore privato l’età media alla decorrenza per le pensioni liquidate nel 2020 era di 67,02 anni con una decorrenza di 64,17 anni per la vecchiaia (categoria che comprende le uscite per pensione anticipata).

Effetto baby pensioni nel pubblico

Per il settore pubblico l’età media alla decorrenza per le pensioni che risalgono almeno al 1980 è di 41,2 anni con l’età media per le 21.104 pensioni di vecchiaia di 44 anni (e un importo medio mensile di 1.525 euro). In quegli anni per le donne dipendenti pubbliche con figli era possibile andare in pensione con 14 anni sei mesi e un giorno di contributi (la cosiddetta baby pensione) e ci sono ancora migliaia di pensioni in vigore grazie a quella norma e alle altre che consentivano il collocamento a riposo con 20-25 anni di lavoro. L’età media alla decorrenza delle pensioni liquidate nel 2020 nel settore pubblico era di 65,8 anni con un’età più bassa per le pensioni di vecchiaia (63,9) categoria che comprende anche l’uscita anticipata. Risalgono almeno al 1980 ancora nel settore pubblico 16.787 pensioni di inabilità (38,2 anni l’età media alla decorrenza) e 15.383 assegni ai superstiti con 40,8 anni alla decorrenza (e un assegno medio mensile di 1.181 euro).

Perché il debito pubblico si ‘sgonfia’ con la crescita e abbiamo perso un’altra grossa occasione

La chiave per ridurre il rapporto debito/PIL è la crescita economica. Ma il governo italiano ha sprecato un’ennesima occasione per mettersi al riparo.

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Quando è in corso un terremoto, il primo e unico pensiero è di mettersi in salvo. Solo quando la terra smette di tremare, si inizia a pensare a rimuovere le macerie. Mutatis mutandis, accade anche con il debito pubblico. In piena emergenza pandemia, i governi non stanno certamente lesinando gli sforzi per sostenere le rispettive economie. La spesa pubblica è ovunque esplosa, mentre le entrate sono collassate dove più e dove meno. Ma questo non significa che il problema non esista e che dopo il Covid non dobbiamo affrontarlo.

L’Italia si accinge ad uscire dalla peggiore crisi sanitaria dell’ultimo secolo con un debito pubblico al 160% del PIL. Nell’Eurozona, la media è salita sopra il 100%. In Francia e Spagna si supera il 120%. Anche solo ignorando le regole contenute nel cosiddetto Patto di stabilità, saremo chiamati a compiere sacrifici per risanare i conti pubblici. Tuttavia, nessuno credibilmente può affermare che la sola austerità fiscale sarà in grado di riportare velocemente gli stati ai livelli di indebitamento pre-Covid.

Debito pubblico e crescita PIL

La chiave per “sgonfiare” il debito pubblico è e resta la crescita economica. Per capirlo, vi proponiamo un esempio. Nel 2020, l’Italia ha emesso circa 150 miliardi di euro di debito, al netto delle scadenze rifinanziate. Esso ha inciso per l’8,9% del PIL. Immaginiamo che tutto questo deficit fosse stato emesso con scadenza media di 30 anni. E ipotizziamo che la crescita economica nominale del PIL italiano da qui a 30 anni sarà mediamente del 3%, di cui 1,5% inflazione e 1,5% crescita reale.Questo significa che il PIL italiano nel 2050 risulterebbe di oltre 4.000 miliardi di euro. I 150 miliardi in scadenza per allora incideranno sul PIL per appena il 3,7%.Rispetto all’8,9% dello scorso anno, sarebbe quasi il -60%. Da questo esempio volutamente sintetico, capiamo due cose: più un’economia cresce e più il debito pubblico si “sgonfia”, ma anche che più lunghe le emissioni e tendenzialmente minore il loro peso alla scadenza.Certo, indebitarsi a 30 anni costa di più di farlo a 10 anni. E’ questa la ragione per cui i governi preferiscono non esagerare con l’allungamento della vita media del debito pubblico. Al 31 marzo scorso, in Italia questa risultava di 7 anni, in lieve aumento dai 6,9 anni del 2020. Siamo generalmente davanti a paesi come la Germania, ma di passi avanti non ne abbiamo compiuti granché nell’ultimo decennio. Anzi, nel 2010 si raggiunse l’apice dei 7,2 anni. Nel 2014, ultimo anno prima del varo del “quantitative easing” della BCE, che iniziò a far crollare decisamente i costi di rifinanziamento del debito pubblico in tutta l’Eurozona, si era scesi a 6,4 anni.

Occasione sprecata per l’Italia

Dunque, in oltre sei anni i governi che si sono succeduti hanno allungato la vita media dei titoli di stato di poco più di mezzo anno. Troppo poco, se consideriamo che l’Italia sia storicamente molto esposta alla volatilità dei mercati finanziari. Come mai questi scarsi progressi? Per quanto detto sopra, allungare la vita al debito pubblico comporta sostenere di anno in anno costi più alti. E i governi italiani negli ultimi anni hanno cercato di massimizzare al massimo dal calo dei tassi per tagliare la spesa per interessi. Pertanto, si sono concentrati sull’oggi più che sul futuro.

E’ un vero peccato. L’allungamento delle scadenze costituirebbe un segnale positivo per i mercati. Se gli investitori sapessero che mediamente arrivi a scadenza solo – per ipotesi – un quindicesimo del debito pubblico all’anno, probabilmente nutrirebbero minori dubbi sulla sua sostenibilità. E parte del maggiore costo derivante dalla longevità dei titoli sarebbe sterilizzato, se non del tutto azzerato, dal calo dello spread. Ma serve una visione lunga e non corta della gestione del debito pubblico.E sappiamo quanto poco durino i governi italiani e quanta scarsa lungimiranza comporta questa eterna instabilità politica a Roma.

Con i tassi in rialzo, possiamo solo recriminare. Un esempio? Lo scorso anno, indebitarsi a 7 anni sarebbe costato mediamente lo 0,76%, a 15 anni l’1,53%. Ma già oggi il decennale supera l’1% e non vi sembra strano che da qui a qualche mese, a causa della reflazione, salga finanche sopra l’1,5%. In sostanza, è vero che avremmo pagato di più le emissioni lunghe, ma del resto rischiamo di pagare altrettanto per quelle corte già dai prossimi mesi. E quanto più debito pubblico riusciamo a rinviare al futuro, tanto minore l’aggravio che subiremo nel breve e medio termine da un rialzo dei tassi di mercato.

Perché il modello cileno per la riforma delle pensioni in Italia sarebbe ottimale e al contempo irreale

Quale riforma delle pensioni per l’Italia? Il modello del Cile di Pinochet può fungere da riferimento solamente ideale.

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Che ne sarà dei lavoratori italiani dopo quota 100? E il governo Draghi metterà mano a una riforma delle pensioni che, preservando la sostenibilità della previdenza, garantisca al contempo maggiore flessibilità in uscita ai lavoratori? E i dipendenti pubblici potranno davvero lasciare il posto ai più giovani a partire dai 62 anni di età, grazie al super-scivolo di 5 anni ipotizzato dal ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta?

Gli interrogativi sulla possibile prossima riforma delle pensioni in Italia si moltiplicano. Il tema è scottante un po’ in tutto l’Occidente. Basti guardare alle imponenti manifestazioni di piazza in Francia. Lì, prima dell’emergenza Covid il presidente Emmanuel Macron dovette rinunciare alla madre di tutte le riforme promesse, a causa della fortissima opposizione delle categorie.

Il modello cileno per la riforma delle pensioni

Eppure, esiste un modello di successo e non si trova né in Europa e né nel Nord America. Parliamo del Cile di Augusto Pinochet. Era il 1981 e l’economista José Pinera, fratello dell’attuale presidente Sebastian, ispirò una riforma delle pensioni dall’esito clamorosamente positivo. Il sistema previdenziale a fine anni Settanta annegava in un mare di debiti. Il suo disavanzo ammontava al 3% del PIL e veniva stimato al 20% del PIL entro il 2000. Fu allora che il governo diede vita al passaggio da un sistema a ripartizione a un sistema a capitalizzazione.

Fino a quel momento, i lavoratori cileni versavano i contributi all’ente previdenziale dello stato. E questo li usava per pagare gli assegni ai pensionati di quel momento. Esattamente quello che accade in Italia e in quasi tutto il mondo. Con la riforma delle pensioni, si diede la libertà ai lavoratori di scegliere se aderire a un fondo previdenziale privato o se restare in quello pubblico.

In ogni caso, i versamenti sarebbero stati investiti per pagare le pensioni future agli iscritti. Un cambio di paradigma estremamente importante: i contributi non servono più per pagare gli assegni ai pensionati del momento, bensì a sé stessi quando si andrà in pensione.

Il 99% dei lavoratori cileni risulta aderire a un fondo privato. E il rendimento medio nei decenni è stato dell’8,3%. Al confronto, le rivalutazioni annue dell’INPS appaiono bazzecole. Ma c’è un però, anzi più di uno: ciascuno percepisce un assegno in linea a quanto versato, così come accade quando ci si iscrive a un fondo privato. Se verso poco, perché ho uno stipendio basso o lavoro in maniera discontinua, rischio di avere una pensione altrettanto bassa. Tuttavia, nel modello cileno lo stato garantisce a tutti i cittadini un assegno minimo. Inoltre, di recente il governo ha chiesto ai datori di compartecipare alla contribuzione con versamenti per il 4% dello stipendio lordo.

La transizione impossibile

Ma il vero problema (insormontabile) è un altro: se i contributi che verso sono investiti per la mia pensione futura, chi paga i pensionati di oggi? In effetti, anche il Cile si trovò ad affrontare questo dilemma. Con la riforma delle pensioni, le casse previdenziali pubbliche si svuotarono e lo stato dovette attingere alla fiscalità generale fino al 7% del PIL per pagare gli assegni. Ancora oggi, il suo impatto viene stimato nell’ordine di qualche punto di PIL fino ad azzerarsi dopo il 2030.

Se l’Italia dovesse adottare il modello cileno, avrebbe due strade davanti a sé: obbligare i lavoratori e le imprese a versare il doppio dei contributi (una volta per pagare le pensioni odierne, un’altra per pagare le pensioni proprie future) o gravare sulla fiscalità generale. In questo secondo caso, bisognerebbe o alzare le tasse o tagliare i servizi o finanziare la misura in deficit o fare un po’ di tutte queste tre cose. Il problema è che non stiamo parlando di qualche punto di PIL.

La spesa per le pensioni assorbe circa il 16% del PIL, per cui sarebbe impossibile anche solo immaginare di battere ciascuna delle suddette strade. E a maggior ragione, con un debito pubblico già al 160% del PIL e una pressione fiscale ai limiti della sopportazione per i contribuenti.

Certo, se fosse possibile importare il modello cileno, non dovremmo più preoccuparci delle dinamiche demografiche. Che nascano pochi bambini o meno, i futuri pensionati si saranno già pagati la pensione da soli. Purtroppo, la riforma delle pensioni necessaria per tendere a questa condizione appare irrealizzabile. Avremmo dovuto pensarci almeno mezzo secolo fa, quando la demografia e i dati macro ci avrebbero consentito di affrontare la transizione.

Riforma Pensioni: opzione donna fino al 2023?

Il CODS (Comitato Opzione Donna Social) ha chiesto una proroga di Opzione Donna fino al 2023.

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Si continua a discutere di Riforma Pensioni 2021 ed è quanto mai necessario riaprire il dialogo tra Governo e sindacati. Tra le novità della Legge di Bilancio 2021, troviamo Opzione Donna.

Non mancano le proposte in tema di pensioni da parte di soggetti esterni alle forze politiche. Il CODS (Comitato Opzione Donna Social) ha chiesto una proroga di Opzione Donna fino al 2023 evitando il rinnovo anno dopo anno della misura pensionistica.

Ricordiamo che questa pensione anticipata rivolta esclusivamente alle donne lavoratrici (dipendenti e autonome) prevede almeno 35 anni di contributi maturati ed il compimento di 58 anni di età (per le dipendenti del settore privato) e 59 anni (per le lavoratrici autonome).

Si applica il meccanismo della finestra mobile per cui l’erogazione della pensione avviene dopo 12 mesi per le lavoratrici dipendenti e 18 mesi per le autonome.

Riforma Pensioni 2021: Opzione Donna fino al 2023, la proposta di Orietta Armiliato

L’amministratrice e fondatrice del CODS, Orietta Armiliato ha più volte proposto le Quota 100 rosa, bonus contributivo di 2 anni per valorizzare il lavoro domestico svolto da tutte le donne.Troppo spesso, soprattutto in tempi di Covid, le donne devono rinunciare alla carriera ritrovandosi ad avere buchi contributivi. Perciò, Armiliato aveva proposto l’uscita anticipata con 36 anni di contributi all’età di 62 anni.Oggi, rivolgendosi al Governo, chiede dignità di pensionamento per le donne attraverso la proroga di Opzione Donna fino al 2023 con un unico provvedimento.

Chiede di evitare l’angosciante misura del ‘di anno in anno’ che non permette alle donne di poter organizzare la propria vita. Ha specificato:

Non è corretto che ad alcune venga data la possibilità di uscire anzitempo, mentre ad altre, solo perché nate un anno dopo, la stessa possibilità venga negata“.

 

Lo sottolinea in un momento in cui il Covid sembra aver riportato indietro le lancette in termini di parità di genere.

Inserire le donne tra i lavori gravosi

Un anno fa, la stessa Orietta Armiliato ha fatto delle considerazioni che ora si trasformano in un’ulteriore proposta: inserire tra i lavori gravosi anche quello svolto dalle donne.

L’amministratrice del CODS l’ha spiegato meglio in un post.

Essere donna è un lavoro gravoso. Oltre a mestieri o professioni fuori casa, le donne svolgono in casa gran parte delle attività riconosciute come gravose/usuranti (addette alla pulizia, infermiere, addette all’asilo nido).

Il lavoro di cura domestico ordinario svolto dalle donne (madri o meno) va riconosciuto e valorizzato.

Debito-Pil, Upb prevede numeri più alti rispetto a scenario Def per triennio 2022-24

L’UPB (Ufficio parlamentare di bilancio) ha “valutato la sensitività del sentiero programmatico del rapporto tra il debito e il PIL presentato nel DEF rispetto a uno scenario basato su ipotesi alternative in materia di tasso d’inflazione e crescita reale che riflettono le previsioni macroeconomiche formulate dall’UPB”. E’ quanto ha detto il Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio Giuseppe Pisauro, ascoltato oggi in audizione dalle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, riunite in seduta congiunta, nell’ambito dell’esame preliminare del Documento di economia e finanza (DEF) 2021.

“Con queste ipotesi – ha sottolineato Pisauro -il livello del rapporto tra il debito e il PIL sarebbe per l’anno in corso sostanzialmente analogo a quello stimato dal DEF, evidenziando quindi un aumento rispetto al 2020. Nel triennio 2022-24, nello scenario UPB la traiettoria del rapporto tra debito e PIL avrebbe un andamento superiore a quello dello scenario DEF, con una differenza che raggiunge quasi 3 punti percentuali in più nel 2024 quando il rapporto tra debito e PIL risulterebbe del155,5 per cento. Le previsioni macroeconomiche UPB, infatti, si caratterizzano per una crescita nominale del prodotto sempre inferiore rispetto a quella indicata nel quadro programmatico del DEF (con differenze comprese tra 1 e 7 decimi di punti l’anno), come risultato di una minore crescita reale in ciascun anno e di una dinamica dei prezzi meno sostenuta (fatta eccezione per il 2024)”.

Da segnalare che dal Def emerge che il nuovo livello del debito pubblico è stimato al 159,8% del PIL nel 2021, per poi diminuire al 156,3% nel 2022, al 155% nel 2023 e al 152,7% nel 2024.

Entrate tributarie e contributive in forte calo nel primo bimestre

Nei primi due mesi del 2021 le entrate tributarie e contributive dello Stato sono scese del 5,9 per cento. Giù anche

Le entrate tributarie e contributive nel periodo gennaio-febbraio 2021 mostrano nel complesso una diminuzione di 7 miliardi di euro (-5,9%) rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente.Lo comunica il Ministero dell’Economia, spiegando che la dinamica osservata è la risultante della variazione negativa delle entrate tributarie (-4,169 miliardi, (-5,8%) e della diminuzione, in termini di cassa, delle entrate contributive (-2,838 miliardi, -6,1%). La variazione negativa delle entrate tributarie, spiega il Mef, è conseguenza sia del peggioramento congiunturale sia dell’impatto delle misure adottate dal Governo per fronteggiare l’emergenza sanitaria.

Entrate tributarie in calo

Il gettito delle entrate tributarie contabilizzate al bilancio dello Stato registra una diminuzione (-2,92 miliardi, -4,1%) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In flessione sia il gettito relativo agli incassi da attività di accertamento e controllo (-578 milioni, -34,9%), sia il gettito relativo alle entrate degli enti territoriali (-42 milioni, -1%).Le poste correttive, che riducono le entrate del bilancio dello Stato, risultano in aumento di 629 milioni rispetto allo stesso periodo del 2020 (15,5%). Il confronto tra il risultato del primo bimestre del 2021 e quello del corrispondente periodo dell’anno precedente, evidenzia il Mef, presenta elementi di disomogeneità. Fattori legati alle misure adottate dal Governo per fronteggiare l’emergenza sanitaria.Nelle quali rientrano sospensioni o riduzioni dei versamenti per diverse tipologie d’imposta e gli effetti del “decreto Agosto”. Esso ha disposto la rateizzazione, fino ad un massimo di 24 rate mensili di pari importo con il versamento della prima rata entro il 16 gennaio 2021, del 50% delle somme dovute che nel corso del 2020 sono state interessate da provvedimenti di sospensione e proroga.

Il primo bimestre 2021

Nei primi due mesi del 2021 le entrate tributarie erariali, accertate in base al criterio della competenza giuridica, ammontano a 67,66 miliardi (-4,1%).Le imposte dirette risultano pari a 42,858 miliardi (-1,2%); le imposte indirette ammontano a 24,802 miliardi (-8,9%). ÙTra le imposte dirette, il gettito Irpef si è attestato a 37,966 miliardi (-1,2%). La componente Irpef da autoliquidazione segna una flessione di 49 milioni (-10%). In diminuzione il gettito delle ritenute Irpef (-407 milioni, -1,1%).L’Ires è stata pari a 464 milioni (-154 milioni, -24,9%). Positivi gli andamenti dell’imposta sostitutiva sui redditi nonché sugli interessi e altri redditi da capitale (+116 milioni, +9,2%) e delle ritenute sugli utili distribuiti dalle persone giuridiche (+78 milioni, +23,7%).Tra le imposte indirette, le entrate Iva ammontano a 15,542 miliardi (-2,4%): 13,615 miliardi (-0,6%) derivano dalla componente relativa agli scambi interni. 1,927 miliardi (-13,4%) dal prelievo sulle importazioni. Il gettito dell’accisa sui prodotti energetici, loro derivati e prodotti analoghi (oli minerali), pari a 2,415 miliardi, registra una riduzione di 752 milioni (-23,7%).Le entrate di lotto e lotterie ammontano a 1,592 miliardi registrano una flessione pari a 886 milioni (-35,8%) a causa della diminuzione del Preu per l’annullamento degli acconti dovuti sul primo bimestre.

Accertamento e controllo

Nel periodo gennaio-febbraio il gettito delle entrate tributarie relativo agli incassi da attività di accertamento e controllo è pari a 1,077 miliardi e registra una variazione negativa del 34,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In flessione sia la componente relativa alle imposte dirette (-269 milioni, -36,5%) sia la componente relativa alle imposte indirette (-309 milioni, -33,7%). La riduzione è legata agli interventi normativi del Decreto Sostegni con cui è stata ulteriormente prorogata al 30 aprile la sospensione dei termini di versamento di tutte le entrate derivanti da cartelle di pagamento e avvisi di accertamento e la sospensione delle attività di notifica di nuove cartelle e degli altri atti di riscossione.

Gli enti territoriali

Le entrate tributarie degli enti territoriali nel primo bimestre del 2021 ammontano a 4,018 miliardi e registrano una flessione dell’1% rispetto al corrispondente mese dell’anno precedente. La riduzione del gettito Irap è pari a 96 milioni (-4,1%).Le poste correttive nei primi due mesi del 2021 sono pari a 4,687 miliardi risultando in aumento rispetto al corrispondente periodo dell’anno scorso (+15,5%).In crescita le compensazioni per le imposte dirette (+509 milioni, +37,1%) e le compensazioni riferite agli enti territoriali (+12 milioni, +21,8%).

Stabili le compensazioni per le imposte indirette (-1 milione, -0,1%). Le vincite registrano una variazione positiva (+109 milioni, +10%).

Entrate tributarie dello Stato

Le entrate tributarie del bilancio dello Stato incassate nel periodo ammontano a 65,817 miliardi, in flessione del 2,5% rispetto allo stesso periodo del 2020. In diminuzione le imposte dirette (-914 milioni, -2,2%) e le imposte indirette (-747 milioni, -2,9%).Tra queste ultime si evidenzia la variazione positiva del gettito dell’Iva (+1,280 miliardi, +7,8%) sul quale incide il versamento in conto residui, registrato nel mese di gennaio, pari a 2,273 miliardi relativamente al comparto degli scambi interni.Al netto di tale versamento le imposte indirette registrano una diminuzione di 2,980 miliardi (-11,37%) e il gettito Iva una flessione di 993 milioni (-6%).

I contributi

Gli incassi contributivi nei primi due mesi del 2021 sono risultati pari a 43,872 miliardi, in diminuzione del 6,1% rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente. Nell’analisi di questo risultato si deve, necessariamente, tenere conto delle disomogeneità esistenti nei dati dei bimestri in esame.n particolare, va osservato che nel mese di febbraio 2020 non si era ancora manifestata l’emergenza epidemiologica, che, a partire dal mese di marzo, avrebbe originato un repentino peggioramento del quadro economico congiunturale.Inoltre, il dato registrato nel mese di febbraio 2021 risente degli effetti delle misure introdotte dal Governo nel corso del 2020. Allo scopo di attenuare gli effetti negativi sui lavoratori e sulle aziende della crisi economica innescata dalla pandemia.Le entrate contributive dell’Inps ammontano a 39,728 miliardi, in calo del 5,9%. Tale riduzione è da ricondursi, essenzialmente, all’andamento negativo delle entrate contributive del settore privato (-8,1%). In conseguenza sia degli effetti di trascinamento della contrazione economica registrata nel 2020 sia delle misure introdotte per il sostegno di lavoratori e imprese.Gli incassi relativi alle gestioni dei lavoratori dipendenti pubblici risultano, invece, in crescita dell’1,4% rispetto al 2020.I premi assicurativi dell’Inail ammontano a 2,947 miliardi, in diminuzione del 10,5% rispetto al corrispondente periodo del 2020. Le entrate contributive degli enti previdenziali privatizzati risultano pari a 1,197 miliardi, in riduzione dell’1% rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente.

Def e sostenibilità debito, Draghi: ‘la questione è se a essere sostenibile sia la piuttosto la crescita’

Riguardo alla sostenibilità del debito pubblico italiano o meno, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha risposto così a una domanda postagli nella conferenza stampa, successiva alla presentazione delle decisioni che sono state prese dal Governo in merito alle riaperture post lockdown:“La domanda che ci si pone oggi è sulla crescita – ha fatto notare Draghi – Ovvero ‘ce la farà questo paese a crescere in modo tale da poter ripagare tutto il debito che sta facendo oggi?’ E’ questa la grandezza, quella della crescita sostenibile, a cui i mercati, e non solo i mercati, guardano oggi”.Draghi ha dunque puntato l’accento sulla necessità che sia soprattutto la crescita a essere sostenibile.

 

Def, Draghi: ‘debito buono è se società fa riforme tali da poter volare con proprie ali, debito cattivo è fatto di sussidi senza piano industriale’

La differenza tra il debito buono e il debito cattivo? “Il debito buono è quando si danno risorse a una società, in modo che questa riesca a fare riforme tali da diventare autonoma, e iniziare a volare con le proprie ali. Il debito cattivo è fatto di quei sussidi che vengono erogati senza che ci sia un piano industriale”. E’ quanto ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi, nella conferenza stampa dedicata alle decisioni prese dal governo sulle riaperture e sui numeri del Def, dopo che il CdM ha dato l’ok allo scostamento di bilancio da 40 miliardi.

 

Def: deficit-Pil +11,8% in 2021 con misure sostegno e caduta Pil. Sotto il 3% non prima del 2025

“Considerando la nuova richiesta di autorizzazione all’indebitamento approvata e quanto già autorizzato in precedenza, il nuovo livello di indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche è stimato all’11,8% nel 2021, un livello elevato dovuto alle misure di sostegno all’economia e alla caduta del PIL. Il rapporto deficit/PIL scenderà al 5,9% nel 2022, al 4,3% nel 2023 e al 3,4% nel 2024. Nel 2025 il rapporto tornerà sotto il 3%”. E’ quando emerge dal Def, che è stato approvato dal Consiglio dei ministri nella giornata di ieri.

 

Def: debito-Pil +159,8% in 2021. Franco: ‘ma sua riduzione rimane bussola politica governo’

“Il nuovo livello del debito pubblico è stimato al 159,8% del PIL nel 2021, per poi diminuire al 156,3% nel 2022, al 155% nel 2023 e al 152,7% nel 2024”. E’ quando emerge dal Def, che è stato approvato dal Consiglio dei ministri nella giornata di ieri. Occhio a quanto ha scritto il ministro dell’economia Daniele Franco, nella premessa del Documento di economia e finanza (Def).“Sebbene il Governo condivida l’opinione che le regole fiscali europee debbano essere riviste allo scopo di promuovere maggiormente la crescita e la spesa per investimenti pubblici, la riduzione del rapporto debito/Pil rimarrà la bussola della politica finanziaria del Governo”.

 

Inps: erogata l’indennità una tantum di 2.400 euro, a breve attiva la procedura per i nuovi percettori

L’Inps ha già liquidato l’indennità una tantum di 2.400 euro a tutti i lavoratori che ne avevano diritto, per un totale di 235.509 bonus e un importo complessivo di oltre 565 milioni di euro. Per coloro che hanno il bonifico domiciliato in Posta, in conseguenza del limite che la legge impone agli importi in contanti, la somma sarà corrisposta in tre tranches da 800 euro.Nei prossimi giorni, inoltre, sarà resa operativa sul portale dell’Inps la procedura per la domanda da parte dei lavoratori che devono presentarla per la prima volta. Si ricorda che i beneficiari sono appartenenti alle seguenti categorie: lavoratori stagionali, a tempo determinato e in somministrazione dei settori del turismo e degli stabilimenti termali, lavoratori dipendenti stagionali e somministrati dei settori diversi dal turismo, lavoratori intermittenti, autonomi occasionali, lavoratori incaricati alle vendite a domicilio, lavoratori dello spettacolo.

 

Abbiamo perso un milione di posti di lavoro, e c’è il blocco dei licenziamenti. A seguire la sinistra e Speranza si va verso la guerra civile

 

Un milione di posti di lavoro persi in un anno secondo quanto detto dall’Istat, e simo ancor sotto blocco dei licenziamenti.Il quadro è semplice: a febbraio 2021 gli occupati erano 22.197.000, ovvero 945.000 in meno rispetto a febbraio dello scorso anno. “Le ripetute flessioni congiunturali dell’occupazione – registrate dall’inizio dell’emergenza sanitaria fino a gennaio 2021 – hanno determinato un crollo dell’occupazione rispetto a febbraio 2020 (-4,1% pari a -945mila unità).  La diminuzione coinvolge uomini e donne, dipendenti (-590mila) e autonomi (-355mila) e tutte le classi d’età”. Il tasso di occupazione scende, in un anno, di 2,2 punti percentuali, toccando il 56,5%.Un disastro generalizzato. chiudere i servizi turistici, la ristorazione, i servizi personali ha portato alla demolizione d’interi settori produttivi. Abbiamo anche una crescita degli inattivi, + 5,4%, gente che non cerca lavoro perchè non sa dove ottenerlo. La sfiducia sta vincendo, in mezzo ad una pubblica amministrazione e forze dell’ordine interessati solo al lockdown e non al suo superamento. Nicola Porro ha messo in luce come, nel giorno di Pasqua ci siano stati più controlli che vaccini, fatto completamente insensato se veramente il ministero della Sanità e quello dell’Interno vogliono superare l’emergenza e non utilizzarla per altri fini.Abbiamo distrutto un milione di posti di lavoro, ed ancora c’è il blocco dei licenziamenti. Non solo, abbiamo distrutto miliardi d’investimenti privati, perché gli imprenditori che hanno chiuso hanno visto azzerato il proprio capitale. Il tutto mentre la Svizzera ha riaperto quasi tutto in piena libertà e vede un’incidenza di morti molto inferiore alla nostra. Ora possiamo anche capire che il ministro Speranza non abbia nessuna conoscenza delle  basi dell’economia, e probabilmente nessun rispetto per la proprietà privata altri, ma proseguire sulla strada del lockdown indeterminato, senza una data precisa per tornare alla vita normale, significa far esplodere il substrato sociale del paese e condurla al caos. Qualcuno lo capisce ?

Tridico (Inps): “Occorre rendere il sistema pensionistico flessibile in uscita”

“Occorre rendere il sistema pensionistico flessibile in uscita, in base ai lavori svolti. Tanto più gravoso è il lavoro svolto, tanto prima il lavoratore dovrebbe uscire dal mercato del lavoro”. Così il presidente dell’Inps Pasquale Tridico in occasione della conferenza “Wake up Italia” organizzata dall’Università di Verona.
“L’INPS e il Paese hanno messo la sostenibilità pensionistica a posto con la riforma Dini e con la riforma Fornero. Questo garantisce una sostenibilità finanziaria, poi c’è l’efficienza sociale da tenere a mente”. Ecco perchè bisognerebbe pensare ad una “pensione di garanzia e alla copertura figurativa per i giovani”. Questi due interventi dovrebbero “sostenere il sistema pensionistico”. Il numero uno dell’Istituto nazionale di previdenza sociale infine loda il reddito di cittadinanza, la misura targata M5S, senza cui “in pandemia avremmo avuto un caos sociale.

 

Non si parla più di debito pubblico e questo è un pessimo segnale per l’Italia

Lo stock ha sfondato la soglia dei 2.600 miliardi di euro ed è destinato a salire vertiginosamente anche quest’anno.

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Secondo gli ultimi dati forniti dalla Banca d’Italia, il debito pubblico a gennaio è salito di 33,9 miliardi di euro al nuovo record di 2.603,1 miliardi. Questo, dopo che nel 2021 era aumentato di 159,3 miliardi, accelerando nettamente la sua corsa a causa delle dure conseguenze impartite dalla pandemia all’economia italiana. Per quest’anno, stando al Fondo Monetario Internazionale, il deficit fiscale del nostro Paese scenderebbe al 7,5% del PIL. Un miglioramento dal 10,9% stimato per lo scorso anno, ma che porterebbe lo stock del debito a fine 2021 nei pressi dei 2.700 miliardi.

Il boom provocato dalla più grave crisi dal Secondo Dopoguerra è eccezionale per le sue dimensioni, ma nel nostro caso segue un deterioramento dei conti pubblici che inizia sin dagli anni Settanta e che praticamente non si è interrotto, salvo brevi periodi, fino a poco prima del Covid. All’appuntamento con la crisi sanitaria globale ci siamo presentati già con un rapporto debito/PIL del 135%, malgrado decenni di austerità fiscale che eppure hanno esitato buoni risultati sul fronte dei saldi primari. Il problema è che senza crescita economica, il rischio sovrano viene scontato ugualmente su livelli relativamente elevati, ripercuotendosi negativamente sul costo delle emissioni del Tesoro e, quindi, sul disavanzo finale dello stato.Ma in questi mesi di esplosione del debito non abbiamo avvertito alcun timore. Ad un tratto, sembra che le preoccupazioni dei governi europei per la stabilità dei bilanci siano svanite del tutto, quasi come se nei decenni precedenti ci fossimo sbagliati a cercare di tenere i conti pubblici in equilibrio e a perseguire obiettivi fiscali tesi al risanamento. In realtà, ciò risulta possibile grazie alla BCE, che avendo azzerato i tassi da una parte e accentuato gli acquisti di bond dall’altro con il PEPP, sta da un anno a questa parte monetizzando i nuovi debiti dei governi.Nella pratica, acquista sul mercato titoli di stato in quantità pari o superiore a quelli che vengono emessi. In questo modo, la domanda complessiva cresce e i governi possono permettersi di indebitarsi senza gravare sui conti.

La BCE ha fatto il miracolo: i contribuenti italiani risparmieranno altri miliardi sul debito pubblico

Politica ubriaca di deficit spending

Questo scenario, tuttavia, prima o poi finirà. E la tempistica la determinerà la velocità con cui l’inflazione risalirà verso il target nell’Eurozona. Non a caso, appena i prezzi al consumo sono tornati a crescere a gennaio, i rendimenti sovrani nell’area si sono impennati, pur restando bassissimi, scontando tra l’altro anche una stretta monetaria più vicina di quanto previsto sino ad allora. Nessuno in Europa parla ancora di risanamento fiscale, anzi lo stesso vice-presidente della Commissione, Valdis Dombrovskis, nelle scorse settimane ha voluto rassicurare che il Patto di stabilità resta sospeso anche per il 2022. E ci mancherebbe, essendo ancora in lotta contro la pandemia.

In Italia, però, siamo andati un po’ oltre. Sarà che stiamo ubriacandoci del Recovery Fund – perlopiù erogazioni di prestiti da restituire negli anni futuri – sarà anche che dopo anni nei quali abbiamo dovuto stringere la cinghia vorremmo approfittare di questa parentesi di ossigeno, ma a Roma la politica si comporta come se i vincoli di bilancio non esistessero più definitivamente. Da settimane si discute di allentare le maglie del sistema previdenziale per i dipendenti pubblici, consentendo loro di andare in pensione fino a 5 anni prima dei 67. Nel frattempo, il reddito di cittadinanza è stato confermato dal governo Draghi e i contratti pubblici sono stati rinnovati con aumenti mensili medi di 107 euro.

Ci comportiamo come se fossimo in pieno boom economico, invece, il boom riguarda solo il debito e l’economia continua a collassare. Per la prima volta negli ultimi 30 anni, l’ingresso di un premier “tecnico” a Palazzo Chigi non solo non ha coinciso con una fase di inasprimento fiscale, anzi è stata la premessa per avviare politiche di spesa concordate ampiamente in Parlamento, attingendo perlopiù ai fondi che ci arriveranno dall’Europa e che, se mal gestiti, rischiano di seppellire le nostre possibilità di rilancio dopo la pandemia.La figura di Mario Draghi serve grosso modo ad evitare che ciò accada. Ma i numeri sono numeri. Alla fine di quest’anno, avremo un debito pubblico di quasi 1.000 miliardi più alto del PIL. La spesa per interessi non preoccupa, almeno fino a quando ci penserà la BCE a tenere a bada i rendimenti. Ma nessuno sta avendo il coraggio di proiettarsi con lo sguardo a dopo la “guerra”. E questo è un grosso problema per il nostro futuro.

Il debito pubblico italiano corre e senza la BCE sarà più difficile rifinanziarlo

giuseppe.timpone@investireoggi.it  

Lavoro: assunzioni -31% nel 2020, ad aprile crollo dell’83%. Meno licenziamenti grazie al blocco

Le assunzioni attivate dai datori di lavoro privati nel corso del 2020 sono state poco più di 5 milioni, evidenziando una forte contrazione rispetto al 2019 (-31%) determinata dagli effetti dell’emergenza legata alla pandemia da Covid-19. La contrazione è stata particolarmente negativa nel mese di aprile, con un -83%, per poi attenuarsi progressivamente in corrispondenza dell’allentamento delle misure restrittive nei mesi estivi scendendo sotto il 20% fino ad ottobre, per poi risalire contestualmente alla terza ondata della pandemia che ha richiesto l’adozione di nuove misure restrittive, tanto che a novembre si è registrata una flessione del 25% e a dicembre (per quanto si tratti di dato provvisorio) del 42%.

 

Diminuiscono anche le cessazioni nel corso del 2020, che rispetto all’anno precedente sono state -20%. L’Inps, nel suo rapporto sul precariato, sottolinea come questo andamento sia l’effetto del divieto di licenziamento per ragioni economiche. Questo blocco è stato ancora riconfermato con l’ultimo decreto Agosto, pur con la previsione di eccezioni (in particolare viene consentito il licenziamento in caso di cessazione dell’azienda). Allo stato attuale ulteriori proroghe ne hanno rinviato lo sblocco al 30 giugno 2021.

Inps su reddito e pensione di Cittadinanza: oltre 1 mln i nuclei familiari beneficiari, pari a 2,3 mln di persone

Oltre 1 milione di nuclei familiari ha beneficiato nel mese di febbraio del reddito di cittadinanza o della pensione di Cittadinanza, con 2,3 milioni di persone coinvolte e un importo medio a nucleo pari a 564 euro. Lo rende noto l’Inps che ha presentato l’osservatorio reddito e pensione di cittadinanza, spiegando che la diminuzione del numero dei nuclei rispetto al mese precedente risente dell’aggiornamento della dichiarazione sostitutiva unica (DSU), indispensabile per poter proseguire con l’erogazione del beneficio, che può essere stata presentata in ritardo o aver provocato la decadenza del beneficio. Una analogaflessione, spiega ancora l’istituto, era stata registrata anche lo scorso anno, nello stesso periodo, influenzata appunto dai termini di presentazione delle nuove dichiarazioni.La provincia che in assoluto a febbraio ha avuto più nuclei beneficiari (143mila, pari al 14% del totale, con un importo medio a nucleo di 655 euro) è stata Napoli, a seguire Roma (68mila, pari al 7% del totale e un importo medio di 538 euro) e Palermo (63mila, pari al 6% del totale e un importo medio di 656 euro).

 

Inps: calano del 30% le assunzioni private nei primi 11 mesi del 2020

 

Nel corso degli undici mesi del 2020 le assunzioni attivate dai datori di lavoro privati sono state 4.755.000 (-30% sullo stesso periodo del 2019) anche per gli effetti legati all’emergenza da Covid-19. Il calo ha riguardato soprattutto i contratti a termine.
Così rivela l’Inps nel consueto Osservatorio sul precariato secondo cui le cessazioni negli 11 mesi sono state 5.051.000 (-20%) e la variazione netta negli 11 mesi è stata negativa per 295.696 posti di lavoro. Il saldo annualizzato dei rapporti di lavoro a novembre 2020, ovvero la differenza tra quelli registrati nel mese rispetto a quelli di novembre 2019 è negativo per 664.000 unità.

 

La devastante e lunga stagnazione dell’Italia: così abbiamo perso oltre 4.000 euro a testa dal 2000

Economia italiana in condizioni pessime già prima del Covid. I dati non lasciano scampo: abbiamo perso terreno contro il resto dell’Eurozona.

L’Italia ha perso l’8,8 punti percentuali di PIL nel 2020, devastata dalla pandemia. L’economia nell’Eurozona è andata mediamente meno peggio, contenendo le perdite al 6,8%. Continuiamo, quindi, ad arretrare nel confronto con il resto dell’unione monetaria. E già prima del Covid avevamo perso parecchio terreno, specie nell’ultimo decennio. Dal 2000 al 2019, cioè nei primi 20 anni del nuovo millennio, l’Italia è cresciuta complessivamente solo del 7,9%, alla media di neppure lo 0,4% all’anno. Una stagnazione pressoché totale, che si confronta con una crescita cumulata dell’Eurozona del 30,4%, pari alla media annua dell’1,34%.Se, poi, teniamo conto del dato riferito al 2020, il PIL italiano da inizio 2000 risulta contrattosi dell’1,6% in termini reali, mentre quello dell’Eurozona è salito del 21,5%. A questo punto servirà agganciare la ripresa il prima possibile. Purtroppo, l’esperienza dell’ultima crisi non depone a favore di una visione ottimistica. Se l’Eurozona nel suo complesso aveva recuperato le perdite nel corso del 2015, l’Italia si presentava alla fine del 2019 con un livello del PIL inferiore del 4% a quello del 2007.La estrema lentezza con cui siamo cresciuti dopo la recessione globale di ormai 12-13 anni fa ha avuto conseguenze deleterie per la nostra economia. A fine 2019, il PIL pro-capite nel nostro Paese risultava di 29.660 euro, ben al di sotto dei 34.820 euro in media nell’area. A questo punto, immagiamo di essere cresciuti dal 2000 a prima della pandemia agli stessi ritmi dell’Eurozona. Quale sarebbe stata la nostra situazione? Il PIL pro-capite italiano sarebbe risultato prima della pandemia di poco inferiore ai 34.000 euro, incidendo per circa l’82% di quello tedesco, oltre il 94% di quello francese e il 97,5% della media Euro. Invece, ci ritroviamo con una percentuale del 71,5% rispetto alla Germania, dell’82,5% rispetto alla Francia e dell’85,2% rispetto all’Eurozona.

L’economia italiana non è in crisi, ma in depressione: fermi da 20 anni e industria KO

Più entrate e meno debito pubblico

In valore assoluto, avremmo 4.280 euro in più ogni anno a testa. Non esattamente noccioline. Altro aspetto, il debito pubblico. Se avessimo accumulato lo stesso stock nel corso dei primi 20 anni, prima della pandemia avremmo avuto un rapporto debito/PIL del 117%. Tuttavia, questo dato ci sembra poco indicativo della reale condizione fiscale in cui si sarebbe ritrovata l’Italia con una crescita media annua dell’1% più alta. In effetti, un PIL più alto avrebbe comportato maggiori entrate fiscali e minori spese per assistenza, dato che verosimilmente avremmo avuto più occupati e con redditi più alti. I rendimenti dei BTp sarebbero stati minori nel corso dell’ultimo decennio, in quanto gli investitori avrebbero percepito il nostro debito più sostenibile e i rating sarebbero stati migliori. Quindi, avremmo risparmiato anche sulla spesa per interessi. Per non parlare anche del fattore inflazione. Il tasso medio dell’1,8% si confronta con il 2,2% dell’Eurozona, riflettendo proprio la scarsa dinamica dei consumi e degli investimenti domestici.Un’inflazione ai livelli medi dell’area avrebbe abbassato ulteriormente il rapporto debito/PIL a poco più del 100%. E sempre escludendo il miglioramento dei conti pubblici per effetto delle più alte entrate fiscali e delle presumibili minori spese dello stato. Insomma, saremmo nelle condizioni più o meno della Francia. Non benissimo, ma molto meglio dell’incubo in cui siamo piombati da anni. Probabilmente, non avremmo conosciuto alcuna crisi dello spread o questa semmai sarebbe durata poco. Invece, siamo finiti in un tunnel caratterizzato dal circolo vizioso tra alto debito, alti rendimenti, bassa crescita e austerità fiscale. O riusciamo a svoltare dopo la pandemia o rischiamo di concludere questo decennio con un PIL reale inferiore ai livelli del 2007, cioè avremo trascorso più di un ventennio senza crescita e un trentennio in assoluta stagnazione.

La BCE ha fatto il miracolo: i contribuenti italiani risparmieranno altri miliardi sul debito pubblico

Spettro del debito per l’Italia, Mazziero: ‘oggi la sua sostenibilità non in discussione grazie ad acquisti Bce, ma post-pandemia…”

“Siamo nei cento giorni di luna di miele del Governo Draghi, quello dove quasi tutto è permesso e lasciato fare dai partiti. Poi, pur con la grande maggioranza a sostegno, non tarderanno ad arrivare i distinguo, i protagonismi, le dichiarazioni per mantenere vivo il consenso degli elettori. Le aspettative nei confronti di questo Governo sono estremamente elevate, ma soprattutto ciascuno ha visto in Mario Draghi quello che voleva vedere e quindi il Presidente del Consiglio ha pochissimo tempo per calare nel concreto dei provvedimenti che diano un beneficio reale”. Così inizia l’incipit del 41° Osservatorio trimestrale sui dati economici italiani elaborato dalla Mazziero Research, secondo cui “non vi sono dubbi che la squadra di Governo riuscirà a mettere a punto un Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) idoneo a ricevere i 209 miliardi del Next Generation EU, ma poi emergeranno le criticità dell’applicazione pratica: le pastoie burocratiche, le proteste locali per le grandi opere, i gruppi di interesse poco inclini a cedere privilegi e soprattutto il rispetto dei tempi”.

 

Il ritorno dello spettro del debito pubblico

 

Evoluzione debito pubblico e stime a giugno 2021 (Elaborazione su dati Banca d’Italia e stime Mazziero Research)

Cosa ne sarà di questi progetti se a un certo punto la politica vorrà riprendere in mano il timone e darà un ben servito a Draghi? Secondo la Mazziero Research “Probabilmente opere incompiute, riforme abbozzate, tante pagine scritte sui documenti di programmazione senza applicazione e tanto, tantissimo debito. E proprio il debito, ora passato in secondo piano, tornerà alla ribalta una volta rientrata la pandemia”. Dopo un piccolo calo di fine anno ora il debito riparte al rialzo. A dicembre il debito, pari a 2.569 miliardi, è infatti diminuito di 17 miliardi rispetto al mese precedente; un calo che si presenta ogni anno e che contribuisce a migliorare i dati statistici a consuntivo come debito/PIL e deficit/PIL. Tuttavia, nel 2020 la diminuzione è stata molto inferiore rispetto agli anni precedenti, confermando la condizione di stress dei conti pubblici negli ultimi 12 mesi. La Mazziero Research stima una forte ripartenza del debito già da gennaio 2021, con una progressione che potrebbe portare vicino alla soglia dei 2.650 miliardi entro il primo semestre dell’anno. “Al momento non vi sono problemi per la sostenibilità del debito, grazie al programma acquisti dei titoli di Stato e ai bassi rendimenti, tuttavia i problemi potrebbero emergere una volta terminata la pandemia con il ripristino del Patto di Stabilità europeo”.

 

Calo debito tra novembre e dicembre di ciascun anno (Elaborazione su dati Banca d’Italia)

Previsto un forte cambio di rotta del Pil nel 2021

 

Stime di evoluzione trimestrale del PIL e variazione annuale (Elaborazione Mazziero Research su modelli proprietari)

Le stime preliminari Istat hanno confermato perfettamente le previsioni della Mazziero Research per un PIL al 4° trimestre 2020 di -2,0% e annuale al -8,8%. La società di ricerca spiega che “si tratta ovviamente di una prima rilevazione che andrà confermata. Per il 2021 stimiamo una ripresa, dapprima lieve (+0,3% nel 1° trimestre) e poi in accelerazione nel 2° e 3° trimestre (+1,8% e +2,4% rispettivamente) a cui seguirebbe una momentanea contrazione nel 4° trimestre (-2,1%). Il risultato annuale si collocherebbe intorno al +4,7%, al di sopra delle stime più diffuse. Il PIL riuscirebbe così a superare nel 3° trimestre i livelli pre-pandemia, a cui seguirebbe un arretramento al di sotto di tale soglia nel 4° trimestre. Verranno così momentaneamente superati i livelli pre-pandemia, ma si terminerà l’anno leggermente al di sotto”.

 

PIL italiano dal 2008 e stime sino a fine 2021 (Elaborazione Mazziero Research su dati Istat)

Pensioni a rischio senza un taglio netto alla previdenza

Il sistema previdenziale è in forte disequilibrio finanziario. La spesa assistenziale mette a rischio la tenuta delle pensioni.

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Il sistema previdenziale è in forte disequilibrio finanziario. La spesa assistenziale mette a rischio la tenuta delle pensioni.

Per mantenere in equilibrio la spesa per le pensioni, servono circa 80 miliardi in tre anni. Sono questi, in sintesi, i numeri che saltano fuori dall’analisi di Alberto Brambilla, fondatore di Itinerari Previdenziali.

L’ottavo rapporto su “Il Bilancio del Sistema Previdenziale italiano – andamenti finanziari e demografici delle pensioni e dell’assistenza per l’anno 2019” fornisce una visione d’insieme del complesso bilancio del sistema previdenziale italiano relativo all’anno 2019.

Pensioni, aumenta il disavanzo pubblico

Sostanzialmente il rapporto di Itinerari Previdenziali evidenzia che in un anno i pensionati in Italia sono aumentati di 100 mila unità. Per un totale di 16,135 milioni di persone. A livello finanziario, il rapporto fra spesa previdenziale ed entrate contributive sta però peggiorando. Rispetto al 2019 il disavanzo delle casse di previdenza è cresciuto di oltre 12 miliardi di euro per un totale di 33 miliardi.

Colpa soprattutto della pandemia che ha messo in ginocchio l’economia e quindi ha fatto venir meno anche il gettito contributivo verso le casse previdenziali. Ma il problema era già presente anche prima, visto che il disavanzo pubblico ammontava a 20,8 miliardi nel 2019. Un problema che Brambilla ha fatto presente ai parlamentari di Montecitorio alla vigilia del discorso di insediamento del nuovo governo Draghi.

Pensioni e pandemia

L’arrivo della pandemia ha messo sotto pressione un sistema pensionistico già in precario equilibrio. Tre anni fa, con l’arrivo di quota 100, la spesa per pensioni aveva superato i 230 miliardi di euro all’anno. Circa 9 miliardi in più, secondo le previsioni del governo. Una spesa che però, grazie alla ripresa del mercato del lavoro era sostenibile.

Oggi non lo è più. Anzi, il numero di occupati per pensionato, che era tornato vicino al rapporto di 1,5, oggi è scivolato verso il basso e non consente quell’equilibrio teorico di spesa per le pensioni fra entrate e uscite.

La pandemia ha stravolto ogni cosa mettendo in allarme la tenuta dei conti dell’Inps che, peraltro, ha evidenziato un buco da 16 miliardi a causa del ricorso massiccio agli ammortizzatori sociali e ai bonus a pioggia.

Sicché, il disavanzo pubblico difficilmente potrà tornare sostenibile in assenza di interventi sulla spesa per le pensioni. Anche perché il debito pubblico italiano ha raggiunto livelli elevati e il rapporto deficit/Pil nazionale non consente molti margini di manovra. Nemmeno con i trasferimenti dallo Stato, peraltro già cospicui dal 2013.

La spesa assistenziale

La domanda a questo punto è: le pensioni sono a rischio? La risposta che Itinerari Previdenziali dà è “sì”, anche se la causa del deficit nei conti dell’Inps è dovuta principalmente alla spesa per assistenza.

Dal 2008 l’incremento è stato di oltre 41 miliardi, con un tasso di crescita annuo oltre il 4% e di 3 volte superiore all’incremento della spesa per le pensioni. Complessivamente fino al 2019 l’Inps ha pagato per le prestazioni sociali 488 miliardi di euro, più del 56% dell’intera spesa dello Stato.

Una percentuale elevatissima se si pensa che l’Italia è balzata ai vertici delle classifiche mondiali nella spesa per il welfare. Secondo Brambilla, si conferma il tallone d’Achille del sistemka welfare italiano.

È quasi assurdo pensare che in un Paese del G7 come l’Italia – ha affermato – quasi il 50% di pensionati non sia stata in grado di versare neppure 15/17 anni di contributi regolari e debba quindi essere assistita dallo Stato. E’ importante che la politica rifletta su questi numeri. Innanzitutto, perché non sembrano rispecchiare le reali condizioni socio-economiche del Paese. E, in secondo luogo, perché non va dimenticato che, a differenza delle pensioni finanziate da imposte e contributi, queste prestazioni gravano per 25,77 miliardi sulla fiscalità generale e non sono neppure soggette a imposizione fiscale”.

La via spagnola al Recovery Fund: riforma delle pensioni con previdenza integrativa aperta a tutti

Il governo di Madrid imita il modello britannico con qualche aggiustamento. E anche l’Italia dovrà fare i conti con una simile esigenza

La riforma delle pensioni in Spagna

Anche la Spagna ha il suo bel da fare per ottenere i 140 miliardi di euro con il Recovery Fund, di cui fino a 72 miliardi saranno sussidi. Il governo socialista di Pedro Sanchez ha messo a punto una riforma delle pensioni, che mira a rendere il sistema previdenziale nazionale più sostenibile. Il ministro del Welfare, José Luis Escrivà, ha annunciato l’avvio entro l’anno di un pilastro privato, il cui obiettivo consiste nel consentire al maggior numero dei lavoratori spagnoli di optare per un piano di previdenza integrativa a condizioni di favore.

Il modello di riferimento è il NEST (National Employment Savings Trust) del Regno Unito, ma con una grossa differenza: le adesioni dei lavoratori in Spagna saranno su base volontaria, cioè servirà esplicitamente la loro firma per l’iscrizione. Nel sistema britannico, l’iscrizione al NEST è, invece, automatica. In sintesi, ai lavoratori verrà offerto un piano pensionistico privato, che andrà ad affiancarsi a quello pubblico e che si caratterizzerà per commissioni contingentate e incentivi fiscali. Da qui ai prossimi mesi, i funzionari del governo si metteranno al lavoro per raccogliere le adesioni allo schema da parte dei fondi pensione.

Podemos, l’alleato della sinistra radicale dei socialisti, resta contrario e teme che questa riforma porti all’indebolimento del sistema pubblico. Escrivà ha rassicurato, sostenendo che sarà semplicemente un modo per ampliare la platea dei futuri beneficiari degli assegni integrativi, i quali fino ad oggi sono quasi un’esclusiva dei lavoratori ad alto reddito. Le divergenze nel governo restano anche su altri aspetti della riforma. Da quest’anno, ad esempio, l’età pensionabile in Spagna è salita da 65 a 66 anni e, in teoria, dovrà tendere a 67 anni entro il 2027.

I socialisti vorrebbero rivedere anche il sistema di calcolo delle pensioni, allungando da 25 a 35 anni il numero degli anni di contribuzione a cui gli assegni verranno legati. Poiché nei primi anni di carriera professionale si percepiscono ordinariamente stipendi più bassi, la soluzione finirebbe per ridurre inevitabilmente gli importi delle pensioni per una media stimata del 5,5%. Questa riforma entrerebbe in vigore a regime entro la fine dell’anno prossimo.

Il Recovery Fund non sarà un pasto gratis e il governo della Spagna rischia sulla riforma delle pensioni

Partite dall’Inps le richieste di restituzione del bonus da 600 euro

In questi giorni stanno arrivando le raccomandate per chiedere di restituire i bonus del 2020, ma non vengono specificati i motivi

Brutta sorpresa per numerosi contribuenti italiani che stanno ricevendo dall’Inps la richiesta di restituzione del bonus da 600 euro percepito circa un anno fa. Si tratta delle prime somme erogate con il decreto “Cura Italia”, ricevute come indennità per i mancati introiti dovuti alla pandemia. A denunciare l’invio delle raccomandate è il Centro Studi Fiscal Focus.

POCA CHIAREZZA

Ma lo stesso Centro Studi sottolinea un altro aspetto poco chiaro delle raccomandate, che riportano come intestazione “Accertamento somme indebitamente percepite su prestazione indennità per emergenza Covid-19”. “I contribuenti non sono posti nelle condizioni di comprendere appieno l’indebito comportamento loro contestato, condizione essenziale per poter valutare la correttezza della pretesa avanzata dall’Inps, soggetto che emette la comunicazione di accertamento”, commenta il fondatore di Fiscal Focus, Antonio Gigliotti.

NESSUNA MOTIVAZIONE PARTICOLARE

Infatti, nella raccomandata non viene specificato il motivo della contestazione e della richiesta di restituzione: “Le uniche informazioni fornite sono la natura dell’indennità contestata, il suo ammontare, l’importo da versare, le modalità di pagamento e come fare, eventualmente, ad ottenere chiarimenti”, prosegue Gigliotti.

“Il tenore dello scritto – spiega il Centro Studi Fiscal Focus – che abbiamo avuto modo di visionare e che riportiamo a titolo esemplificativo, è veramente minimale: ‘Gentile signore/signora, a seguito di verifiche è emerso che lei ha ricevuto, per il periodo 01/03/2020 al 30/04/2020 un pagamento non dovuto sulla prestazione INDENNITA’ PER EMERGENZA COVID-19 nr. …. per un importo complessivo di 1.200 euro, per la seguente motivazione: è stata percepita l’indennità una tantum per emergenza Covid, di cui all’articolo 28 del decreto-legge 17 marzo 2020 nr. 18, non spettante’”

IL CASO DEGLI AMMINISTRATORI

Nei giorni scorsi il deputato della Lega Daniele Belotti aveva denunciato le richieste ricevute da sindaci, assessori e consiglieri comunali da parte dell’Inps. Anche in questa circostanza l’ente previdenziale chiedeva la restituzione del bonus da 600 euro ricevuto a marzo e aprile 2020. “È bene ricordare che il 70 per cento dei 7903 comuni italiani ha una popolazione inferiore ai 5mila abitanti, con indennità per i consiglieri comunali di poche decine di euro l’anno che diventano poche centinaia per assessori e sindaci. Non si può certo pensare che non abbiano diritto per la loro attività professionale, già sacrificata per l’impegno pubblico, ai 1200 euro ricevuti la scorsa primavera”, aveva scritto Belotti sulla propria pagina Facebook.

Draghi: debito pubblico alto per molto tempo, se impiegato male sarà visto come inesigibile

“Il debito pubblico rimarrà alto per molto tempo, ma se verrà speso in modo produttivo, sarà visto come un debito “buono” e sarà finanziato. Se però verrà speso in modo improduttivo, sarà visto come un debito “inesigibile” e danneggerà non solo il paese, ma l’intera Europa”. Così Mario Draghi, ex numero uno della Banca centrale europea, intervenendo all’apertura del Meeting di Rimini 2020. Draghi ha rimarcato come investimenti in capitale umano, infrastrutture e ricerca debbano essere tra le priorità di spesa per tornare a crescere e uscire dalla crisi innescata dal Covid. “L’Europa si sta muovendo nella giusta direzione – ha proseguito – Potrà emergere rafforzata da questa crisi a patto che le politiche siano credibili sia a livello europeo che nazionale”.

Crisi coronavirus, Draghi, la domanda è: ‘per quanto tempo questo nuovo debito creato sarà sostenibile’?

Di seguito alcuni estratti dell’intervista rilasciata dall’ex numero uno della Bce Mario Draghi al professore Filippo Crea – ordinario di Cardiologia all’Università Cattolica e dall’altro ieri (primo italiano) editor in chief dello European Heart Journal -, nella giornata conclusiva del Congresso della Società Europea di Cardiologia – Escardio 2020. Il video di alcune parti dell’intervista è stato pubblicato sul sito di La Repubblica:Essere presidente della Bce? “Penso che sia stressante come qualsiasi altro lavoro che preveda assunzioni di responsabilità, dove le parole contano, e dove quello che fai produce conseguenze per milioni di persone. Ma ci sono diversi lavori di questo tipo, quindi non c’è niente di speciale nel ricoprire questo incarico, rispetto agli altri”, ha detto Draghi, rispondendo alla domanda su quanto possa essere stressante essere al timone della Banca centrale europea.“E’ difficile prevedere in senso letterale (l’impatto che il COVID-19 avrà sull’economia europea) – ha poi sottolineando, rispondendo a una domanda di Crea – All’inizio della pandemia, verso i mesi di febbraio-marzo, credevamo che la catastrofe sarebbe stata davvero drammatica e, di fatto, nel secondo trimestre di quest’anno il Pil si è contratto così come nel periodo peggiore della Seconda Guerra Mondiale, nel caso dei paesi più importanti coinvolti nella guerra. Successivamente, c’è stato tuttavia un rimbalzo superiore a quanto atteso dalla maggior parte degli esperti. Allo stesso tempo, i governi hanno fornito le risposte giuste. Hanno tutti aumentato le spese governative, il debito governativo, per ridurre l’impatto delle chiusure improvvise sulla maggior parte delle attività economiche”.“La domanda è – ha fatto notare l’ex banchiere centrale – per quanto tempo questo nuovo debito creato sarà sostenibile? La maggior parte di questo debito non sarà ripagata da me o da lei, ma da persone oggi molto giovani. Saranno loro ad avere questo compito enorme di trovare le risorse per ripagare il debito. Di conseguenza, la prima cosa che dovremmo fare è investire nella loro istruzione il più possibile, per essere sicuri che siano preparati a questa nuova società e che non debbano essere costretti a sacrificare altri valori importanti perchè devono rimborsare i debiti. Credo quindi che abbiamo un obbligo morale” nei loro confronti.

Debito pubblico: Bankitalia, record a 2.582,6 mld a settembre

Nuova salita e nuovo record del debito pubblico italiano. Nel mese di settembre il debito delle amministrazioni pubbliche si è attestato a 2.582,6 miliardi di euro, in aumento di 3,8 miliardi rispetto al mese precedente. Lo rende noto la Banca d’Italia nella pubblicazione statistica “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”. “Il fabbisogno del mese (20,9 miliardi) è stato solo parzialmente compensato – spiega Bankitalia – dalla riduzione delle disponibilità liquide del Tesoro (-16,3 miliardi, a 84,5) e dall’effetto degli scarti e dei premi all’emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e della variazione dei tassi di cambio (che hanno complessivamente ridotto il debito di 0,8 miliardi)”. Con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 4,4 miliardi, mentre quello delle Amministrazioni locali è diminuito di 0,6 miliardi; il debito degli Enti di previdenza è rimasto sostanzialmente stabile. Rispetto al mese precedente, la vita media residua del debito è rimasta sostanzialmente stabile, risultando pari a 7,2 anni. La quota del debito detenuta dalla Banca d’Italia è aumentata di 0,4 punti percentuali, al

 

Il taglio delle pensioni c’è già tra Covid e nuovi criteri di rivalutazione dell’assegno

L’emergenza pandemia influenzerà negativamente le pensioni di domani, mentre già lo stato risparmierà con i nuovi criteri sugli adeguamenti annuali.

I pensionati possono considerarsi, tutto sommato, tra le pochissime categorie “fortunate” in era Covid. A differenza di chi deve seguire quotidianamente i bollettini del governo per capire se potrà alzare la saracinesca il giorno successivo e di quanti non hanno certezza sul loro futuro lavorativo, le pensioni continuano ad essere erogate senza intoppi. Ma i futuri pensionati non saranno altrettanto fortunati e la pandemia ci ha messo anch’essa il suo zampino. Chi andrà in pensione con il sistema misto o contributivo dovrà fare i conti con il disastro economico verificatosi nel 2020.Con il sistema misto, l’importo degli assegni viene calcolato parzialmente sulla base dei contributi versati, mentre con il sistema contributivo esso è tarato totalmente su di essi. Ogni anno, i contributi versati dal lavoratore e dal suo datore di lavoro finiscono virtualmente in un fondo, alimentando un montante da rivalutare sulla base del tasso medio di crescita del PIL nominale nel quinquennio precedente all’anno appena trascorso. Facciamo chiarezza: nel 2021, tutti i contributi versati fino al 31 dicembre 2019 verranno rivalutati dell’1,9199%, perché nel periodo 2015-2019 è stato questo il tasso medio di crescita del PIL nominale, cioè comprensivo dell’inflazione. I contributi versati nel 2020, invece, saranno rivalutati a partire dall’anno prossimo.

E proprio nel 2022, entrerà nel calcolo del montante l’andamento del PIL nel 2020. L’anno prossimo, in buona sostanza, il montante contributivo maturato al 31 dicembre 2020 sarà rivalutato sulla base dell’andamento del PIL nominale medio nel quinquennio 2016-2020. Stando ai calcoli preliminari ISTAT, la crescita nel 2020 sarebbe stata del -8,9%, mentre l’inflazione sarebbe risultata negativa dello 0,1%. Il PIL nominale, quindi, sarebbe sceso del 9%. Se questo dato venisse confermato a marzo, otterremmo che nel periodo considerato il tasso medio di crescita nominale sarebbe stato del -0,32%.In teoria, anziché essere rivalutato, il montante dovrebbe essere “svalutato”.Quasi certamente, per evitare questo colpo ai danni dei lavoratori il governo opterà per il varo di un decreto, similmente a quanto accaduto nel 2015, con il quale verrà imposta una rivalutazione minima dello 0%. In sostanza, il montante contributivo non verrebbe ridotto, ma neppure rivalutato. E già di per sé non è una buona notizia.

Taglio delle pensioni scongiurato con la proposta di legge

L’impatto sugli assegni dei nuovi criteri di rivalutazione

A ciò dobbiamo aggiungere i danni provocati dalla pandemia al mercato del lavoro. Molti posti di lavoro rimangono “congelati” fino al prossimo marzo per effetto del divieto di licenziare imposto dal governo. Tuttavia, la cassa integrazione copre per l’80% i redditi relativi alle minore ore lavorate, deprimendo la contribuzione. Per non parlare di chi il lavoro lo ha perso, magari perché non si è visto rinnovare un contratto a tempo determinato, o di chi non lo ha potuto trovare, essendosi trovato inoccupato/disoccupato già prima della pandemia.  L’INPS ha stimato per l’anno scorso un minore gettito contributivo di 15 miliardi. Denaro, che non incasserà per pagare le pensioni e che denota un calo futuro degli assegni.Infine, c’è il nuovo calcolo della rivalutazione degli assegni per il triennio 2019-2021, dopo che la Legge di Bilancio 2019 ha recepito la legge n.388/2000. Fino al 2018, l’assegno era rivalutato del 100% del tasso d’inflazione relativo all’anno precedente fino a 3 volte il minimo, del 90% tra 3 e 5 volte il minimo, del 75% sopra 5 volte il minimo. A partire dal 2019, invece, la rivalutazione avverrà sull’intero importo dell’assegno e non a scaglioni. Fatto salvo che l’importo minimo fissato per il 2021 sia di 515,58 euro al mese, immaginiamo di percepire una pensione di 3.000 euro al mese. Fino al 2018, avremmo beneficiato di una rivalutazione del 100% fino a 1.546,74 euro (3 volte il minimo), del 90% dell’inflazione per i successivi 1.031,16 euro e del 75% per i restanti 422,10 euro.Adesso, la rivalutazione sarebbe su tutti i 3.000 euro del 52%, essendo state fissate nuove fasce. E quella del 52% si applica agli assegni tra 5 e 6 volte il minimo.Questo nuovo criterio consentirà allo stato di ridurre gli esborsi a favore degli assegni più alti. In teoria, poiché in passato gli importi venivano legati alle retribuzioni e non alla contribuzione, si tratterebbe di una misura equa, in quanto conterrebbe i benefici a favore dei pensionati con il retributivo puro più fortunati. Ma questa soluzione un po’ forfetaria di per sé colpirebbe anche coloro che effettivamente si ritrovano a incassare mensilmente assegni giustificati del tutto dalla contribuzione versata. Ad ogni modo, per quest’anno non ci saranno aumenti per nessuno, data l’inflazione sottozero nel 2020. E almeno questa è una buona notizia per i percettori di redditi fissi.

Pensioni a rischio, ma l’Inps svende gli immobili di sua proprietà

Un edificio composto da ben 379 immobili è stato ceduto al Comune di Verona al prezzo di 8,58 milioni: un vero e proprio regalo

 

Non è certo un bel periodo per l’Inps, che in questo anno ha visto aumentare drasticamente le uscite e diminuire i suoi introiti; eppure l’istituto previdenziale, invece di pensare a far cassa, ha creduto bene di svendere un bene pubblico di sua proprietà.

 
 

Motivo? La sua palese difficoltà nel gestire il patrimonio immobiliare di cui è in possesso.

A raccontare l’accaduto è LiberoQuotidiano, che spiega come la scorsa settimana un edificio composto da ben 180 alloggi, con tanto di cantine e 199 garage, sia stato (s)venduto al Comune di Verona al prezzo di 8,58 milioni. Decisamente poco, se si considera il reale valore del complesso immobiliare. Certo, la struttura andrà ad ospitare famiglie disagiate che necessitano di un alloggio (sarà l’Azienda gestione edifici comunali “Agec” a gestire gli alloggi per conto del Comune), ma l’Inps non può davvero permettersi dei simili “regali” visto che dovrebbe preoccuparsi di mettere da parte fondi da destinare alle pensioni. Eppure pare essere proprio questo ciò a cui ambisce il presidente Pasquale Tridico. “La cessione è una delle prime operazioni di questo tipo effettuate dall’Inps sul territorio nazionale grazie ad una recente modifica normativa che consente all’Istituto di vendere a favore degli enti locali con un abbattimento del valore economico complessivo degli immobili, tenendo conto delle peculiari circostanze di immobili destinati a finalità sociali”, si legge in un comunicato ufficiale.

È lo stesso Sole24Ore a riferirlo: l’istituto previdenziale sta puntando a disfarsi di 25mila immobili, per i quali tuttavia incasserà un quarto del loro valore. In pratica si stima che nelle casse dell’Inps arriveranno circa 500 milioni, quando gli edifici dovrebbero invece valere oltre 2 miliardi. Alla faccia della generosità.“L’Inps sta velocemente razionalizzando la sua gestione patrimoniale e risolvendo criticità ereditate e accumulatesi nel corso di decenni. Questo accordo è reso possibile da una norma introdotta nel Decreto Rilancio per la quale mi sono battuto e consente al nostro Istituto la vendita di immobili a enti che li riutilizzano a fini sociali”, ha spiegato Pasquale Tridico, come riportato da ItaliaOggi. A mettere in seria difficoltà l’ente anche la fusione con l’Inpdap (istituto che paga le pensioni dei dipendenti pubblici), cosa che ha ovviamente influito sul bilancio. L’istituto previdenziale non è inoltre in grado di far fruttare al meglio i beni immobili di cui è in possesso. Il suo patrimonio supera i 2 miliardi, eppure l’ente incassa solo 20 milioni ogni anno.

Molti degli edifici (circa la metà), risultano inabitati, mentre l’8% delle abitazioni sono sì occupate, ma senza titolo. Rimane un 42% degli immobili occupati con contratto, in alcuni casi anche scaduto. Per verificare lo stato reale delle cose, sarebbero necessari controlli molto più rigorosi rispetto a quelli attuali.

Intanto preoccupano i conti dell’Inps, dato che le stime fondate sul bilancio previsionale dell’anno in corso parlano di una situazione patrimoniale netta in calo di 9,590 miliardi. Anche per quanto riguarda quella economica, pur con un incremento di 5,694 miliardi, si prevede una perdita complessiva quantificabile in – 20,327 miliardi. Ancora di più, pertanto, una società dovrebbe pensare a far cassa ed a far fruttare i beni di sua proprietà: ecco perchè, dal punto di vista squisitamente economico, resta incomprensibile la scelta di svendere un bene pubblico, dato che l’Inps dovrebbe occuparsi di massimizzare i suoi introiti per far fronte alle spese assistenziali senza gravare troppo sulle casse dell’erario. Insomma scarsa preoccupazione per le pensioni, sulla cui riforma l’Europa continua a insistere per ottenere ulteriori alleggerimenti. Nessuno tocchi il reddito di cittadinanza, invece, che peserà sui bilanci per circa 10 miliardi, altrimenti che ne sarà dei grillini, che hanno stravolto quasi ogni punto del programma elettorale una volta giunti al potere?

Scope Rating: crisi di governo mette in secondo piano la pandemia, disavanzo al 9% e debito pubblico quasi al 160% del Pil nel 2021

“Le istituzioni europee potrebbero essere preoccupate che i partiti politici italiani siano coinvolti in controversie di potere interno piuttosto che concentrarsi sull’affrontare la pandemia e mettere a frutto la grande quantità di risorse che i partner europei hanno affidato al paese”, afferma Giacomo Barisone di Scope Ratings. “Il paese è uno dei principali beneficiari del fondo di recupero dell’UE Next Generation con prestiti e sovvenzioni stanziati per circa 209 miliardi di euro”.
Finora, le tensioni politiche non hanno avuto un impatto significativo sulla fiducia degli investitori, a differenza delle precedenti crisi politiche italiane, a causa delle politiche monetarie favorevoli della BCE. Il differenziale tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani a 10 anni e quello dei bund tedeschi è salito a circa 120 pb prima di scendere a circa 114 pb, lasciando l’Italia in grado di indebitarsi a tassi quasi record.
Sullo sfondo rimane la pandemia che si sta ancora diffondendo rapidamente. Il governo italiano ha infatti esteso lo stato di emergenza fino alla fine di aprile con l’aumento delle vaccinazioni. La spesa pubblica legata alla pandemia, compreso un pacchetto di sostegno aggiuntivo di 32 miliardi di euro (1,8% del PIL) annunciato la scorsa settimana, e un deficit fiscale più ampio continuano a influenzare negativamente le prospettive per le finanze pubbliche italiane. Scope Ratings prevede un disavanzo di bilancio di circa il 9% del PIL quest’anno, dopo l’11,5% stimato nel 2020, con un debito pubblico che aumenterà fino a quasi il 160% del PIL e continuerà a crescere in seguito, sottolineando l’urgenza di affrontare tempestivamente la crisi della sanità pubblica.

 

Il mercato italiano è attraente solo per i prezzi da saldo

L’allarme spread sembra esagerato, ma i dati economici, oscurati dai bollettini del virus e ora anche dalla politica, raccontano un Paese non riesce a ripartire

18 Gennaio 2021
 
Prime pagine e titoli dei tg ormai da quasi un anno in Italia più che nel resto del mondo sono monotematiche, anzi mono-numeriche. Il bollettino quotidiano del virus con tutte le sue varianti statistiche ci martella quotidianamente, con l’intermezzo negli ultimi giorni della crisi politica e del collegato riaffacciarsi dello spettro dello spread, tornato abbastanza pretestuosamente sotto i riflettori nonostante viaggi ancora sui minimi da 5 anni, lontanissimo dalle vicinanze dei 300 punti toccate nel 2018, quando giravano i ‘piani B’ di uscita dall’euro e i mini-Bot del governo gialloverde, ma anche dai picchi a 230-240 toccati tra marzo e aprile del 2020. Lo spettro dello spread è stato cancellato dal Recovery Plan di Ursula von der Leyen e dall’ombrello-paracadute aperto dalla Bce di Christine Lagarde che con i suoi acquisti ha finora messo al riparo i BTP da qualsiasi tentazione della speculazione.

TIENE SOLO LA MANIFATTURA

Suonare in prima pagina l’allarme perché lo spread sale di una manciata di punti pur tenendosi sui minimi può forse servire ad avvertire che giocare con la crisi politica in questa fase è un po’ come mettersi a danzare sul precipizio. Oggi il pericolo non si chiama ancora spread, ma è annidato nei numeri dell’economia, oscurati da quelli dei bollettini del virus. L’unico settore che viaggia in territorio espansione nonostante la crisi è l’industria manifatturiera, forte di produzioni di elevata qualità che spaziano dalla meccanica alle attrezzature industriali fino al lusso e all’alimentare e possono contare su un mercato globale in ripartenza. Il resto langue da ben prima del virus, anche prima della grande crisi. Tra il 2001 e il 2007, l’economia italiana non riusciva a crescere più dell’un per cento e qualcosa l’anno, con una disoccupazione molto più elevata degli altri Paesi avanzati e il freno a mano tirato da una macchina amministrativa, burocratica e giudiziaria che da mezzo secolo ha una necessità disperata di essere sfoltita e riformata.

GIÀ STREMATI ALL’ARRIVO DEL VIRUS

Lo shock da pandemia è arrivato su un Paese ancora stremato dalla crisi del debito del 2011-12, che aveva mandato l’economia in recessione sovrapponendosi alla botta del 2008-09, costretto a elemosinare da Bruxelles qualche decimale di sconfinamento del deficit e deroghe alle regole europee sugli aiuti di Stato per provare a uscire dalle crisi infinite delle varie Alitalia, Ilva, MPS, etc. Poi la pandemia ha mandato in soffitta il Patto di Stabilità e liberato tutti dai vincoli su debito e deficit pubblici, cogliendo fortunatamente una politica tornata nell’alveo europeo dopo gli sbandamenti euroscettici del 2018-19.

LA BORSA NON TIENE IL PASSO

Ma se per gli altri Paesi avanzati il ritorno al pre-virus è una prospettiva positiva, per l’Italia può voler dire tornare in un Purgatorio economico fotografato dall’andamento del mercato azionario, che prima del 2020 saliva meno degli altri nelle fasi positive e scendeva di più in quelle negative. Nel 2017 i tagli alle tasse di Trump avevano spinto l’indice azionario globale FTSE in rialzo di quasi il 25% ma Milano faceva solo +13,6% mentre l’anno dopo la guerra dei dazi sempre di Trump spediva lo stesso indice in calo del 9,1% ma Milano accusava una perdita di oltre il 16%. Ancora più pesante il raffronto nel 2016 con -10% contro +8,6%, mentre solo nel 2019 riusciva l’aggancio al rally delle borse globali. Ma l’anno del virus ha segnato il ritorno alla ‘normalità’ con l’FTSE Mib che ha chiuso il 2020 ben lontano dai 25.000 punti di febbraio mentre l’azionario globale ha recuperato tutto il terreno perduto a marzo-aprile e quello europeo ci è andato vicino.

BOTTOM LINE

L’ancora europea tiene a galla l’Italia e ogni sganciamento è molto pericoloso. In Germania si profila una successione del moderato Laschet alla Merkel, e Macron resta un alleato prezioso se non altro perché la Francia contende all’Italia il primato del debito continentale. Ma l’ombrello della Bce non resterà aperto per sempre e Bruxelles si sta già innervosendo per le contorsioni politiche italiane. L’unica attrattiva dell’Italia per gli investitori è il prezzo stracciato degli asset, ma se non si rimette in moto la crescita la caccia ai saldi potrebbe trasformarsi in caccia ai prezzi da fallimento.

Alert Moody’s: debiti sovrani area euro, rischi più alti in Italia, Cipro, Spagna e Portogallo

“Nell’area euro i rischi sul credito più alti sono in Italia, Cipro, Spagna e Portogallo, a causa dell’elevata esposizione dell’economia di questi paesi verso la crisi (scatenata dalla pandemia Covid-19) e per il loro margine di manovra fiscale più limitato”. E’ quanto ha scritto Moody’s nel report odierno intitolato “Moody’s – Euro area sovereigns’ negative 2021 outlook reflects significant economic and fiscal uncertainty”, ovvero “Moody’s: l’outlook negativo per il 2021 dei debiti sovrani dell’area euro riflette incertezze significative dal fronte economico e fiscale”.

 

“L’ITALIA È GIÀ DI FATTO IN DEFAULT” – L’ECONOMISTA ARNALDO BORGHESI: “GIÀ PRIMA DEL COVID-19 ERA IN UNA SITUAZIONE PRE-FALLIMENTARE E SE LA BCE DOVESSE DECIDERE DI STACCARE LA SPINA, COME GIÀ CHIESTO DALLA CORTE COSTITUZIONALE TEDESCA, L’ITALIA NON AVREBBE PIÙ LE RISORSE PER PAGARE STIPENDI E PENSIONI…”


 GIUSEPPE CONTE BEVE VINO

Arnaldo Borghesi per www.affaritaliani.it

Riferisce il quotidiano “la Repubblica” che il Governo Italiano, nel 2020, ha fatto quattro manovre di assestamento di bilancio ed ha emesso titoli di debito per 552 miliardi di euro e che nel 2021 saranno previste ulteriori emissioni per 360 miliardi, per un totale di 912 miliardi di euro. Per avere un termine di paragone, il PIL Italiano nel 2019 è stato pari a circa 1.787 miliardi di euro.

 ARNALDO BORGHESI

Sempre il quotidiano diretto da Maurizio Molinari sottolinea come il Premier Conte non voglia accedere ai fondi del Mes, pari a 36 miliardi di euro, per non gravare sul debito pubblico, sul deficit di bilancio e per evitare un fardello per le prossime generazioni.Probabilmente il Premier – e la sua traballante maggioranza – dimenticano i gravi problemi strutturali del sistema sanitario italiano che se non affrontati in modo risolutivo, penalizzeranno ulteriormente il già fragile sistema Paese.

troika grecia troika grecia

 

Appare quindi incomprensibile la posizione assunta dal Governo di non accedere a tali risorse stanziate e già disponibili che l’Unione Europea ha inserito tra gli strumenti per contrastare la crisi. È necessario ricordare che l’unica condizione per accedervi è che il paese richiedente usi i soldi per spese sanitarie legate alla crisi del Covid-19.I timori di finire – come successo alla Grecia – assoggettati a misure d’austerità e alle riforme richieste dalla c.d. “troika” sono una conseguenza del fatto che per molti italiani il “Meccanismo europeo di stabilità” sia un oggetto misterioso, in parte frutto della diffidenza diffusa nei confronti dell’Europa. È quindi doveroso spiegare in modo obiettivo e propositivo di cosa si tratta: in parole semplici per l’Italia sono disponibili fino a 36 miliardi di euro con scadenza decennale del prestito ad un tasso annuale dello 0,1%, costo una tantum dello 0,25% e costo annuale pari allo 0,005%. Se paragonato ai titoli di stato, il prestito Mes è praticamente senza interessi.L’Europa mette a disposizione 36 miliardi di euro da investire nella sanità pubblica per realizzare nuovi ospedali, nuove strutture, migliorare la medicina domiciliare, procedere a nuove assunzioni e all’acquisto di apparecchiature all’avanguardia. Queste risorse dovremmo prenderle e, soprattutto, dimostrare di saperle spendere bene. Tale adesione permetterebbe anche di emettere 36 miliardi di titoli di Stato in meno.Ciò che ci lascia attoniti è come il Premier usi due pesi e due misure: le risorse del Mes sarebbero un fardello per le generazioni future mentre il debito monstre di 912 miliardi emessi tra il 2020 e il 2021 invece no… In effetti tale debito, ahimè, non è un fardello, ma un macigno.L’avvocato del popolo, eletto da nessuno ed esperto di nulla, ha cinicamente ragione. Nella testa di Conte, i nuovi e vecchi “Btp” sono e saranno un problema della “BCE” che, entusiasticamente, ha annunciato che continuerà ad acquistarli sul mercato, mentre i miliardi del Mes, che forse qualche vincolo lo impongono, rimangono per questo un po’ indigesti per chi non è disposto a rispondere ad alcuno delle proprie azioni.Sanità, economia e infrastrutture sono oggi in Italia in una situazione peggiore di un anno fa. Di Covid si muore di più nonostante le regioni multicolore. Nella crisi pre Covid-19, il debito pubblico italiano si avvicinava al 130% del Pil.A fine 2020 secondo il FMI arriverà al 161%. Sono state letteralmente bruciate importanti risorse con interventi a pioggia incomprensibili che spaziano dal bonus bagno ai monopattini elettrici, alle erogazioni una tantum – sempre in ritardo – e con modalità di accesso incomprensibili.Buttati al vento questi ultimi quattrini – che ripagheranno, con lacrime e sangue, i nostri figli e nipoti – ora ci crogioliamo nell’attesa dei soldi del Recovery Fund, gestiti dai sette uomini d’oro, con la speranza di un futuro radioso. Il Covid-19 – nei pensieri dei nostri politici – è la grande occasione per un balzo in avanti verso un orizzonte migliore, un collante tra gli italiani e il loro Governo, inevitabile e insostituibile, che non deve essere mai messo in discussione. Una retorica meno pomposa di quella del buio trentennio, ma molto simile nella sostanza, però più subdola e pericolosa.

 GIUSEPPE CONTE MES

La realtà è quindi molto diversa da quella che ci raccontano. L’Italia già prima del Covid-19 era in una situazione pre-fallimentare. Oggi è di fatto in default, nonostante le analisi ottimistiche delle società di rating che dalla vicenda “Lehman Brothers” poco hanno imparato. La vera domanda da porsi è se la “BCE” proseguirà con il “Quantitative Easing” ovvero se continuerà ad acquistare titoli di Stato italiani nei i prossimi 10 anni e oltre.

 ARNALDO BORGHESI 1

Perché se dovesse decidere di staccare la spina – come già chiesto dalla Corte costituzionale tedesca – l’Italia non avrebbe più le risorse per pagare stipendi e pensioni. L’Italia sta approfittando furbescamente di questa situazione, grazie al supporto al QE della Cancelliera Merkel, impegnata tra l’altro a dare un’impronta istituzionale al semestre tedesco di guida della UE.

 LAGARDE – MERKEL – VON DER LEYEN

Ma il semestre tedesco scade a fine anno e la signora Merkel dovrà fare i conti con il suo elettorato. Il giorno in cui la leader della “Cdu” dovesse rivedere le sue opinioni o comunque fosse democraticamente sostituita da un leader meno europeista e più vicino alle richieste dell’opinione pubblica, sarebbe difficile continuare a chiedere ai tedeschi di tirare la cinghia per finanziare i giochetti di Conte e i dissesti del nostro Paese.

 conte salvini

L’unica certezza è che non saremo noi italiani a decidere del nostro destino. La furbizia italica già era emersa nella bozza del contratto di governo M5S-Lega a maggio 2018, nel quale si ipotizzava un’istanza di cancellazione di 250 miliardi di euro di debito italiano presso la BCE.Purtroppo i nostri traballanti politici navigano a vista, attaccati alla loro sedia, con una programmazione che non si spinge oltre un orizzonte temporale di 6 mesi. Diversi rampanti economisti sono invece convinti che la BCE, piena di titoli di stato italiani in portafoglio, non ne interromperà mai l’acquisto. “L’Italia in questo momento – afferma sottovoce un importante banchiere – è come un kamikaze imbottito di esplosivo seduto all’interno del Parlamento europeo. Ci provino a far saltare…”.

 MARIO DRAGHI E GIUSEPPE CONTE

Al momento la debolezza di Conte è però la sua fortuna. Un leader non troppo indigesto al duo Merkel-Macron e perciò facilmente manovrabile. Non andò così bene a Berlusconi nel 2011…Molti vorrebbero alla guida del Paese l’ex Governatore Mario Draghi, ma dietro le quinte continuare a fare scelte dissennate. Altri vorrebbero rimandare i problemi a data da destinare. Qualcuno porta ad esempio il caso del Giappone che da decenni convive tranquillamente con un dedito pubblico imponente.  La differenza con l’Italia è però che il debito del Sol Levante è in mano ai giapponesi, mentre quello italiano è compensato dalla “BCE”.

 ANGELA MERKEL EMMANUEL MACRON

Per quanto tempo durerà questo limbo che ci tiene in piedi? Difficile prevederlo, ma la seconda ondata di Covid-19 in Europa ha messo in grande difficoltà Paesi come la Francia, la Germania, l’Olanda, la Spagna, il Belgio e la Svezia. Ciascuna di queste nazioni dovrà perciò pensare a sé stessa e ci sarà sempre meno spazio per la solidarietà, soprattutto per chi non la merita.L’Italia al momento è come un bus sovraffollato con i freni rotti su una strada in discesa. Più passa il tempo, più prende velocità e diventa incontrollabile. È interesse di tutti fermarlo o farlo sbandare, cosicché i danni dello schianto saranno minori. Non tiriamo troppo la corda. Cerchiamo di meritarci il credito che l’Europa ci ha dato. Smettiamola con le piccole grandi furbizie che ci degradano ogni giorno di più. Pretendiamo che ci governi chi abbiamo eletto o eleggeremo. E speriamo non sia troppo tardi.

Macigno debito e instabilità politica, lo spread Btp-Bund rischizzerà oltre 200’. E attenzione a incognita banche sul Ftse Mib

 
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Il 2021 rischia di veder riesplodere il caso Italia sui mercati. La crisi di governo aperta sostanzialmente ieri da Matteo Renzi con la dimissione delle due ministre sta alzando la tensione sul fronte spread Btp-Bund, anche se con variazioni ancora contenute (oggi picco a 120 punti base con rendimento del Btp decennale salito fino a 0,67%).
Si è invertita la tendenza che aveva spinto lo spread scendere a ridosso di quota 100 pb rispetto ai 240 di un anno fa, con rendimenti della carta italiana ai minimi storici. Un movimento in sintonia con la discesa dei rendimenti sui principali bond governativi del mondo. In particolare i Btp hanno cavalcato l’assist dell’annuncio prima e dellla approvazione poi del Recovery Fund europeo, oltre che alle misure di stimolo adottate dalla Bce.

 

Doppio macigno da debito e instabilità politica 

Cosa aspettarsi ora? Gli strategist di IG nelle loro previsioni per il 2021 vedono un quadro piuttosto difficile complice proprio l’instabilità politica. “Nel 2021 e ancor più nel 2022 il Paese dovrà fare i conti con l’enorme debito pubblico accumulato negli ultimi mesi – rimarcano – . Una sfida importante che potrebbe tornare a mettere pressione alla carta italiana. Quadro questo che ci spinge ad ipotizzare di vedere lo spread nuovamente sopra i 200 punti base, e su livelli ancor più alti se l’incertezza politica dovesse perdurare”.

Per Ftse Mib ostacolo 24 mila, possibile zavorra da banche

Per quanto riguarda l’azionario, IG vede il Ftse Mib pronto a proseguire la corsa rialzista nel corso del 2021 con però l’incognita del settore finanziario che potrebbe frenarne l’ascesa. “Le aspettative sono che la corsa degli ultimi mesi possa arrestarsi poco sopra 24 mila punti. Sarà questo l’ostacolo, superato il quale potremmo puntare verso i 26 mila punti nel corso dell’anno”, argomenta IG che vede nel corso dell’anno proseguire il processo di consolidamento tra le banche. M&A a parte, sulle banche pende il nodo dei crediti deteriorati, NPL, che potrebbero lievitare a seguito della pandemia. “Potremmo avere numeri più importanti rispetto a quelli della crisi del 2012 con nuove ondate di aumenti di capitale necessari per stabilizzare il sistema bancario. Sarà questa una sfida nella sfida, riuscire a resistere a nuovi aumenti di capitale, in un momento particolarmente difficile per l’economia e il Paese e soprattutto in un’ottica di tassi bassi ancora a lungo”, argomenta IG.
Guardando agli scenari sul fronte M&A, già nei prossimi mesi sono attese nuove mosse con le ultime banche che convoleranno a nozze. Unicredit, MPS, Banco BPM e BPER sono i quattro principali istituti a giocarsi questa partita. “Non escludiamo colpi di scena, anche se l’addio di Mustier alla guida della banca di Piazza Gae Aulenti spalanca le porte a un matrimonio con Piazza Salimbeni”, asserisce IG.

Recovery Fund, Draghi: ‘se risorse Next Generation EU sprecate, debito diventerà insostenibile’

“In base a tutte le previsioni, i tassi d’interesse resteranno bassi per molto tempo. La mia congettura è che, in ultima analisi, la sostenibilità del debito pubblico in un certo Paese sarà giudicata sulla base della crescita e quindi anche di come verranno spese le risorse di Next Generation EU. Se saranno sprecate, il debito alla fine diventerà insostenibile perché i progetti finanziati non produrranno crescita”. E’ quanto ha avvertito l’ex numero uno della Bce Mario Draghi, in un colloquio con Federico Fubini de Il Corriere della Sera, in merito alla scelta dei progetti da finanziare con le risorse del Recovery Fund-Next Generation EU.“Se invece i tassi di rendimento dei progetti fossero elevati e tali da giustificare l’investimento pubblico, allora la crescita arriverebbe e diventerebbe il fattore decisivo per la sostenibilità del debito”, ha aggiunto Draghi, spiegando anche che “l’impatto (di Next Generation EU, ndr) sulla crescita e sulla sostenibilità del debito negli anni a venire sarà maggiore, quanto più grande è il debito iniziale. Per questo è così importante che i Paesi con un debito elevato facciano una valutazione molto attenta del tasso di rendimento dei progetti che finanzieranno»..

 

ITALIA e il nostro futuro (parte II): come negare l’evidenza?

Recentemente ho parlato di demografia   Probabilmente è stato letto con superficialità ma signori, il problema è molto maggiore di quanto voi possiate immaginare. Ne va del nostro futuro, anzi, del futuro dei nostri figli.
Volevo solo aggiungere un paio di dati molto preoccupanti che ho trovato in rete a compendio di quanto è stato detto.Cari amici, guardate questo primo grafico. Una ricerca delle regioni in Eurozona con il peggior andamento di incremento delle nascite.
Basta vedere quali sono e quante sono numericamente quelle italiane per avere un primo quadro della situazione. Il grafico è Eurostat e quindi lo considero sufficientemente affidabile.

Se poi volete farvi ancora più male leggete questa tabella.

I conti sono semplici da fare. Nati nel 2008 pari a 576 mila. L’anno scorso il 27% in meno in un trend molto delineato e progressivo. Un trend in costante discesa. Così facendo potremmo in prospettiva ritrovarci nel 2030 con circa 300 mila nascite.
La differenza sta nel fatto che, oltre a minor numero di futuri contribuenti, avremo a che fare con un evidente invecchiamento della popolazione e con un debito pubblico che nel frattempo è lievitato (oggi) al 160%. Fatevi due pensieri a voce alta cosa può significare tutto questo per economia, welfare, lavoro, fiscalità, vita sociale, ordine pubblico. Non aggiungo altro perché ci saranno anche diverse scuole di pensiero. Ma come negare una tale evidenza? E non venitemi a dire che i figli gli faranno gli extracomunitari perchè la tabella dice esattamente il contrario. Il tasso di fecondità collassa progressivamente ed in modo inesorabile, a breve sarà pari a 1.

(…) Continuano a diminuire i nati: nel 2019 sono 420.084, quasi 20 mila in meno rispetto all’anno precedente e oltre 156 mila in meno nel confronto con il 2008. A diminuire sono soprattutto i nati da genitori entrambi italiani: 327.724 nel 2019, oltre 152 mila in meno rispetto al 2008. Il numero medio di figli per donna continua a scendere: 1,27 per il complesso delle donne residenti (1,29 nel 2018 e 1,46 nel 2010, anno di massimo relativo della fecondità) (…)

Debito pubblico in Italia: perché non é come il Giappone 

Il debito pubblico dell’Italia sembra non reggere il confronto con quello del Giappone, che non ha pari nel mondo: nel 2019 ha raggiunto il 240 % del Pil, creando così un “paradosso giapponese”, debito elevato, ma pochi rischi. Perché il nostro paese non può seguire questo esempio nella gestione patrimoniale?  La crisi economica generata dalla pandemia di Covid-19 ha costretto negli ultimi mesi gli Stati di tutto il mondo a ricorrere allo strumento del debito per fronteggiare le cadute rovinose dei Pil nazionali. L’Italia, dopo aver chiuso il 2019 con un debito del 134,8% del Pil, a fine 2020 vedrà questo  “macigno” attestarsi intorno al 166,1%. Che il debito italiano cresca non è di per sé una novità, visto l’andamento che esso ha avuto negli ultimi 20 anni. E nemmeno lo sono i sostenitori del debito incontrollato, seguaci della nota frase di Ronald Reagan : “Il debito pubblico è abbastanza grande da badare a sé stesso”, i quali da anni paragonano la situazione debitoria italiana a quella giapponese.

Il paradosso giapponese

Il Giappone, colpito dallo scoppio della bolla speculativa immobiliare-finanziaria nel ‘91 e successivamente dalle crisi del ‘01 e ‘08, ha fronteggiato anni di fortissima recessione, portando giocoforza una crescita smisurata del debito, arrivato nel 2019 al 240 % del proprio Pil. Tutt’oggi il debito giapponese è destinato a salire, ma ciò non ha mai comportato una crisi di sfiducia da parte dei mercati finanziari, cosa che invece accadde nel 2011 al nostro Paese, anche con un debito molto più basso di quello nipponico. Come mai? La situazione è più complicata di quanto si pensi e la risposta no, non consiste nell’avere sovranità monetaria, così da sgombrare il campo da ogni falso mito.

Un debito diverso…

Prima di tutto, il debito pubblico giapponese non è così alto come si può  pensare: buona parte del debito è detenuto dal settore pubblico giapponese, e ciò viene incluso nelle statistiche di debito, cosa non fatta per altri paesi, compresa l’Italia. Un esempio, come scrive Carlo Cottarelli nel libro Pachidermi e pappagalli è “l’Inps giapponese”, la quale detiene una grossa quantità di debito, ma che rinnova di routine, e ciò non porta sicuramente rischi di speculazioni finanziarie. Quindi, al netto delle attività finanziarie detenute dalla pubblica amministrazione giapponese, il debito si attesta a 153 % del Pil. Alto, ma non così eccessivo. Inoltre lo Stato giapponese ha molte attività reali (cioè non finanziarie), dalle quale guadagna interessi, così da poter ripagare gli interessi sul debito.

Chi detiene il debito pubblico in Italia?

Altra grande differenza rispetto alla situazione patrimoniale italiana, è chi detiene il debito. Il nostro Paese ha un’importante fetta, circa il 30%, detenuta da investitori esteri. Percentuale non altissima, ma comunque rilevante, che comporta sicuramente maggior rischio speculativo. Il Giappone, al contrario, vede il suo debito nelle mani dei giapponesi stessi, per una cifra intorno al 90-95%, fornendo una base solida e stabile, rendendo così il movimento degli scambi scarso. Tra questi investitori, il più importante per importo è la Bank of Japan (BoJ) con circa il 40%. Il lavoro svolto negli ultimi anni dalla BoJ, attraverso il controllo della curva dei rendimenti dei tassi a lungo termine è stato sicuramente di fondamentale importantanza, portando i tassi a livelli per nulla appetibili ai trader speculativi (oggi la BoJ emette a tassi negativi), ma di scarsa efficacia nell’economia giapponese, visto l’abbassamento demografico e la scarsa propensione al consumo dei giapponesi stessi.

E allora con la Lira?

L’obiezione più naturale, per cui se avessimo la nostra banca centrale e sovranità monetaria, saremmo solidi come il Giappone. Quello che i sostenitori della tesi “No Euro” non ricordano, o fanno finta di non ricordare, è che anche l’Italia disponeva di una propria sovranità monetaria, eppure la Lira non era una moneta stabile visto la forte inflazione e svalutazione, rendendo così il Paese vittima di attacchi speculativi finanziari.

Risultati delle riforme sul debito pubblico in Italia

Il fatto di avere un debito sostenibile e stabile è stato possibile anche all’importante politica fiscale che il Giappone ha attuato negli ultimi anni con il premier Shinzo Abe. Una delle riforme riguarda il debito pensionistico futuro, destinato ad avere un aumento di spesa negativo, secondo il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) -32%, a seguito della riforma che lascia al lavoratore la possibilità di rimanere al lavoro, se in salute, fino ad 85 anni a stipendio ridotto, oppure di andare in pensione a 60 anni.

L’Italia, invece, nonostante sotto il punto di vista demografico sia molto simile al Giappone (bassa natalità, invecchiamento demografico), vedrà nei prossimi anni un + 47% nel debito pensionistico, sempre secondo l’Fmi, rivisto in aumento dopo l’introduzione di Quota 100.

Inoltre, il Paese nipponico da sempre conosciuto nel mondo per la nota disciplina e serietà, negli ultimi anni ha investito in settori strategici come infrastrutture, aggiudicandosi le Olimpiadi (rinviate al 2021 per via della pandemia), ma soprattutto puntando sull’istruzione.

L’avvertimento di Draghi sul debito pubblico in Italia

Nell’ultimo meeting di Rimini, l’ex governatore della Banca Centrale Europea (Bce) Mario Draghi ha pronunciato un discorso importante, rimarcando i provvedimenti della Bce negli ultimi mesi e sottolineando anche la necessità dei paesi di ricorrere allo strumento del debito per fronteggiare la crisi, distinguendo tra un uso del debito “buono”, rivolto a settori importanti con anche l’obiettivo di rilanciare i consumi, ed un uso “cattivo” del debito, destinato ad aumentare la spesa corrente senza un vero effetto sull’economia.

Un messaggio importante rivolto all’Italia, nella speranza che venga colto.

DEBITO AGGREGATO: boom grazie al Covid

 

Il momento particolarmente euforico (visto che, ridendo e scherzando, i listini azionari sono ai massimi) è certamente alimentato non solo dal migliorato sentiment ma anche da dati puntuali migliori delle attese. Però non dimentichiamo che tutta questa ripresa è stata e sarà stimolata con il debito.

L’accordo raggiunto ieri, ovviamente non è finanziato con l’aria fritta…

(…) I leader dell’Unione europea hanno raggiunto l’accordo sul Recovery Fund e il Next Generation EU. E lo hanno fatto sotto la guida della Germania di Angela Merkel. E’ grazie al compromesso a cui ha lavorato la cancelliera stessa che Ungheria e Polonia hanno fatto cadere i loro veti e hanno trovato l’accordo. Via libera, dunque, al piano di rilancio economico più grande della storia Ue. (…) [Source]

Se dovessimo sintetizzare con un grafico quanto è accaduto a livello di debito globale potremmo prendere ad esempio questo grafico esplicativo.

Molto bene, ma in soldoni, cosa significa? Significa che il debito aggregato su scala globale ha raggiunto livelli siderali se rapportato al PIL.
Il sistema si preoccupa del debito pubblico italiano. Ma come mai non si prende in considerazione in modo SERIO il debito aggregato? Ovvero i debito totale che si può calcolare in capo ad un paese. Perché, se non erro, lo Stato sono i cittadini. E allora il vero debito è dato dalla somma di tutti i debiti:

– Debito pubblico
– Debito privato
– Debito Corporate

E allora, guardate voi stessi il debito aggregato dei principali paesi mondiali come è lievitato nel periodo Covid-19. NOTATE BENE; stiamo parlando di nemmeno 12 mesi!

Non dimentichiamo che questo debito ha creato profondi squilibri e che prima o poi, bisognerà trovare il modo di farlo rientrare. Ma adesso importa poco, e a pochi.

Patrimoniale, si decide settimana prossima: riammesso al voto l’emendamento stoppato

Torna il rischio patrimoniale nella legge di Bilancio: l’emendamento di nuovo in corsa, dopo essere stato escluso in prima battuta dall’esame per problemi di copertura finanziaria

Torna il rischio patrimoniale nella legge di Bilancio. Nello specifico, gli emendamenti al Ddl bilancio sulla limitazione degli incentivi fiscali alle aggregazioni aziendali e alla istituzione di un’imposta sostitutiva patrimoniale, esclusi in prima battuta dall’esame per problemi di copertura finanziaria.

LE NORME POTRANNO ESSERE ACQUISITE DAL GOVERNO

A deciderlo, il presidente della commissione Bilancio della Camera, Fabio Melilli (Pd), in sede di valutazione dei ricorsi contro le inammissibilità delle proposte di modifica, in attesa di ulteriori informazioni sugli effetti delle due norme “che potranno essere acquisite dal governo” nel corso del passaggio in Commissione.

GLI EMENDAMENTI AL VOTO

Saranno, quindi, ammessi al voto da settimana prossima anche gli emendamenti analoghi, presentati da parlamentari del M5S, Pd, Leu e FdI, che riducono l’ambito applicativo dell’anticipazione dell’utilizzo in compensazione delle Dta. La misura prevista dal disegno di legge è stata interpretata come un incentivo alle aggregazioni bancarie, con un occhio particolare al futuro di Mps.

LA PROPOSTA DI PATRIMONIALE

L’aliquota dovrebbe essere progressiva. La proposta prevede un prelievo dello 0,2% per i patrimoni compresi tra i 500mila e un milione di euro calcolando, nel conteggio, anche il valore dei beni immobili tolto però il residuo del mutuo e altre passività. L’aliquota passerebbe allo 0,5% per i patrimoni compresi tra un milione e 5 milioni di euro, all’1% per quelli tra 5 milioni e 50 milioni di euro fino ad arrivare al 2% per i patrimoni superiori. Inoltre, è previsto un prelievo straordinario (solo per il 2021) per i patrimoni sopra il miliardo di euro del 3%, che verrebbe utilizzato per la lotta alla pandemia e per aiutare le fasce di popolazione più in difficoltà.

Draghi eterno spettro di Conte, l’idea di Renzi: ‘O Conte ter o Draghi uno’

Renzi ha un’idea: “O Conte ter o Draghi uno”. Così un articolo pubblicato sull’Huffington Post che porta la firma di Alessandro De Angelis, Vicedirettore di HuffPost e Autore Tv di Mezz’ora in più.“Ecco, il governo sembra entrato in una terra di nessuno, e infatti nessuno si assume la responsabilità di una mossa. Balla sul Mes, ma non si sa cosa voglia fare del Mes, come su Autostrade e Alitalia, discute di cenoni, regala a Berlusconi la ‘salva-Mediaset’ senza neanche averne i voti in cambio. Siamo cioè entrati in una fase in cui l’inadeguatezza è così conclamata che, se provi a capire come la pensano ai piani alti del Nazareno su progetto, durata e sul ‘che succede’ la risposta è “boh”m, scrive De Angelis. Il leader di Italia Viva sembra pronto invece a fare, prima o poi, una mossa. “Alla fine di questa storia – ripete (Renzi, stando all’articolo dell’HuffPost– o c’è il Conte ter o il Draghi 1, vedrete. Per questo Conte metterà mano alla squadra”.Da quando Draghi ha lasciato lo scranno più alto della Bce i rumor sulla possibilità che diventi presidente del Consiglio si sono intensificati, aleggiando come uno spettro di fronte al premier Giuseppe Conte.Il sito Formiche.net ha riportato di recente quanto scritto da Les Echos, il più importante quotidiano economico francese, in un articolo che ha ipotizzato l’ex numero uno della Bce non tanto nelle vesti di presidente del Consiglio, ma di presidente della Repubblica, dunque al Quirinale, nel 2022.“Una buona parte del centrodestra, Berlusconi in testa, gli darebbe il suo appoggio”, ha sottolineato nell’articolo di Pierre De Gasquet l’ex premier Enrico Letta.E qualche giorno fa Carlo Calenda, nel commentare la tenuta del governo Conte e il rischio di rimpasto, ha presentato la sua soluzione in un’intervista rilasciata a La 7, a L’aria di domenica di Myrta Merlino : “Chiamare di volata Draghi e fare un governo sostenuto dalla stessa coalizione che sostiene la Commissione Ue”. Il leader di Azione si è così espresso: “Al posto di Conte ci vuole una figura che abbia la capacità di impostare il Recovery Plan, sono solo altri soldi che vengono dati. Questi soldi possiamo impegnarli per la scuola e l’istruzione e per gestire la doppia trasformazione digitale e ambientale”.

 

I 1.700 miliardi posteggiati sui conti correnti sono la tentazione per una patrimoniale

I depositi fermi in banca sono aumentati dell’8 per cento su base annua. La patrimoniale spuntata in Manovra, punterebbe proprio all’enorme valore della liquidità

Una valanga di liquidità ferma sui conti correnti. In tempo di pandemia, i risparmi degli italiani sono addirittura aumentato. A certificarlo, sono i dati diffusi dall’Abi, che segnano un incremento della liquidità dell’8 per cento su base annua, in aumento di 125 miliardi, a quota 1.682 miliardi di euro. E mentre lievitano i danari messi da parte dagli italiani, nella prossima legge di Bilancio spunta l’idea di una patrimoniale.

I RISPARMI VALGONO PIÙ DEL PIL

Il Prodotto interno lordo a fine 2019 si attestava a quota 1.787 miliardi. Confrontando, quindi, la cifra che hanno toccato i risparmi posteggiati sui conti correnti e quella del Pil, presto si arriverà ad un sorpasso. Da una parte la liquidità è destinata ad aumentare, complice la paura per il futuro causa virus; dall’altra il Pil nei prossimi mesi calerà, depresso dal crollo della domanda, a seguito delle restrizioni anti contagio. Ma lasciare troppi soldi sul conto significa anche esporre negli anni il proprio patrimonio al costo dell’inflazione, in grado di far diminuire il valore in maniera significativa.

TENTAZIONE PATRIMONIALE?

La tentazione di mettere le mani in tasca agli italiani, in tempi di crisi, non è certo una novità. Ieri è circolata l’ipotesi di una patrimoniale con un’aliquota progressiva che prevedrebbe un prelievo dello 0,2% per i patrimoni compresi tra i 500mila e un milione di euro, nel conteggio finiscono anche i beni immobili, senza però il residuo del mutuo. Per i patrimoni tra un milione e 5 milioni di euro, invece, l’aliquota salirebbe fino allo 0,5%, per aumentare fino all’1% per quelli tra i 5 e i 50 milioni di euro, fino ad arrivare al 2% per i patrimoni superiori.

EMENDAMENTO PD E LEU

La proposta di patrimoniale è contenuta in un emendamento firmato dai deputati di Leu e dal Pd che chiede l’abolizione dell’Imu e dell’imposta di bollo sui conti correnti e di deposito titoli, per sostituirle appunto con l’aliquota progressiva della patrimoniale. Strada però in salita per l’emendamento che non piace all’opposizione e neanche allo stesso Pd che precisa come la proposta non impegni l’intero gruppo poiché “è frutto da una iniziativa individuale dei parlamentari”. Stop anche da parte di Luigi Di Maio: “Ok liberare gli italiani delle piccole tasse, dei cavilli e della burocrazia, ma nessuna patrimoniale”

Considerando l’età media delle “presunte” vittime per Covid19 , un bel risparmio per le casse dell’INPS.

Ma evidentemente…..alla LAGARDE e VISCO non basta……
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Cottarelli: crescita Pil al 2% o rischi per sostenibilità debito Italia. E l’Ue snocciola le sue stime monstre

L’Italia dovrebbe crescere del 2% circa per sventare il rischio di un debito pubblico insostenibile. Lo ha detto Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, intervenendo al Forum Sistema Salute, in corso di svolgimento a Firenze:
“Se portiamo l’economia italiana a una crescita del 2%, che non è facile, il debito sarà sostenibile, altrimenti nel medio periodo i rischi ci sono. Non stiamo prendendo a prestito molto dai mercati ma prendiamo dalle istituzioni europee, dalla Bce e dalla Commissione europea e questo comporta rischi politici”, ha aggiunto, sottolineando la necessità di lavorare per stimolare la ripresa:“Superata la pandemia la crescita potrà essere anche del 6%, ma guardando al di là del 2021 dobbiamo fare le riforme per essere in grado, nei prossimi anni, di fare una crescita del 2%”.Dal canto suo, il commissario Ue agli Affari economici e monetari Paolo Gentiloni ha rassicurato sulla sostenibilità del debito italiano:
“Credo che non ci sia oggi alcuna preoccupazione sulla sostenibilità” del debito dell’Italia, “c’è la necessità, nel medio periodo, di mettere il debito in un percorso sostenibilità e credo che questa preoccupazione sia pienamente condivisa dal governo italiano”, ha detto, rispondendo a una domanda nel corso della conferenza stampa relativa alle ultime previsioni economiche della Commissione.
L’attenti al debito pubblico italiano da parte di Cottarelli, ex Commissario alla Spending Review e anche ex FMI, è arrivato nelle stesse ore in cui la Commissione europea ha snocciolato il proprio outlook sui paesi Ue. Per l’Italia, Bruxelles prevede un boom del rapporto debito-Pil, nel 2020, a causa delle conseguenze economiche della pandemia da coronavirus COVID-19. La previsione è di un debito che schizza al 159,6% del Pil, quest’anno, rispetto al 134,7% del 2019. Il ratio debito-Pil non è atteso neanche rallentare in modo significativo negli anni a seguire: l’Ue stima infatti un lieve ribasso al 159,5% nel 2021 e al 159% nel 2022.
Il rapporto deficit-Pil dell’Italia è atteso al 10,8%, nel 2020, per poi rallentare al 7,8% e al 6% nel 2021 e nel 2022, valori percentuali ancora importanti.
Pessime sono, d’altronde, le stime sul Pil dell’Italia, atteso cadere del 9,9% quest’anno, comunque in miglioramento rispetto all’outlook del tonfo dell’11,2% contenuto nelle previsioni di luglio. Le stime relative al 2021 sono state tuttavia tagliate a +4,1%, mentre per il 2022 la Commissione prevede una espansione pari a +2,8%. In ogni caso, il ritorno ai livelli pre-pandemia non avverrà entro il 2022.
L’Ue stima anche un vero e proprio crollo dell’occupazione, con un tonfo -10,3% quest’anno a causa degli effetti nefasti della pandemia, seguito da recuperi parziali nei prossimi due anni, pari a +6,1% nel 2021 e a +2,4% nel 2022.
Il tasso di disoccupazione è atteso scendere invece dal 10% del 2019 al 9,9% nel 2020 (ma il dato non tiene conto degli inattivi), per poi rimbalzare all’11,6% nel 2021, e riscendere all’11,1% nel 2022 (rispetto alla media della disoccupazione dell’area euro, che nel 2022 sarà pari all’8,9%).

 

Dpcm, Cottarelli: ‘provvedimenti necessari ma nel momento sbagliato’

Cottarelli si è espresso anche sul nuovo Dpcm, che ieri sera il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha presentato in conferenza stampa:
“Purtroppo questi provvedimenti a questo punto erano necessari ma arrivano dal punto di vista economico nel momento sbagliato perché l’economia italiana, dopo il lockdown, stava ripartendo”.
E’ un fatto positivo però, secondo l’economista, la differenziazione su base territoriale.
“Io – ha spiegato – credo che sia stato giusto fare le chiusure parziali mentre il lockdown totale forse è stato esagerato. A marzo-aprile si è fatto tutto uguale per tutti, ma è stato come fare i tagli lineari, che si fanno per non entrare nelle discussioni e spiegare perché per te sì e te no. Il criterio di usare dei parametri mi pare sia inevitabile”.
Quella delle amministrazioni regionali, come la Lombardia, che recriminano contro la decisione del governo, per Cottarelli, “è una reazione naturale, ma non è buona e si dovrebbe evitare”.
L’attenti al debito pubblico italiano da parte di Cottarelli, ex Commissario alla Spending Review e anche ex FMI, è arrivato nelle stesse ore in cui la Commissione europea ha snocciolato le previsioni sull’economia

Chimera pensione per i giovani: i calcoli per età e genere. La previdenza integrativa diventa una necessità con tassi sostituzione a picco

L’allarme pensioni è sempre più pressante in Italia, in particolar modo per generazioni quali i Millenials. Nel 2020 in Italia il rapporto spesa pensionistica/PIL – uno degli indici con cui si misura la sostenibilità del welfare pubblico – è schizzato al 17% ben oltre il 15% che dieci anni fa si prevedeva per quest’anno. A preoccupare sono poi i fattori demografici con l’OCSE  che ricorda come chi entra oggi nel mondo del lavoro passerà il 33,6% della propria vita in pensione. Ad oggi solo il 35% dei lavoratori dipendenti ha deciso di destinare il proprio TFR a una forma di previdenza integrativa. Complessivamente, solo 23 italiani su 100 stanno versando in previdenza integrativa, ossia solo 1 italiano su 4 sta pensando al proprio futuro pensionistico. Tra l’altro, a fine 2019, si registrano oltre 2 milioni (2.179.285) di silenti ossia persone che hanno un fondo pensione ma che hanno smesso di versare.
Numeri che invitano ogni cittadino a riflettere sulla sempre più stringente necessità di integrare la pensione pubblica con una qualche forma di previdenza complementare.

 

Pensione pubblica: tassi di sostituzione a picco per i 30enni

Una ricerca realizzata da Moneyfarm in collaborazione con Progetica si sofferma proprio sulla previdenza integrativa e elabora un caso di studio ad hoc su 8 profili di italiani, pari a 3.251.626 abitanti, (poco più del 5% della popolazione) di uomini e donne oggi trentenni, quarantenni, cinquantenni e sessantenni.

Per quanto riguarda la pensione pubblica per il 44% di occupati in queste fasce d’età, rappresentativi di 1.430.877 lavoratori, l’età di pensionamento va dai 66 anni e 11 mesi delle sessantenni fino ai 72 anni dei trentenni. La stima dei valori delle pensioni medie nette oscilla tra i 1.227€ delle donne quarantenni e i 1.560€ degli uomini sessantenni, con una media complessiva per gli 8 profili di 1.337€ netti al mese. I tassi di sostituzione percentuali cadono a picco per le nuove generazioni, passando dal 71% di coloro che oggi hanno 60 anni al 48% per le donne che hanno compiuto 30 anni nel 2020. L’obiettivo di poter contare sull’80% del proprio stipendio al momento della pensione appare quindi appartenere al al passato.

Forbice salariale tra uomini e donne

Per il valore della pensione, considerando la curva media di evoluzione dei redditi nel tempo dei lavoratori dipendenti del settore privato, la forbice tra uomini e donne è nell’ordine del 17%-18% per le donne trenta-quarantenni e 21%-22% per cinquanta-sessantenni, con una media del 19,7%. L’effetto della forbice salariale si esprime sul valore della pensione, soprattutto al crescere dell’età, con differenze comprese tra il 6% e il 21%, con una pensione media di 1.438€ per gli uomini e di 1.236€ per le donne, equivalente ad una forchetta del 16%. Le stime fatte da Moneyfarm ipotizzano continuità lavorativa dai 25 anni fino al momento della pensione. Inoltre, assumono la permanenza della legislazione corrente, elemento non scontato visto il lungo periodo e le pressioni sul sistema previdenziale.

L’apporto della previdenza integrativa

Tra i lavoratori occupati del campione (1.430.877), quelli con un fondo pensione sono quasi uno su tre (31,7%), circa 454.291 iscritti, con una pensione integrativa media ottenibile in futuro di 371€ netti al mese, mentre per gli uomini è di 423€, per le donne di 320€, con una forbice del 32%. Gli uomini trentenni di oggi che hanno già iniziato a contribuire potranno ottenere 765€ netti al mese ma il problema – afferma la ricerca – è che solo il 25% dei giovani lavoratori e il 20% delle giovani lavoratrici analizzati ha oggi un fondo pensione.

Sommando previdenza pubblica e complementare dei 3.251.626 cittadini (inclusi anche gli inattivi e i disoccupati) nati negli anni presi oggetto di indagine, solo il 14% ha un fondo pensione e potrebbe garantire complessivamente 1.708€ netto al mese. Il 30% del campione non ha un fondo pensione e potrebbe quindi contare solo della pensione pubblica, di 1.337€ netto al mese. Un 9% di inoccupati potrebbe avere un fondo pensione, ma probabilmente ha smesso di versare. Il restante 47% potrà sostenersi solamente con pensioni già in erogazione o altre forme assistenziali.

L’identikit dell’italiano che versa in previdenza integrativa

Il progetto di ricerca targato MoneyFarm poi traccia l’identikit dell’italiano che versa in pensione integrativa: si iscrive tardi, versa poco, con un basso rischio e alla fine preferisce avere un capitale: ecco l’identikit dell’aderente medio alla previdenza integrativa che lascia purtroppo poco spazio alle interpretazioni. Chi sta facendo qualcosa, oggi, in media, non sta facendo abbastanza. L’aderente medio è maschio (al 62%), ha 46 anni, versa 225€ al mese, finora ha messo da parte 22.400€ e al termine preferisce riscattare l’intero capitale. Se differenziamo per generi e per età gli uomini mensilmente versano di più (237€) delle donne (192€). Il contributo medio sale all’aumentare dell’età e quindi delle disponibilità economiche.
A livello nazionale, a fine 2019, si sono accantonati 178€ miliardi in previdenza integrativa (22.400€ medio per iscritto); per quasi una posizione su quattro, tuttavia, il capitale accumulato non supera i 1.000€ complessivi. Numeri che fanno molto riflettere su quanto stiano effettivamente facendo quei pochi cittadini catalogati come “italiani che stanno versando per il proprio futuro pensionistico”.
Paolo Galvani, Co-fondatore e Presidente di Moneyfarm, ha commentato: “E’ fondamentale accompagnare il cittadino, tramite un valido e concreto supporto, nella scelta di una pensione integrativa. Un servizio che aiuti a comprendere meglio le caratteristiche di ciò che offre il mercato e a superare l’inerzia che spesso impedisce di pensare al futuro. Nei paesi dove la previdenza integrativa è più diffusa, il cittadino ha mediamente più familiarità con il concetto di pianificazione finanziaria e sa riconoscere il valore della consulenza professionale”.

Mezzo milione di pensionati italiani è finito all’estero. Ecco perché

Clima mite e salubre, costo della vita inferiore a quello italiano, buoni servizi sanitari. E soprattutto tasse azzerate, o quasi. Questi gli ingredienti di un fenomeno sempre più importante nel nostro Paese: la fuga dei pensionati, che si accompagna peraltro a quella dei “cervelli” e dei giovani. Quest’anno oltre 500mila titolari di trattamento previdenziale Inps risultano essere all’estero, sparpagliati in 160 diversi Paesi del mondo dove ricevono assegni dall’Istituto di previdenza italiano per oltre un miliardo di euro l’anno. In alcuni casi si tratta di somme esentasse (come nel caso del Portogallo per i primi dieci anni, del Sudafrica o della Bulgaria), in altri l’imposizione fiscale è decisamente inferiore a quella italiana.Vediamo i dati Inps relativi al 2018. Innanzitutto va sottolineato che buona parte di queste pensioni hanno importi molto bassi, perché chi le incassa ha lavorato in Italia solo pochi anni per poi emigrare oltreconfine. È il caso per esempio del Canada, dove l’Inps paga 54mila pensioni ma con un importo medio mensile di 107 euro, della Germania (52mila assegni da 138 euro al mese) e della Svizzera (47mila pensioni inferiori in media ai 200 euro).

Figura 1: I pensionati italiani all’estero (nel 2018)

Fonte: INPS

Cosa considerare quando si sceglie di espatriare

C’è però anche chi decide di espatriare dopo la pensione, evitando un’imposizione fiscale italiana che è identica a quella già pagata una prima volta sullo stipendio. Per scegliere la meta estera ideale vanno tenuti in considerazione in particolare cinque elementi: il trattamento fiscale, il costo della vita, il livello di assistenza sanitaria, l’appartenenza del Paese estero all’eurozona (che elimina il rischio di oscillazioni valutarie per chi riceve la pensione in euro e spende in un’altra moneta) e naturalmente, dulcis in fundo, il clima.Negli ultimi anni si è assistito al boom del Portogallo, dove l’Inps nel 2018 ha pagato 1914 pensioni con un importo medio mensile di 2.545 euro. Un successo legato all’introduzione del regime speciale per i cosiddetti “residenti non abituali”, che permette per dieci anni consecutivi di non pagare un centesimo di tasse sulle pensioni estere. A questo vanno aggiunte la stabilità politica ed economica del Portogallo, il buon sistema sanitario, l’ottimo clima e l’appartenenza all’eurozona. Senza dimenticare il costo della vita: a Faro, capoluogo della regione meridionale dell’Algarve particolarmente presa di mira dagli italiani, una cena al ristorante costa 10 euro e un monolocale 400 euro di affitto al mese.

I paesi più amati

Scorrendo la classifica dei Paesi più amati dai pensionati d’oro tricolori, scopriamo al primo posto Cipro, dove l’Inps eroga 175 assegni in media di 5.481 euro al mese. L’isola del Mediterraneo orientale, parte della Ue e dell’eurozona, ha un’imposizione fiscale massima sulle pensioni estere del 5% ma un costo della vita inferiore di un quarto a quello medio italiano. Aggiungiamoci un buon sistema sanitario, un ottimo clima e il fatto che tutti parlano l’inglese (essendo l’isola una ex colonia britannica) e l’attrazione fatale per Cipro diventa più che comprensibile. Di tutto riguardo anche i 67 assegni pagati dall’Inps negli Emirati Arabi, pari in media a 3.606 euro mensili, seguiti da Portogallo (pensione media di 2.545 euro), Turchia (2.409 euro) e Malta (2.000 euro).Scendendo nella classifica, dopo una puntata orientale in Cina (con 1.683 euro di assegno medio mensile Inps) e Thailandia (1.444 euro) troviamo la Tunisia, molto apprezzata dai pensionati del Mezzogiorno, dove al clima mite e a un costo della vita inferiore del 60% a quello medio italiano si aggiunge la possibilità di esenzione fiscale completa sull’80% dell’assegno previdenziale, con una tassazione massima del 7% sulla parte restante. Il basso costo della vita è anche il piatto forte offerto da Bulgaria e Romania, con la prima che considera esentasse le pensioni estere e la seconda che applica un’aliquota del 10%. Senza dimenticare le sempreverdi isole atlantiche dove la colonnina di mercurio fatica a scendere sotto i 20 gradi, ovvero le spagnole Canarie e la portoghese Madeira.

Figura 2: Dove vivono i “pensionati d’oro” italiani (importi medi in euro nel 2018)

Fonte: INPS

Ma quali sono i requisiti per poter espatriare con la propria pensione lorda e pagare le tasse all’estero? Innanzitutto bisogna trasferire la propria residenza oltreconfine, iscrivendosi all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) attraverso l’ambasciata o i consolati tricolori: per farlo è necessario non essere stati iscritti all’anagrafe dei residenti in Italia per oltre metà anno, ossia 183 giorni che salgono a 184 negli anni bisestili. È inoltre fondamentale verificare che lo Stato estero abbia firmato un’intesa con l’Italia contro le doppie imposizioni, che deve prevedere la tassazione esclusiva nel Paese straniero di residenza.

Tutto questo però non basta. Secondo gli esperti è anche importante evitare di mantenere il cosiddetto “centro degli interessi vitali in Italia”, ovvero la proprietà per esempio di immobili o altri beni, che attirerebbe l’attenzione dell’agenzia delle Entrate, alla ricerca di residenze fittizie all’estero costruite solo allo scopo di eludere il fisco. Ma se si è in regola non ci sono problemi. Come possono testimoniare mezzo milione di pensionati Inps da 160 Paesi stranieri.

Licenziamenti, i settori e le categorie di lavoratori che rischiano di più quando terminerà il blocco

Quando verrà tolto il blocco dei licenziamenti, su cui governo e sindacati stanno trattando per una ulteriore proroga, la crisi Covid porterà probabilmente un conto pesante per l’occupazione, che potrebbe ulteriormente aggravarsi se nuovi lockdown anche circoscritti o parziali dovessero verificarsi nelle prossime settimane. Sono circa 1 milione i posti di lavoro a rischio nelle piccole e medie imprese (Pmi) tra inizio 2020 e 2021. Un bilancio pesante per 1,5 milioni di aziende con meno di 250 addetti i cui organici potrebbero contrarsi di circa il 10%. É quanto emerge dall’indagine “Crisi, emergenza sanitaria e lavoro nelle Pmi”, condotto dal Consiglio Nazionale Consulenti del Lavoro.Il possibile bilancio occupazionale a fine anno potrebbe essere drammatico in particolare per gli alberghi e la ristorazione, dove più della metà dei rispondenti (51,6%) prevede una riduzione degli organici superiore al 15%. Ma anche per le aziende che operano nella filiera del tempo libero e della cultura le previsioni sono critiche: il 27,2% dei consulenti si aspetta una riduzione della base occupazionale tra il 10 e 15% e ben il 30% di loro una superiore al 15%. Per entrambi i settori pesa e peseranno, infatti, ancora di più nei prossimi mesi, il crollo dei flussi turistici, e altresì le restrizioni indotte dall’emergenza sanitaria. Per i settori del credito e assicurazioni e dell’informazione e comunicazione, invece, le previsioni di riduzione a fine anno risultano molto più contenute. Rispettivamente il 29,3% e 24,5% pensa che l’impatto della crisi sarà nullo, mentre per la maggioranza (37,9% e 35%) questo si fermerà al massimo al 5%.Chi rischia di più tra sblocco dei licenziamenti e avvio delle ristrutturazioni aziendali? Tra le tipologie di lavoratori più a rischio, i consulenti del Lavoro non hanno dubbi ad individuare al primo posto (con il 41,1% delle risposte) i dipendenti delle piccole aziende: come confermato da diversi elementi emersi dall’indagine, è in questo segmento produttivo che potrebbero concentrarsi il grosso delle perdite e determinare, per gli addetti che vi lavorano, un rischio molto maggiore rispetto a chi lavora in aziende più strutturate. A seguire, ma ben distanziato, circa un terzo dei rispondenti indica i commercianti come specifica categoria a rischio, molto più di quanto non lo siano gli artigiani, indicati solo al decimo posto tra le figure a rischio di perdere il lavoro. Subito dopo vengono i lavoratori a bassa qualificazione (29,5%), già individuati dalle recenti statistiche ufficiali come un segmento particolarmente critico e gli over 55 (31,4%): l’esigenza di ricambio, legata anche al fabbisogno di nuove competenze per il rilancio delle imprese, rischia di vedere la componente senior dell’occupazione più penalizzata di altre.

BTP infettati da debito pubblico, ora da bolla ‘grazie’ a Bce. Ex FMI: ‘l’Italia e la follia dei mercati

Basta dare una occhiata allo spread BTP-Bund e ai tassi sui BTP italiani per capire fino a che punto i mercati siano distorti. Parola di Desmond Lachman, docente presso l’American Enterprise Institute ed ex vice direttore del dipartimento di Sviluppo e revisione del Fondo Monetario Internazionale.

 

“Chiunque abbia dubbi su come i mercati dei debiti globali siano ormai distorti a causa degli acquisti di bond (sovrani) effettuati dalle banche centrali, dovrebbe guardare al mercato dei titoli di stato dell’Italia. Grazie al programma massiccio di acquisto dei bond lanciato dalla Banca centrale europea (Bce), un governo altamente indebitato come quello italiano può ora contrarre prestiti nel breve termine a un tasso di interesse pari a zero, e in un orizzonte di 10 anni a un tasso inferiore all’1%”.
Roba da pazzi, secondo Lachman, che prosegue, non nascondendo un certo sarcasmo:
E “non importa che la pandemia COVID-19 abbia messo il debito sovrano italiano in un percorso insostenibile, indebolendo il suo sistema bancario già instabile. Non importa allo stesso modo che, stretta nella camicia di forza dell’euro e impantanata in una recessione economica profonda, l’Italia abbia poche prospettive per riuscire a sanare i suoi conti pubblici presto”.
Desmond Lachman è noto per gli articoli con cui ha descritto i problemi endogeni dell’Italia.
Già a maggio, aveva paventato il peggio per il paese, pronosticando un’intervento da parte dello Stato per salvare le banche strozzate dalla crisi COVID-19, per un importo pari al 10-15% del Pil italiano, definendo il sistema bancario italiano “shaky”, “instabile”.
“Epicentro della pandemia europea del coronavirus – aveva avvertito l’ex FMI – “l’economia italiana secondo le stime ufficiali dovrebbe crollare del 10% circa nel 2020: una situazione che, probabilmente, metterebbe i conti pubblici in una traiettoria chiaramente insostenibile”.
Lachman aveva prospettato uno scenario di rialzi del debito-Pil, visto che “il paese continua ad avere difficoltà a generare una crescita economica”, proprio a causa di quella camicia di forza dell’euro che l’ex Fmi non dimentica di citare in quasi ogni articolo che scrive e che verte sull’Italia.
Anche in quest’ultimo, parla di un “euro straitjacket” (camicia di forza, per l’appunto), che priva il paese di una politica monetaria indipendente o di una politica di tassi di cambio che, se ci fossero, potrebbero agire magari alla stregua di cuscinetto o scudo.
Allo stesso tempo, l’articolo è un’accusa contro la politica monetaria della Bce, che sta distorcendo i mercati dei debiti sovrani, gonfiando praticamente il valore dei BTP:
“Se il mercato dei capotali funzionasse in modo appropriato, i tassi di interesse italiani salirebbero rispetto a quelli degli altri paesi, per riflettere il forte peggioramento delle finanze pubbliche. Ma queste utili indicazioni di mercato ora sono ostacolate dagli acquisti massicci di bond da parte della Bce, che non si limita più, con il suo strumento di Quantitative easing, ad acquistare i bond sovrani in relazione ai contributi di ogni paese al suo capitale (regola del capital key), visto che sta acquistando ora un ammontare immenso di bond italiani in modo sproporzionato. Di fatto, negli ultimi mesi, si stima che la Bce abbia continuato ad acquistare bond governativi italiani sul mercato secondario per un ammontare superiore ai bisogni di finanziamento del paese”.
Lachman ammette che lo shopping che la Bce sta facendo di titoli governativi italiani è una strategia per sventare il pericolo che si verifichi un altro debito sovrano del paese.
“Ma, nel continuare ad agire in questo modo, (la Bce) sta incoraggiando gli investitori a continuare a erogare prestiti a un paese che, in base a qualsiasi parametro di giudizio ragionevole, dovrebbe essere considerato alle prese con un problema molto grave di solvibilità. A meno che non crediamo che la Bce possa essere pronta ad acquistare più di 500 miliardi di euro di bond governativi italiani da qui all’infinito, prima o poi per chi acquista i BTP arriverà il giorno del giudizio“.

Visco (Bankitalia): ‘attenzione ai nuovi rischi sulla stabilità finanziaria’

“Dobbiamo fare attenzione alla stabilità finanziaria. Ci sono nuovi rischi alla stabilità finanziaria che vanno oltre a quelli che abbiamo sperimentato in passato, soprattutto nel settore bancario, e che hanno a che fare con la finanza non bancaria”. Lo ha detto il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, in un’intervista rilasciata a Bloomberg TV.Ancora, ha detto Visco, la presidenza italiana del G20 si focalizzerà sul nuovo modo di vivere. In particolare, una delle trasformazioni su cui ci si focalizzerà sarà quella “digitale”.La presidenza italiana discuterà della digitalizzazione, di come renderla veicolo più efficace per la produttività e di come considerare in qualche modo l’innovazione digitale anche nel sistema dei pagamenti e dei servizi finanziari, per un aumento della consapevolezza e delle competenze e un approccio più adeguato verso la supervisione e per la tutela dei consumatori”.

 

World Economic Outlook, Fmi su Italia: deficit-Pil al 13%, debito-Pil boom al 161,8% in 2020

Rimangono pessime le stime del Fondo Monetario Internazionale sui conti pubblici italiani. Stando a quanto emerge dal World Economic Outlook appena diramato, il rapporto deficit-Pil dell’Italia del 2020 è atteso in rialzo al 13%, rispetto all’1,6% del 2019 e pari al 6,2% nel 2021. Il rapporto deficit-Pil continuerà a scendere fino al 2,5% del Pil nel 2025.Il rapporto debito-Pil è atteso balzare dal 134,8% del 2019 al 161,8% nel 2020 per poi scendere (ma neanche di tanto) al 158,3% nel 2021. Guardando al 2025, l’Fmi stime un debito-Pil ancora molto alto, pari al 152,6%.

 

Mef, entrate fiscali primi 8 mesi calano a 271,6 miliardi

In calo le entrate tributarie dei primi 8 mesi del 2020 (-5,8%). Aumentano le imposte dirette ma calano quelle indirette. Giù anche il gettito delle accise.

Nei primi 8 mesi dell’anno, le entrate tributarie erariali accertate in base al criterio della competenza giuridica ammontano a 271,566 miliardi, segnando una riduzione di 16,692 miliardi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-5,8%).Lo rende noto il Mef precisando che la variazione negativa riflette sia il peggioramento congiunturale sia gli effetti delle misure adottate dal Governo per fronteggiare l’emergenza sanitaria.Infatti, dopo l’andamento positivo registrato nel primo bimestre dell’anno (+5,4%) legato, in particolare, alla dinamica favorevole dei versamenti dell’imposta sostitutiva sui redditi da capitale e sulle plusvalenze e di quelli dell’imposta sostitutiva dovuta sulle forme pensionistiche complementari e individuali, nei mesi successivi la diminuzione del gettito delle entrate tributarie è stata influenzata dagli effetti dei vari interventi normativi che hanno disposto la sospensione di versamenti tributari e contributivi per alcune categorie di contribuenti e settori di attività.

I versamenti sospesi

I versamenti sospesi, secondo quanto disposto dal decreto Agosto, potranno essere effettuati, senza applicazione di sanzioni ed interessi, per un importo pari al 50%, in un’unica soluzione o mediante rateizzazione fino a un massimo di quattro rate mensili di pari importo, con il versamento della prima rata entro il 16 settembre 2020.Il versamento del restante 50% delle somme dovute può essere effettuato, sempre senza sanzioni e interessi, con un massimo di 24 rate mensili di pari importo, con il versamento della prima rata entro il 16 gennaio 2021.

Il paragone col 2019

Il risultato dei primi otto mesi del 2020 rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente, inoltre, presenta elementi di disomogeneità dovuti al fatto che i versamenti di quest’anno comprendono quelli dei contribuenti Isa e “minimi o forfettari” che, nell’anno 2019, avevano versato a scadenze differite rispetto a quelle ordinarie per effetto della proroga dei versamenti.Nel mese di agosto, infatti, le entrate tributarie hanno registrato una variazione positiva di 2,503 miliardi (+6,6%) determinata dalle imposte dirette che crescono di 4,757 miliardi (+28,4%) per effetto dei versamenti di Irpef e Ires derivanti dall’autotassazione dei titolari di partita Iva e di quelli forfettari, mentre le imposte indirette segnano ancora un calo di 2,254 miliardi (-10,5%).Il risultato, tuttavia, registrato nel mese risulta ancora non molto significativo, in quanto legato al risultato delle imposte autoliquidate che risultano influenzate dal diverso termine di versamento del mese di giugno dell’anno 2020 rispetto al 2019 in cui il termine di versamento è stato ulteriormente prorogato fino al 20 agosto.

Le imposte dirette

Le imposte dirette ammontano a 159,689 miliardi, con un incremento di 7,128 miliardi (+4,7%) rispetto allo stesso periodo del 2019. Il gettito Irpef si è attestato a 122,185 miliardi (+0,3%), mostrando una sostanziale stabilità.L’andamento delle ritenute sui redditi dei dipendenti del settore privato e sui redditi di lavoro autonomo mostra rispettivamente una flessione dell’8,5% e dell’8,9%, mentre le ritenute sui redditi dei dipendenti del settore pubblico registrano un incremento pari al 4,7%. L’Ires segna un incremento di 3,922 miliardi (+29,7%).

Le imposte indirette

Le imposte indirette ammontano a 111,877 miliardi con una flessione di 23,820 miliardi (-17,6%). Il calo significativo è imputabile principalmente alla diminuzione dell’Iva (-113,126 miliardi pari a -15,6%) e, in particolare, alla componente scambi interni (-10,515 miliardi pari a -14%), per effetto del rinvio dei versamenti dell’Iva.Il gettito dell’Iva sulle importazioni registra nel periodo un calo pari a -2.611 milioni di euro (-28,2%). Tra le altre imposte indirette registrano un incremento le entrate dell’imposta sulle assicurazioni, pari all’1,4%, e quelle dell’imposta di bollo +3,9%, mentre il gettito dell’imposta di registro segna una diminuzione del 23%.

Le accise

Il gettito dell’accisa sui prodotti energetici, loro derivati e prodotti analoghi, diminuisce di 4,290 miliardi (-27,1%) per effetto dell’applicazione del decreto rilancio, con il quale sono state ridotte le percentuali degli acconti mensili all’80%.Hanno mostrato una diminuzione di gettito anche l’accisa sul gas naturale per combustione (-449 milioni di euro, -18,5%), l’accisa e imposta erariale sui gas incondensabili (-108 milioni di euro, -26,3%) e l’accisa sull’energia elettrica e addizionale (-57 milioni di euro, – 3%).Le entrate relative ai “giochi” ammontano, nei primi otto mesi 2020, a 5,849 miliardi (-4,469 miliardi, -43,3%).Il gettito delle entrate tributarie erariali derivanti da attività di accertamento e controllo si è attestato a 5,564 miliardi (-2,369 miliardi, pari a -29,9%) di cui: 2,544 miliardi (-1,627 miliardi, -39,0%) sono affluiti dalle imposte dirette e 3,020 miliardi (-742 mln, -19,7%) dalle imposte indirette.

Il decreto Cura Italia

I risultati, precisa il Mef, sono influenzati dal decreto “Cura Italia” che aveva già sospeso i termini di versamento delle entrate tributarie ed extratributarie derivanti da cartelle di pagamento emesse dagli agenti della riscossione nel periodo dall’8 marzo al 31 maggio 2020, termini ulteriormente prorogati dal Decreto Rilancio fino al 31 agosto.Il recente dl ha prorogato, dal 31 agosto al 15 ottobre, il termine della sospensione della notifica di nuove cartelle e dell’invio degli atti della riscossione disponendo, inoltre, la sospensione dei pagamenti relativi a cartelle, avvisi di addebito e avvisi di accertamento esecutivi in scadenza dall’8 marzo: il pagamento dovrà essere effettuato entro il 30 novembre 2020.

Nadef, CdM: debito-Pil in calo dal 158% al 155,6% nel 2021, ‘percorso di graduale rientro’

“Rispetto al 2020, nel quadro programmatico di finanza pubblica, il rapporto debito/PIL nel 2021 è previsto in calo di 2,4 punti percentuali, portandosi dal 158 % al 155,6 %. Per gli anni successivi viene delineato un percorso di graduale rientro del rapporto, con l’obiettivo di riportare il debito della P.A al di sotto del livello pre-Covid entro la fine del decennio”. E’ quanto si legge nel comunicato del Consiglio dei Ministri, che nella notte ha approvato il Nadef.

 

Prometeia: Italia, con stimolo fiscale 100 MLD deficit-Pil 10,9% in 2020, debito-Pil 158,1%

“Quest’anno lo stimolo fiscale da 100 miliardi complessivi (da parte del governo) farà balzare il deficit/Pil italiano al 10,9% (dall’1,6% del 2019). Il debito/Pil salirà al 158,1% per poi scendere nei prossimi anni”. Così Prometeia, società italiana di consulenza e ricerca economica per banche, assicurazioni e imprese, nel rapporto di previsione di settembre “Italia fuori dalla crisi nel 2023 ma solo con uso efficace dei fondi Ue”. Prometeia precisa che “gli effetti sui conti pubblici implicherebbero un maggiore disavanzo di circa mezzo punto percentuale ogni anno, ma i bassi tassi di interesse e la maggiore crescita consentirebbero una riduzione del rapporto debito/Pil, dal 158% nel 2020 al 152% nel 2023”

Prometeia: Italia fuori da crisi nel 2023, fondi Next Generation EU saranno utilizzati solo al 70%

“La crisi da Covid-19 ha portato l’economia italiana ai livelli di ‘benessere economico’ degli anni ’90. Il punto di minimo è stato superato tra aprile e maggio, e il rimbalzo sta assumendo una forma a “V”, ma la ripresa rimane in salita: Prometeia in particolare prevede che i fondi del Next Generation EU verranno utilizzati dall’Italia solo al 70% del totale, a causa delle storiche difficoltà del nostro Paese a scegliere e portare a termine progetti di investimento con scadenze così stringenti”. Così Prometeia, società italiana di consulenza e ricerca economica per banche, assicurazioni e imprese, nel rapporto di previsione di settembre.

Italia, calma apparente: Covid e debito resta ‘un abbraccio mortale’. Mazziero stima calo Pil più ampio del previsto

L’Italia si è presentata “fragile a questo evento imprevisto, ma prevedibile. Intendiamo come prevedibile non tanto il fatto che di possibile pandemia si parlasse in ambienti scientifici, ma del fatto che se non vi fosse stata la pandemia vi sarebbe stato qualche altro elemento scatenante una crisi; le crisi giungono ciclicamente e questo sta nell’ordine delle cose”. Parte così il 39° Osservatorio trimestrale sui dati economici italiani elaborato dalla Mazziero Research, che presenta pienamente gli effetti del deterioramento economico legato al Covid-19.Certo, Mazziero Research sottolinea che c’è stato il provvidenziale intervento dell’Unione europea che “ha aperto i cordoni della borsa, beneficiando l’Italia ben più di altri; fortunatamente nessuno a Bruxelles sta ora guardando alla sostenibilità dei conti pubblici; fortunatamente la Bce sta acquistando copiosamente l’ingente mole di emissioni di titoli di Stato. Ma tutto ciò non va inteso come una cuccagna che durerà a lungo: presto o tardi si tornerà a guardare i conti pubblici e a come i prestiti siano stati spesi. Se i frutti resteranno miseri, come nel passato, dopo i prestiti non resteranno che le elemosine”. Entrando più nel dettaglio delle previsioni, pur con un possente rimbalzo nel secondo semestre, Mazziero Research stima che il Pil italiano subirà nel 2020 un calo dell’8,2%. “Se a questo dato associamo un debito a fine anno che potrebbe aggirarsi tra 2.566 e 2.598 miliardi ci troviamo con un debito/Pil che balzerebbe dal 134,6% al 161,6% e un deficit/Pil dal 1,6% al 10,8%”, spiegano gli esperti.

 

ITALIA, troppa grazia! Dove è finito il premio al rischio?

Se dovessimo guardare il mercato obbligazionario, mi verrebbe quasi da chiedermi se veramente vale ancora il detto “il mercato sconta tutto” oppure “il mercato non sbaglia mai”. Perché la fotografia dell’Italia che vediamo grazie ad alcuni grafici, è quella di un paese che non si trova in particolari difficoltà. Non dimentichiamo infatti che il nostro debito PIL decollerà oltre area 160%, che la nostra produzione è ancora a marcia super ridotta, che abbiamo problemi di sostenibilità in tutti i settori, oltre che problemi di natura demografica. Insomma, di dubbi ce ne sono tantissimi. Intanto però questo è quanto vediamo oggi.

Grafico 1: Italia Germania Spread: Titoli di Stato e CDS

Se guardiamo lo spread tra Germania e Italia, o ancor meglio il contratto assicurativo anti default (CDS), notiamo che il nostro titolo di stato addirittura ha migliorato considerevolmente il suo livello di sicurezza.

Grafico 2: BTP benchmark, i rendimenti

Se andiamo a vedere i rendimenti dei titoli BTP benchmark, notiamo che i titoli a uno e due anni restano a rendimenti negativi, mentre a 5 anni siamo a +0.3%. In altri termini, vincolo il mio denaro fidandomi ciecamente dell’Italia per 5 anni, accontentandomi di uno 0.3% lordo. Morale: azzeramento TOTALE del premio al rischio.

Grafico 3: possibilità di default e ItalExit? Minime.

E di conseguenza, le possibilità scontate dal mercato sia di default del nostro debito, che di uscita dell’Italia dall’Euro, sono ridotte al lumicino.
Una mano l’ha data probabilmente il risultato elettorale che scongiora a breve il rischio elezioni. Sicuramente continua ad aiutare l’immane massa di liquidità presente sul mercato. Sicuramente influisce in modo determinante la “mano” della BCE e le prospettive di miglioramento (…) post utilizzo Recovery Fund. M a detto tutto questo, l’Italia merita tanta grazia?

(…) Tra giugno e luglio gli investitori esteri hanno sottoscritto titoli italiani per 14 miliardi di euro compensando solo in parte la fuga di marzo e aprile quando, in coincidenza con lo scoppio della pandemia, si registrarono 66 miliardi di riscatti netti. Questi numeri secondo Unicredit segnalano che il mercato è ancora piuttosto riluttante ad esporsi sul rischio Italia alla luce del peggioramento dei fondamentali (il netto aumento del debito per fronteggiare la pandemia) e dell’ipotesi di declassamento del rating che non è ancora del tutto scongiurata. (…)

Vedendo quanto scritto sopra, sembra invece che sia esattamente l’opposto. Anche perché mancano teoricamente quelle basi su cui poggiare le speranze di una ripresa e di una maggiore solvibilità. Quelle basi sono date da una solida ripresa. E quindi puntiamo tranquillamente il dito contro la BCE, che in questo contesto di mercato, resta in ogni caso molto “supportive” per il debito italiano, essendo in modalità ultra-accomodante. E siccome tutti sanno bene che non conviene “sfidare le banche centrali” possiamo anche dire che nemmeno l’arrivo di nuova carta dovrebbe appesantire in modo significativo i prezzi dei nostri BTP. Anzi, lo spread è un plus che tenderà a restringersi proprio grazie alla BCE. Area 100? Chi lo sa, anche meno, ma tanto non sarà un nostro merito, ma una conseguenza legata all’operato di un buyer unico e fortissimo che tiene in piedi la baracca. Un buyer che però ha firmato la sua condanna, perché sarà estremamente difficile per tutte le banche centrali organizzare delle “” nei prossimi anni che siano indolori. Non possiamo che assistere da spettatori.

Pil? Una contrazione più ampia del previsto


Nell’analisi della situazione economica italiana, Mazziero Research parte dall’ultima rilevazione Istat che ha rivisto in peggioramento non solo la stima preliminare del Pil nel secondo trimestre, dal 12,4 al 12,8%, ma anche quella definitiva del primo trimestre abbassandola di un ulteriore punto percentuale al 5,5%. Il terzo trimestre dovrebbe segnare un recupero tra +12 e +15% (il dato calcolato è +14,2%) mentre il progresso sarebbe più modesto nel quarto trimestre e compreso tra +1 e +4% (il dato calcolato è +2,5%). A livello annuale il Pil viene stimato tra -7 e -9% (il dato calcolato -8,2% e risulta in calo rispetto al -8% della precedente stima).In merito a tali stime, Mazziero Research invita a considerare che il forte aumento ipotizzato per il terzo trimestre non ha nulla di eclatante, ma è la semplice conseguenza di una ripresa, in una qualche misura, delle attività che creano un evidente scostamento positivo rispetto ai forti cali avvenuti nella prima parte dell’anno. L’entità della ripresa nella seconda metà dell’anno, spiega ancora, è fortemente soggetta al grado di miglioramento economico a livello globale e potrebbe essere annullata anche completamente nel caso di una recrudescenza dell’emergenza Covid.

Covid e debito: l’abbraccio mortale


Il tema del debito pubblico resta la zavorra dell’Italia, ancor più ai tempi del coronavirus. Il Covid ha, infatti, fortemente peggiorato la dinamica del debito pubblico, con aumenti impensabili sino a pochi mesi fa. In soli 4 mesi, da marzo a luglio, il debito è aumentato di 129 miliardi, mentre da inizio anno si contino 150 miliardi in più. Guardando ai prossimi mesi, i valori stimati dalla Mazziero Research mostrano una dinamica che vede ancora una forte crescita del debito ad agosto, mentre poi dovrebbe attenuarsi nei mesi successivi grazie a una ripresa delle entrate fiscali. “Va considerato che il forte incremento del debito si associa a un’altrettanta pesante caduta del Pil, con un forte deterioramento dei rapporti di debito e deficit Pil da noi stimati rispettivamente al 161,6% e 10,8% a fine 2020 – si legge nell’Osservatorio -. Il debito sin qui generato non comprende eventuali prestiti che verranno richiesti nell’ambito del Recovery Fund, che andranno ulteriormente ad ampliare queste cifre e i relativi rapporti con il Pil”.E ancora legge: “Abbiamo già ora raggiunto livelli di debito che non sono praticamente rimborsabili e che influenzeranno in modo pesante le generazioni future. Questo è un aspetto ancor più grave delle cifre in sé in quanto spoglia i nostri figli del futuro e li costringe a porre rimedi a conseguenze generate dal nostro egoismo e dalla pretesa di benefici insostenibili; a solo titolo di esempio si può citare l’attuale sistema pensionistico. Tuttavia, presto riprenderà la pantomima della riduzione del debito a partire dal prossimo anno a cui ci hanno abituato i vari ministri delle finanze, giocando sul fraintendimento tra debito in termini assoluti e debito/PIL. Il Ministro dell’Economia Gualtieri parlando in audizione alla Camera sul Recovery Fund il 15 settembre ha auspicato la discesa del debito/PIL a partire dal 2021 e per gli anni successivi; gli organi di informazione hanno riportato la notizia riferendosi esclusivamente al debito in termini assoluti”.

Una calma apparente

Attualmente non si vedono impatti negativi e le imponenti emissioni di titoli di Stato vengono abbondantemente acquistate dalla BCE, che ha ormai superato il 20% di detenzione rispetto al circolante. “Questa situazione apparentemente tranquilla rischia però di non dare la reale misura dell’affanno del Paese: nei primi sei mesi dell’anno si sono persi oltre mezzo milione di posti di lavoro e il timore di una nuova estensione del contagio condiziona la fiducia di imprese e famiglie”, spiegano da Mazziero Research ricordando che “il Governo ha predisposto le linee guida per richiedere i finanziamenti a Bruxelles, ma sembra non avere fretta nel definire i dettagli necessari per ottenere i contributi”. Insomma, si tratta di un passaggio delicato. “E’ bene che ciascuno di noi se ne renda conto senza illusioni; non ci sono bacchette magiche e nel contempo, se vogliamo riformare questo Paese, dovremo essere pronti a lasciarci alle spalle alcuni privilegi. Soprattutto la nostra bussola dovrà essere sempre rivolta al quesito di cosa lasciamo alle generazioni future.”

Debito +129 mld in 4 mesi e Pil 2020 rivisto al ribasso: le stime della Mazziero Research

129 miliardi: questo il maggior debito accumulato in solo 4 mesi. Lo si legge nell’ultimo report della Mazziero Research, secondo cui il debito aumenterebbe a 2.560 miliardi a luglio con una proiezione a fine anno tra 2.566 e 2.598 miliardi. La crescita dovrebbe essere ancora forte ad agosto, puntualizza la Mazziero Research, ma poi dovrebbe attenuarsi nei mesi successivi, grazie a una ripresa delle entrate fiscali. Il dato ufficiale di luglio verrà pubblicato dalla Banca d’Italia il prossimo 15 settembre.Per quanto riguarda il Pil dell’Italia, la Mazziero Research ha rivisto sia le stime annuali sia quelle del 3° e 4° trimestre con variazioni che si mantengono comunque contenute. Il 3° trimestre dovrebbe segnare un recupero tra +12 e +15% (dato calcolato +14,2%) mentre il progresso sarebbe più modesto nel 4° trimestre e compreso tra +1 e +4% (dato calcolato +2,5%). A livello annuale il Pil viene stimato tra -7 e -9% (dato calcolato -8,2% in calo rispetto al -8,0% precedente).n merito a tali stime, segnala la la Mazziero Research occorre considerare che il forte aumento ipotizzato per il 3° trimestre non ha nulla di eclatante, ma è la semplice conseguenza di una ripresa, in qualche misura, delle attività che creano un evidente scostamento positivo rispetto ai forti cali avvenuti nella prima parte dell’anno. L’entità della ripresa nella seconda metà dell’anno è fortemente soggetta al grado di miglioramento economico a livello globale e potrebbe essere annullata anche completamente nel caso di una recrudescenza dell’emergenza Covid

 

Recovery Fund, Letta: ultima chance soprattutto per l’Italia. Cottarelli: preoccupato per il medio termine

“Questa è l’ultima chance per l’Europa e, soprattutto, per l’Italia”. E’ quanto ha detto l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, intervistato da Steve Sedwick della Cnbc, a margine del forum Ambrosetti. La 46esima edizione dell’evento, che quest’anno prenderà il nome di “Lo Scenario di oggi e di domani per le strategie competitive” e che si terrà come ogni anno a Villa d’Este, a Cernobbio, partirà domani, sabato 4 settembre, per concludersi lunedì 6 settembre.Ai microfoni della Cnbc, l’ex premier ha parlato del Recovery Fund, il bazooka anti-COVID 19 su cui il Consiglio europeo ha trovato l’intesa nel mese di luglio, caratterizzato da una potenza di fuoco di 750 miliardi di euro, tra prestiti e sussidi.L’Italia si appresta a ricevere la fetta della torta più grande: quasi 209 miliardi di euro, di cui 81 miliardi di euro in sussidi e 127 miliardi in prestiti, a partire dal 2021.
“Una quantità così grande di soldi – ha detto Letta – darà all’Italia l’opportunità di fare quello che non è stato fatto in passato”, a condizione che “venga spesa bene”.
La Cnbc ha intervistato anche Carlo Cottarelli, ex Commissario della spending review, ex FMI e ora numero uno dell’Osservatorio dei Conti pubblici:
“Sono preoccupato nel medio termine – ha detto – sarà cruciale capire se l’Italia coglierà l’opportunità per introdurre riforme che avrebbe dovuto fare da tempo”.
Cottarelli ha citato in particolare la necessità di riforme digitali e delle infrastrutture.
“Esiste però una differenza rispetto al passato – ha fatto notare l’economista – Questa volta possiamo fare affidamento su finanziamenti che arriveranno dall’Europa, anche se i soldi arriveranno solo se l’Italia lancerà le riforme”.
Di Recovery Fund ha parlato qualche giorno fa anche Paolo Gentiloni, ex presidente del Consiglio e commissario Ue agli Affari economici, nel corso di un’audizione presso le commissioni riunite Bilancio e Politiche dell’Unione europea di Camera e Senato sull’utilizzo delle risorse del Recovery Fund.
Gentiloni ha lanciato un monito al governo, avvertendolo sulla necessità che il piano nazionale di riforme che l’Italia – così come altri paesi europei – dovrà presentare per avere accesso ai fondi, non sia “un catalogo delle spese”, ma un piano che indichi le priorità su cui il paese si impegna a lavorare.Ancora, l’eurocommissario ha avvertito:“Guai se usiamo questi 200 miliardi per ridurre le tasse, sarebbe davvero un messaggio sbagliato”. Gentiloni ha reso noto che i piani nazionali di riforme, ovvero i Recovery Plan, dovranno essere presentati alla Commissione europea entro il prossimo 15 ottobre.
“Ci aspettiamo delle bozze che indichino obiettivi generali, linee intervento, priorità, che consentano l’avvio di un dialogo con la commissione”. E ha aggiunto  che “la prima erogazione del 10% delle risorse da parte della Commissione avverrà presumibilmente nel primo semestre del prossimo anno. Le altre erogazioni avverranno a cadenza semestrale, due volte l’anno”. Questo 10%, è arrivata la precisazione, arriverà comunque “quando saranno approvati i piani”.

 

Tassi Btp a livelli pre-Covid, Confindustria: ‘Italia ancora percepita più rischiosa di altri Paesi”

Il tasso sovrano in Italia si è stabilizzato a settembre viaggiando poco sotto l’1% per il Btp decennale, sui bassi valori di febbraio. Stesso andamento per lo spread dagli altri paesi dell’Eurozona. “Ciò favorisce le finanze pubbliche, ma evidenzia anche che i mercati continuano a percepire l’Italia come più rischiosa rispetto alle altre economie dell’area”, rimarca il Centro Studi di Confindustria nel report ‘Congiuntura Flash’.In merito alla ripresa dell’area euro, Confindustria rimarca che c’è ma è incerta. Dopo la profonda recessione (-11,8% nel 2° trimestre), diffusa a tutti i paesi, i dati sul 3° trimestre mostrano segnali di ripresa dell’attività, timidi e altalenanti. Al rimbalzo del PMI a luglio è seguito un indebolimento in agosto (51,9). La fiducia è in ascesa, ma lenta, in tutti i settori. “Nell’industria la capacità produttiva resta sotto-utilizzata, nonostante il flusso di nuovi ordini”, argomenta il CSC che sottolinea anche l’incertezza sulla Brexit con il riaccendersi dei fari sui negoziati per i trattati sulle relazioni economiche con la UE dal 31 dicembre, fine del periodo transitorio, dopo la Brexit di gennaio. “Sul tavolo non ci sono ulteriori proroghe: il Regno Unito vorrebbe un accordo entro il 15 ottobre; persiste il rischio di no deal”, rimarcano gli esperti di viale dell’Astronomia.

 

Lavoro: crollo di oltre 800mila occupati nel 2° trimestre

Nel secondo trimestre del 2020 il numero di persone occupate subisce un ampio calo in termini congiunturali (-470 mila, -2%), dovuto soprattutto alla diminuzione dei dipendenti a termine e degli indipendenti. LO rende noto l’Istat. Il tasso di occupazione scende al 57,6%, in calo di 1,2 punti rispetto al primo trimestre 2020; i giovani di 15-34 anni presentano la diminuzione più marcata (-2,2 punti). Nei dati provvisori di luglio 2020, al netto della stagionalità e dopo quattro mesi di flessione, il numero di occupati torna a crescere (+85 mila, +0,4%) rispetto a giugno 2020 e il tasso di occupazione risale al 57,8% (+0,2 punti in un mese), misurando una positiva reazione del mercato del lavoro alla ripresa dei livelli di attività economica.Rispetto al secondo trimestre 2019, il numero di occupati scende di 841 mila unità (-3,6% in un anno). Calano soprattutto i dipendenti a termine (-677 mila, -21,6%) e continuano a diminuire gli indipendenti (-219mila, -4,1%) a fronte di un lieve aumento dei dipendenti a tempo indeterminato. Il calo occupazionale interessasia gli occupati a tempo pieno sia quelli a tempo parziale, per i quali nel 63,9% dei casi il part time è
involontario. Diminuiscono, inoltre, gli occupati che hanno lavorato per almeno 36 ore a settimana (50,6%, -13,8punti), a seguito delle assenze dal lavoro e della riduzione dell’orario dovute all’emergenza sanitaria.

 

Istat: ‘su mercato lavoro segnali ripresa, con crescita occupati e recupero ore lavorate’

“Sul mercato del lavoro sembrano emergere segnali di recupero: dopo quattro mesi di flessioni consecutive”. Lo ha detto Roberto Monducci, direttore del Dipartimento per la produzione statistica dell’Istat, nel corso dell’audizione in Commissione Bilancio della Camera sul Recovery Fund.“A luglio l’occupazione è cresciuta di 85mila unità rispetto a giugno (+0,4%), con una significativa espansione dell’occupazione femminile (+80mila) e, dal punto di vista delle tipologie occupazionali, dei dipendenti (+145mila, +0,8%). Contestualmente, cresce il numero di persone alla ricerca di lavoro (+134mila). Questi primi segnali di ripresa dell’occupazione sono associati ad un recupero dell’intensità lavorativa degli occupati: a luglio il numero di ore pro-capite effettivamente lavorate è pari a 33,1 ore, un livello di sole 1,2 ore inferiore a quello registrato a luglio 2019. Per i dipendenti il gap rispetto all’anno precedente è ancora più ridotto (-0,8 ore). La quota di occupati assenti tende a normalizzarsi, essendo a luglio
solo di 1,1 punti percentuali superiore all’anno precedente (dai 13 punti di maggio e 3,7 punti di giugno). La ripresa occupazionale osservata a luglio consente un primo recupero dei livelli perduti nei mesi precedenti: il gap nel numero di occupati rispetto a febbraio 2020 passa da -557mila a giugno a -472mila a luglio”.

Italia: improbabile downgrade agenzie rating nel breve termine, ecco i perchè di BlueBay AM

“Guardando all’Italia dal punto di vista delle prospettive per i mercati obbligazionari, ci sono tre aree chiave che stiamo monitorando con attenzione: la sostenibilità del debito, in cui la crescita economica gioca un ruolo vitale; la stabilità politica e la minaccia dei partiti Euroscettici; e la portata di ulteriori misure di supporto da parte delle istituzioni dell’UE”. È quanto sostiene Neil Mehta, Assistant Portfolio Manager di BlueBay Asset Management in una analisi dedicata all’Italia.L’esperto sottolinea che a livello di Pil, nel secondo trimestre si è assistito a un calo del 12,4% su base trimestrale e si attende una contrazione del 10% nel corso del 2020, prima di un rimbalzo a +6% nel 2021 e +2,5% nel 2022. “Tuttavia, con l’Italia che continua a mostrare alti livelli di deficit, l’inflazione rimarrà probabilmente contenuta, e ci aspettiamo che il rapporto debito/Pil si muoverà attorno al 165% nel 2022, rispetto all’attuale 135%”, puntualizza l’esperto.“Qualsiasi slittamento nelle politiche per la ripresa o ripristino dei lockdown potrebbe spingere questi numeri su livelli in cui la sostenibilità del debito diverrà nuovamente problematica – sottolineano da BlueBay Asset Management -. Tuttavia, livelli di debito così elevati non sono più anomali (ad esempio negli USA il debito è pari al 155% rispetto al Pil), e con i tassi di interesse che resteranno bassi per diversi anni, gli elevati livelli di debito risultano più accettabili sia per il mercato che per le agenzie di rating. Per questi motivi, è improbabile che le agenzie declassino l’Italia nel breve termine, nonostante l’aumento del rapporto debito/Pil”.

Più che debito cattivo esiste una verità antipatica da spiegare agli italiani

Il governatore della BCE, Mario Draghi, ha parlato di “debito cattivo” per distinguerlo da quello “buono”. Per gli italiani, la verità risulta più scomoda di quanto immaginiamo.

L’emergenza Covid ha messo l’economia italiana in ginocchio. E non che prima saltellasse gioconda, tutt’altro. Se tutto va bene, quest’anno perderemo il 10% del pil, tornando ai livelli di ricchezza reale prodotti intorno alla metà degli anni Novanta. Un salto indietro di 25 anni, quando ancora Fiorello era un esordiente nel mondo dello spettacolo e girava le piazze italiane con il codino per presentare “Karaoke”. C’è poco da sorridere. Siamo l’unica grande economia mondiale a non essersi nemmeno ripresa dalla crisi finanziaria del 2008-’09. Nel suo piccolo, peggio di noi ha fatto solo la Grecia, che almeno vantava, però, prima del Covid un miglioramento dei redditi sotto l’euro, cosa che a noi italiani non è successa.Mentre il governo Conte si appresta a chiedere l’attivazione del SURE, lo schema assicurativo europeo varato nei mesi scorsi, e cerca modi, tempi e parole con cui giustificare il ricorso al MES, sembra che l’Italia stia vivendo in una sorta di realtà dicotomica. Da un lato, non esiste categoria che non pianga miseria e la sensazione di crisi generale è così forte, che il governo ha già dovuto varare provvedimenti di spesa per 100 miliardi di euro, perlopiù a sostegno dei redditi tramite una pioggia infinita di sussidi o bonus che dir si voglia.Dall’altro, ci troviamo con lunghe file ai caselli autostradali, spiagge libere e lidi stracolmi di bagnanti, locali col pienone e sebbene l’assenza dei turisti stranieri si noti e si faccia sentire sul comparto alberghiero, della ristorazione e sulle attività commerciali, chi girasse un po’ superficialmente per le strade d’Italia non avrebbe un’immediata percezione della grave crisi in corso.

Il bonus vacanze rischia l’insuccesso e rappresenta tutto ciò che non va in Italia

Il debito cattivo di Draghi

Scorsa settimana, dal Meeting dell’Amicizia a Rimini, l’ex governatore della BCE, Mario Draghi, ha invitato a distinguere tra “debito buono” e “debito cattivo”, sottolineando come il secondo sia rivolto a finanziare i sussidi, i quali da soli non sostengono la crescita dell’economia, pur offrendo un doveroso sollievo alle fasce della popolazione che soffrono. Parole sante. Alla luce di quanto stiamo vedendo in queste torride settimane di agosto, di debito buono non n’è stato emesso quasi mai in Italia, figuriamoci in una fase emergenziale come questa, in cui anche i governi più austeri e con la testa sulle spalle cedono a qualche spesa in eccesso.Cosa c’entrano le spiagge piene con il discorso sul debito cattivo? Più di quanto immaginiate. Un paese al collasso, come ce lo raccontiamo da mesi, avrebbe altri pensieri che non di farsi il bagno al mare o di affittarsi un B&B per una gita fuori porta. Stiamo estremizzando, è vero, ma vi pare mai possibile che centinaia di migliaia di famiglie abbiano sospeso i pagamenti del mutuo e al contempo si godano le ferie chissà dove, magari pure all’estero, dopo due-tre mesi abbondanti di “lockdown”?Certo, non tutti hanno smesso di lavorare durante la quarantena. E, in generale, i dati sulle giacenze bancarie ci raccontano di un’Italia, in linea con il resto dell’Occidente, in cui i risparmi sono cresciuti, non fosse altro perché non vi siano stati per mesi modi per spendere gli stipendi incassati, date le attività chiuse e le restrizioni alla libertà di movimento. Detto ciò, sarà pure antipatico dirlo, ma forse abbiamo ecceduto un po’ troppo con i sussidi, perché da quel che si vede in giro non vi sarebbe stato tutto questo bisogno di sostenere i redditi o, semmai, i soldi sono arrivati in tasche sbagliate.

Il discorso di Draghi a Rimini è stato un appello alla responsabilità

In vacanza in piena crisi

Non stiamo dicendo che gli italiani non abbiano il sacrosanto diritto di andare in ferie dopo mesi difficili anche sul piano psicologico.Semplicemente, la narrativa del piagnisteo si scontra con le scene di strade, piazze e località della movida affollate. Perché in un’economia alla frutta, non ci si può divertire granché allontanandosi più di qualche chilometro da casa. Eppure, i dati macro parlano chiaro e ci dicono che rischiamo di perdere almeno 180 miliardi di euro di pil nel 2020. Quindi? Torniamo al concetto di debito cattivo. Molte famiglie starebbero attingendo ai risparmi per godersi la vita. Nulla di sbagliato di per sé, a parte che così facendo s’intaccherebbero risorse per tirare a campare e non per costruirsi maggiori certezze future.E forse, alla fine questo spandi e spendi dello stato sta incoraggiando tutti a pensare che a Roma vi sia un babbo benevolo che pensa a tutti e che l’era delle ristrettezze sia finita, perché in Europa hanno capito che noi italiani di sacrifici non vogliamo più saperne. L’opinione pubblica è stata indotta a pensare (sbagliando) che d’ora in avanti scaricheremo i nostri problemi su un’entità astratta di nome Europa, contro cui l’abbiamo spuntata, altrimenti saremmo usciti dall’euro fregando tutti.Il Covid si è trasformato in un pretesto imperdibile per reclamare sussidi, spese a go-go, sulla falsa credenza che non verremmo chiamati a pagare per via della gravità della situazione. Stiamo facendo debito cattivo senza preoccuparcene affatto, perché il diritto alla sopravvivenza viene preteso prima di ogni altra cosa. Senonché, il concetto stesso di sopravvivenza si è allargato fino a comprendere vacanze, monopattino, auto nuova e indennità mensili per tutti. C’è crisi, approfittiamocene adesso prima che finisca e per vivere bisogna tornare a lavorare.

Assunzioni, trasformazioni e cessazioni dei rapporti di lavoro, pubblicati i devastanti dati di maggio

Diminuiscono le assunzioni nei primi 5 mesi del 2020, ma anche i licenziamenti. Ecco tutti i dati di fine lockdown.

L’emergenza sanitaria del coronavirus e le relative politiche di contenimento adottate dal nostro Paese hanno messo il ginocchio il mercato del lavoro. L’inps con in comunicato stampa del 27 agosto 2020: “Osservatorio sul precariato, Pubblicati i dati di maggio 2020”, rende noti i dati dei contratti attivati, trasformati o cessati nei primi 5 mesi del 2020.

Le nuove assunzioni nei primi 5 mesi del 2020

Per quanto riguarda le nuove assunzioni ad opera dei datori di lavoro privati, nei primi 5 mesi del 2020, sono state 1.795.000. Un calo del 43% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.In particolare, evidenzia l’Inps, questa contrazione è stata particolarmente negativa nel mese di aprile (-83%), con un miglioramento a maggio (- 57%).

Trasformazioni a tempo indeterminato

Le trasformazioni dei contratti da tempo determinato a tempo indeterminato, nello stesso periodo, sono risultate 229.000, -31% rispetto ai primi 5 mesi del 2019.Ad ogni modo, bisogna anche dire che nel corso del 2019 il volume delle trasformazioni era risultato eccezionalmente elevato per effetto dell’impatto del cosiddetto “decreto dignità”.

Cessazione dei rapporti in diminuzione, ma per effetto del decreto CuraItalia

Le cessazioni nel complesso sono state 1.972.000, in diminuzione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tale diminuzione è stata particolarmente accentuata per i contratti a tempo indeterminato nel trimestre marzo-maggio (-47%) a seguito dell’introduzione, il 17 marzo (DL n. 18, 2020, “CuraItalia”), del divieto di licenziamento per ragioni economiche.

Lavoro occasionale

Infine, per quanto riguarda il lavoro occasionale, i nuovi contratti a maggio 2020 risulta soltanto di 9000 unità. Anche in questo caso è stata registrata una forte diminuzione rispetto allo stesso mese del 2019 (-50%). L’importo medio mensile lordo della loro remunerazione effettiva risulta pari a 234 euro.

Crollo consumi: Confcommercio, Covid ‘brucia’ 116 mld nel 2020. Nord area più penalizzata

E’ un effetto-Covid a diverse velocità quello che emerge dall’analisi dei consumi nel le regioni italiane per il 2020: se a livello nazionale la previsione è di un calo del 10,9% (pari a una perdita di 116 miliardi, 1.900 euro pro capite), il Nord risulta l’area più penalizzata (-11,7%), con quasi il 60% del calo complessivo concentrato nelle sue 8 regioni e con la Lombardia che registra la maggiore perdita in valore assoluto (oltre 22,6 miliardi di consumi), mentre nel Mezzogiorno la riduzione della spesa sul territorio è più contenuta (-8,5%) a causa della minor presenza di turisti stranieri e di una minore caduta dei redditi. E’ questa la fotografia che emerge dall’analisi sui consumi regionali nel 2020 dell’ufficio studi di Confcommercio.In ogni caso, spiega Confcommercio, il quadro complessivo appare sconfortante e in tutti i territori, per differenti ragioni, dovrebbero trascorrere almeno cinque anni per tornare ai livelli di spesa pro capite del 2019. Secondo l’associazione rimangono “fondamentali riforme strutturali, da finanziare in parte con i fondi europei, per tornare a crescere a ritmi più coerenti con le legittime aspettative di famiglie e imprese”.

Cresce addiction banche italiane e spagnole a Btp e Bonos. In Italia superata soglia pericolo record

“Le banche di Spagna e Italia stanno ricadendo nella loro dipendenza dal debito sovrano”. E’ quanto scrive Liam Proud nell’articolo di Reuters “Old Habits“, ovvero “Vecchie abitudini”. Il riferimento è al tarlo del doom loop, espressione che viene utilizzata da economisti ed esperti soprattutto quando si parla di Italia: è il legame tossico, l’abbraccio tra le banche di un paese e i titoli di stato del paese stesso, che diventa mortale nel momento in cui il debito sovrano, caduto nelle reti della sfiducia dei mercati, viene preso di mira e attaccato.
La svalutazione di questi titoli colpisce inevitabilmente i bilanci delle banche. Non stupisce se il doom loop finisce per fare spesso rima con l’Italia. Con il suo rapporto debito-Pil destinato a salire a livelli record, i BTP si confermano eterni osservati speciali dei mercati. Pronti a premere il pulsante “unload” nel caso in cui le casse dello stato del made in Italy dovessero iniziare a inviare segnali di esaurimento liquiditàNel suo articolo, Proud utilizza il termine “addiction” che, tradotto, significa per l’appunto dipendenza e assuefazione e che, nel caso specifico di Spagna e Italia, indica come le banche dei due paesi abbiano ricominciato ad aumentare la loro esposizione ai debiti pubblici di Madrid e Roma.Il problema è che questa crescita dell’esposizione rischia di “rendere (gli istituti di credito) vulnerabili, nel caso in cui i timori di una rottura dell’euro dovessero anch’essi ritornare”. E l’ “addiction”, la stessa droga – scrive Proud – “rende anche più difficile completare l’Unione bancaria e, di conseguenza, più difficili le operazioni di M&A (fusioni e acquisizioni, mergers and acquisitions) cross-border”.“La cattiva abitudine”, la “old habit”, puntualizza il giornalista, è “tornata per il modo in cui la Bce e i governi hanno risposto al COVID-19“.Ovvero? “La presidente della Bce Christine Lagarde sta erogando alle banche finanziamenti a basso costo attraverso schemi come le operazioni di rifinaziamento di lungo periodo, ovvero le TLTRO, che presentano tassi di interesse negativi. La speranza è che le banche utilizzino i fondi per sostenere le aziende in difficoltà”.  Tuttavia, in questo modo, “alle banche vengono forniti anche incentivi affinché facciano incetta di bond sovrani”. E tutto ciò “è positivo per i governi, che stanno emettendo tonnellate di debito per proteggere le loro economie dal virus”.Proud riporta i dati della Bce, da cui emerge che, complessivamente e in data 30 giugno, banche spagnole come BBVA possedevano 206 miliardi di euro di debito sovrano spagnolo, il 16% in più rispetto alla fine del 2019. E le banche italiane come Intesa SanPaolo, si legge nell’articolo, hanno aumentato le loro partecipazioni nei titoli governativi del paese del 15%, a 442 miliardi di euro.La maggiore esposizione potrebbe fomentare i timori del cosiddetto doom loop sovrano – ricorda Proud – così come accaduto nel corso della crisi dell’Eurozona degli anni 2011-2012″. In quell’occasione “le perdite subite dalle banche a causa dei bond governativi detenuti affossarono le loro quotazioni azionarie, aumentando il rischio di operazioni di bailout che gli stati, già a corto di liquidità, non avrebbero potuto permettersi di lanciare. I progressi limitati che sono stati fatti da allora nello sciogliere le banche dai governi sono stati già azzerati”.Cifre alla mano – che sono quelle, tra l’altro, della Bce – “le esposizioni delle banche spagnole al debito nazionale sono pari al 78% del valore del capitale e delle riserve, al record dal 2016. In Italia, il rapporto è salito al di sopra del 120% per la prima volta in decenni. Questi timori potrebbero essere meno incisivi se il nuovo Recovery Fund dell’Unione europea si dimostrasse un passo verso l’Unione fiscale. Se invece fosse un intervento solo straordinario, il doom loop potrebbe tornare nel corso della prossima crisi”.“La ricaduta – conclude Proud – potrebbe tra l’altro rendere politicamente più difficile completare l’Unione bancaria in Eurozona, un prerequisito per quelle operazioni di fusione transnazionali di cui c’è tanto bisogno. Gli enormi portafogli di bond sovrani delle banche del Sud Europa sono stati sempre un punto di scontro nelle trattative su un sistema di garanzia comune sui depositi”.Basti pensare alla “proposta del ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz che, lo scorso anno, chiese oneri più alti sui capitali delle banche con esposizioni rilevanti verso il debito sovrano. Anche prima del Covid, l’idea non venne accolta bene in Italia”. Ora, “la dipendenza rinnovata delle banche dal debito sovrano rende il raggiugimento del compromesso ancora meno probabile”. E le condizioni in cui versano Italia e Spagna – alle prese con un nuovo boom di casi di coronavirus -ancora più problematiche.

Incubo autunno nero: 90mila imprese a rischio chiusura e tante altre pronte a licenziare

Circa 90mila imprese dei settori del commercio e turismo rischiano di chiudere per sempre i battenti in autunno, anche al netto di nuovi lockdown. A lanciare l’allarme è Confesercenti, sulla base di un sondaggio condotto tra le imprese con SWG.
Un possibile colpo da KO per il lavoro autonomo con conseguenze anche sul lavoro dipendente: tra le attività che proveranno a resistere, infatti, quattro su dieci segnalano la necessità di ridurre il personale.“La possibilità di un autunno nero, sul fronte del lavoro autonomo e dipendente, è sempre più concreta. Il timore di nuovi blocchi dell’attività, a seguito dell’incremento di contagi, aumenta ancora di più l’incertezza degli operatori economici. Molte imprese, travolte dall’anno più difficile di sempre ed impossibilitate a ristrutturare l’attività a causa del blocco dei licenziamenti, non vedono altra via d’uscita che chiudere. Una prospettiva che dobbiamo assolutamente scongiurare”, spiega Patrizia De Luise, Presidente Confesercenti.

Fisco e lavoro, le riforme chieste da Confesercenti

Il grido d’allarme è seguito da indicazioni sui due ambiti in cui secondo Confesercenti si devono concentrare le prossime riforme. “Serve uno scatto in avanti. I provvedimenti presi fino ad ora hanno aiutato ad attutire il colpo, ma serve una diversa prospettiva: dobbiamo passare da un’ottica di emergenza ad una di rilancio. Abbiamo bisogno di una grande accordo tra governo e parti sociali, in primo luogo associazioni datoriali, per mettere urgentemente in campo le due riforme che il nostro paese ha sempre rimandato, e che oggi sono necessarie più che mai: quella del sistema fiscale e quella del lavoro. Il governo è impegnato sulla prima: bene, ma non basta pensare a recuperare l’evasione. Serve un sistema impositivo più leggero e flessibile, per accompagnare una crisi che si preannuncia diversa da tutte le precedenti”.
“Anche sul lavoro – continua De Luise – occorre intervenire al più presto: impedire semplicemente i licenziamenti non risolverà il problema, anzi. Le imprese hanno bisogno di ristrutturarsi per rispondere all’emergenza: in questo quadro, cristallizzare attività che non funzionano più rischia solamente di peggiorare una situazione già esplosiva. Il lavoro va tutelato tutto, non solo quello dipendente. La conversione del DL Agosto è la prima occasione utile per dare risposte a chi fino ad ora non le ha avute: non manchiamola”.

Fino a quando l’Inps potrà pagare le pensioni: cosa faresti se fossero gli ultimi 10 anni di tempo per smettere di lavorare?

Chi inizia a lavorare in questi anni avrà diritto alla pensione quando smetterà di lavorare?

Le nuove generazioni lo dicono da tempo, con un po’ di amara ironia ma anche di preoccupazione: “tanto chi la vedrà la pensione”? Dietro a questa domanda si cela una questione seria: fino a quando l’Inps potrà pagare le pensioni? Fino a quando il sistema starà in piedi e le casse previdenziali riusciranno a pagare gli assegni evitando il collasso? Le previsioni non sono delle più ottimistiche anche se, accanto a questo timore, c’è anche un po’ di superficialità visto che sono ancora pochi i giovani che pensano concretamente alla pensione integrativa. I dubbi riguardano soprattutto autonomi e titolari di partita IVA. Ma è un timore concreto?Chi ha iniziato a lavorare negli ultimi anni o addirittura mesi potrà contare su una pensione futura?

Avrò diritto alla pensione quando smetterò di lavorare?

Partiamo dai numeri. La pandemia Covid ha sicuramente pesato sulle casse Inps, costretto ad esborsi tra bonus e aiuti. Quando pagheremo per queste misure? Dall’inizio della crisi il debito è aumentato di 100 miliardi: il rapporto deficit/PIL ha superato il 10%. Peraltro va considerato anche che il nostro debito pubblico ha come acquirente esclusivo la BCE, per il tramite di Banca d’Italia. Questo può determinare un rialzo dello spread.Lo scenario appare inevitabilmente precario. In tutto questo l’Italia dovrà intervenire con una riforma pensioni non appena terminerà la sperimentazione quota 100.Perché abbiamo fatto questa panoramica? Non per creare allarmismo o scoraggiare le generazioni che si affacciano ora al mondo del lavoro ma per considerare la convenienza di pensare per tempo a forme di previdenza complementare.

Il Nostradamus delle pensioni ha previsto il collasso dei pagamenti tra dieci anni

Alcuni studi del 2016 hanno individuato una data chiave: il 2030.

Non è casuale: in quell’anno andranno in pensione i nati nel 1964-65, i figli del miracolo economico che ha portato ad un boom di nascite. Nel 2030 questo significherà un boom di assegni pensionistici da pagare. Oltre un milione di persone che, nel 2030, compiranno 66-67 anni e raggiungeranno il requisito anagrafico per smettere di lavorare. Il ritmo della crescita economica non sembra stare al passo. Il picco è previsto per il 2035. Se le casse reggeranno all’impatto la situazione dovrebbe poi gradualmente stabilizzarsi entro il 2060.

Quanti anni di contributi servono per andare in pensione

Quanti anni di contributi servono per andare in pensione? Quali alternative esistono per smettere di lavorare indipendentemente dall’età?

 

Nel nostro attuale sistema pensionistico, quanti anni di contributi servono per andare in pensione? Con la riforma Fornero, l’età minima per accedere alla pensione di vecchiaia è 67 anni con almeno 20 anni di contributi (requisiti che resteranno in vigore fino al 31 dicembre 2022), ma la normativa vigente prevede altre opzioni.In questa guida, ti descriviamo le varie opzioni disponibili sulla base dell’anzianità contributiva (il cuore del focus). Per alcune di queste opzioni, oltre a determinati contributi maturati e versati, bisogna considerare anche il requisito dell’età anagrafica. In altri casi, si può accedere alla pensione indipendentemente dall’età.Le varie soluzioni (Quota 100, Ape sociale, pensione anticipata, ecc.) consentono il prepensionamento in base a certe condizioni. Facciamo chiarezza e vediamo quali sono.

Quanti anni di contributi servono per andare in pensione anticipata retributiva

La pensione anticipata retributiva (di anzianità) non richiede requisiti anagrafici.

Per ottenerla è necessario maturare:

– 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne;

– 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini.

Pensione anticipata contributiva

Questa soluzione pensionistica è riservata esclusivamente al lavoratore che ha iniziato a maturare contributi a partire dal 1° gennaio 1996.

Per ottenere la pensione anticipata contributiva servono i seguenti requisiti:

– compimento dei 64 anni di età:

– almeno 20 anni di contributi;

– l’assegno previdenziale deve avere un importo superiore a 2,8 volte l’importo mensile dell’assegno sociale.

Quota 100

Perché si chiama Quota 100? Perché affinché venga erogata, il requisito anagrafico sommato a quello contributivo deve essere pari a 100.

Ecco i requisiti necessari:

– compimento di almeno 62 anni di età;

– versamento di almeno 38 anni di contributi.

Per Quota 100, è previsto un taglio sull’assegno della pensione finale. In più, tra i requisiti raggiunti e la decorrenza della pensione esiste una finestra di uscita di 3 mesi (6 per gli statali).

 

Quota 41

Quota 41 deve il suo nome al fatto che è necessario maturare almeno 41 anni di contribuzione a patto che un anno di contributi riguardi il periodo precedente al compimento dei 19 anni di età.E’ facile intuire che questa opzione è rivolta ai lavoratori precoci seppure riguardi anche altri soggetti che rientrano nei cosiddetti 5 profili di tutela, tra cui coloro che hanno svolto mansioni gravose e usuranti.Quota 41 viene denominata anche ‘scivolo per precoci’ e non richiede alcun vincolo anagrafico.

Rientrano nella Quota 41 i 5 profili di tutela:

– disoccupati (licenziati non a causa della naturale scadenza del contratto) che da 3 mesi non percepiscono la Naspi;

– invalidi al 74% o superiore;

– caregiver (che assistono familiari con grave disabilità da almeno 6 mesi in base alla Legge 104);

– addetti a mansioni usuranti;

– addetti a mansioni gravose.

Nel 2021, chi ha svolto lavori usuranti potrà andare in pensione con 35 anni di contributi a patto che abbia compiuto almeno 61 anni di età e 7 mesi fino a un massimo di 64 anni e 7 mesi.

Pensione di vecchiaia INPS con opzione contributiva

Questa opzione richiede sia il requisito contributivo sia quello anagrafico.

Si accede alla pensione di vecchiaia INPS con opzione contributiva possedendo i seguenti requisiti:

– 71 anni di età compiuti;

– 5 anni di contributi effettivi.

Si tratta di una particolare pensione che richiede un’età elevata a fronte di un numero di anni contributivi molto basso.

Opzione Donna

Come suggerisce il nome, Opzione Donna è rivolta esclusivamente alle lavoratrici.Si tratta di una misura di anticipazione della pensione concessa alle lavoratrici dipendenti e autonome.

Per accedervi, sono necessari i seguenti requisiti:

– 58 anni di età (per le dipendenti) e 59 anni per le lavoratrici autonome;

– almeno 35 anni di contributi.

Attualmente, non è ancora dato di sapere se Opzione Donna verrà confermata con la Legge di Bilancio 2021.

In pensione anticipata con l’Ape sociale

L‘Ape sociale è un sussidio di accompagnamento alla pensione di vecchiaia concesso a categorie di lavoratori svantaggiati.

I requisiti sono:

– invalidità riconosciuta pari o superiore al 74%;

– 63 anni di età;

– 30 anni di contributi versati.

 

Per accedere all’Ape sociale, bisogna essere iscritti alla gestione separata INPS: in alternativa, all’assicurazione obbligatoria dei lavoratori dipendenti, ai fondi sostitutivi dell’Ago oppure alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi.

Pensione di vecchiaia anticipata per invalidità

La pensione di vecchiaia anticipata per invalidità è destinata esclusivamente ai lavoratori invalidi, dipendenti pubblici iscritti presso il Fondo pensioni lavoratori dipendenti e titolari di assegno ordinario d’invalidità (art.1 della L. n. 222/1984).

Ecco i relativi requisiti per accedere a questo tipo di pensione:

– stato riconosciuto di invalidità pari o superiore all’80%;

– 20 anni di contributi versati;

– compimento dei 55 anni (donne) e 60 anni (uomini) da adeguare alle finestre ed alle aspettative di vita.

L’assegno decorre dopo 3 mesi di aspettativa di vita e 12 mesi di finestra di accesso dalla data di maturazione dei requisiti.

Cassa Integrazione: arriva lo sconto per chi non la richiede

Altre 18 settimane di cassa integrazione fino al 31 dicembre. Previsto però l’esonero dal versamento dei contributi per aziende che non chiedono la Cig.

Col decreto di Agosto arrivano importanti novità per quanto riguarda la cassa integrazione. Non solo penalizzazioni per chi la richiede, ma anche incentivi a non usufrirne.Il governo ha infatti approvato una norma che concede altre 18 settimane di cassa integrazione fino al 31 dicembre 2020 disincentivandone, però, la richiesta. Se finora la Cig veniva concessa per emergenza a tutti indistintamente, ora le cose cambiano.

Proroga cassa integrazione, le novità

Per le aziende che continuano a trovarsi in difficoltà durante il periodo di emergenza economica, nulla cambia. Avranno diritto a ulteriori 18 settimane di cassa integrazione, suddivisa in due tranches da 9 settimane, fino a fine anno. Bisognerà però dimostrare di aver subito nel primo semestre dell’anno un calo di fatturato di almeno il 20%, pena la corresponsione di un’addizionale all’Inps.Viceversa, per le aziende che, pur necessitando di sostegno da parte dell’Inps, non ne fanno richiesta. Queste saranno premiate dal versamento dei relativi contributi previdenziali per la Cig. In buona sostanza, il decreto di Agosto (numero 104 del 14 agosto 2020) all’art. 7 prevede infatti che:

ai datori di lavoro privati, con esclusione del settore agricolo, che non richiedono i trattamenti di  Cig e che abbiano già fruito, nei mesi di maggio e giugno 2020, dei trattamenti di integrazione salariale è riconosciuto l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali a loro carico, per un periodo massimo di quattro mesi, fruibili entro il 31  dicembre  2020, nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei predetti mesi di maggio e giugno 2020, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL, riparametrato e applicato su  base mensile”.

Chi può chiedere l’esonero e casi si compatibilità

Dall’esonero, però, sono escluse le aziende che non hanno subito un calo di fatturato.

Benché abbiano beneficiato in precedenza della cassa integrazione, i datori di lavoro che nel primo semestre 2020 non hanno accusato un calo di almeno il 20% del fatturato non possono beneficiare della decontribuzione. L’esonero va richiesto all’Inps entro il 31 dicembre 2020 ed è retroattivo all’occorrenza.L’esonero contributivo alla Cig di cui al decreto di Agosto non è cumulabile. Può essere utilizzato insieme ad altri esoneri o riduzioni di aliquote di finanziamento previste dalla normativa vigente, nei limiti della contribuzione  previdenziale dovuta. Tali benefici possono, ad esempio, essere cumulati con quelli previsti per le assunzioni a tempo indeterminato o per le assunzioni a tempo determinato per lavoro stagionale.Per beneficiare dell’esonero è anche necessario che il datore di lavoro rispetti il divieto di licenziamento del personale. Qualora anche un solo dipendente venisse licenziato, prima o dopo la richiesta della cassa integrazione, l’azienda perderebbe il diritto alla decontribuzione con efficacia retroattiva. L’inps verificherà anche successivamente il rispetto della normativa dai flussi Uniemens.

Cassa integrazione selettiva (in base a calo fatturato), le aziende pagheranno parte delle retribuzioni

La metà delle 18 settimane che dovrebbero essere concesse di sussidio Covid-19 saranno in parte finanziate dalle stesse imprese che arriveranno a versare all’Inps per il suo utilizzo fino al 18% delle retribuzioni. È quanto emerge da un documento del consigliere nazionale di Unimpresa, Giovanni Assi. Agli imprenditori adesso viene richiesto anche di contribuire al pagamento della cassa integrazione. “Non riusciamo davvero a comprendere come il governo si ostini ad utilizzare un indicatore, quale quello del calo di fatturato, per individuare un’azienda in difficoltà” asserisce Assi. Il nuovo decreto infatti chiederà alle imprese di poter accedere a tale strumento e di  finanziare al tempo stesso l’ammortizzatore sociale, sulla base del calo di fatturato del primo semestre 2020; in questo modo, secondo Assi, si ignora la differenza che esiste tra fatturato e incassato, ovvero ignorando quella che è la realtà della pressoché totalità delle imprese produttrici del nostro Paese, che nel periodo immediatamente precedente al lockdown si sono trovate a fatturare tutta la merce prodotta e spedita nel primo trimestre 2020 salvo poi non incassare nulla per le note vicende che hanno colpito il mercato, chiaro sentore della lontananza di questo esecutivo dalla realtà del territorio.Secondo Assi “le richieste delle imprese, dei lavoratori, dei professionisti, sono state ancora una volta ignorate, ci si attendeva un intervento strutturale sugli ammortizzatori sociali gridato a gran voce anche dai consulenti del lavoro, con una vera riforma degli stessi che prevedesse un unico strumento, di facile accesso e soprattutto di reale aiuto ai lavoratori ed alle loro famiglie, invece ci si è trovati di fronte alla solita “aspirina” che non potrà guarire un malato grave”.Nel documento, il consigliere nazionale di Unimpresa scrive che «ci troviamo di fronte a delle misure in tema di lavoro che hanno l’unico obiettivo di cercare un consenso politico nel breve anziché risollevare davvero in maniera strutturale le sorti delle nostre imprese e dei loro lavoratori. Ben 109 articoli senza lasciare intravedere una linea di rilancio strutturale del nostro Paese: concedere 18 settimane di cassa integrazione a tariffe da fame e per di più farle pagare alle nostre imprese non può che essere considerata una misura bluff. Viene lasciato ai lavoratori un sostegno da terzo mondo, perché 4,50 all’ora (ben al di sotto del 50% dei salari medi) ad un padre di famiglia non può che essere chiamato così».Nelle scorse settimane l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, incrociando i dati di Inps e Agenzia delle Entrate, ha sottolineato che più di quarto del monte ore pagato con la cassa integrazione è stato utilizzato da imprese che non hanno registrato perdite di fatturato nei primi sei mesi dell’anno nonostante il lockdown.Le nuove 18 settimane di CIG in deroga previste dal DL Agosto si potranno usare nel periodo che va dal 13 luglio alla fine dell’anno.

Il turismo in ginocchio colpisce al cuore il Made in Italy, in crisi non solo alberghi e ristoranti

L’emergenza Covid assesta un duro colpo al settore delle vacanze e del divertimento in Italia. E a soffrire è anche l’indotto, cioè il Made in Italy.

Secondo Confcommercio, il crollo dei turisti stranieri in Italia nei soli mesi di luglio e agosto starebbe provocando un mancato fatturato per 13,7 miliardi di euro. A soffrire particolarmente è il segmento del lusso, con gli alberghi a 5 stelle a registrare un calo delle presenze dell’80%, con -91,2% di clienti stranieri. La situazione è grave, anche perché la stagione estiva rappresenta il clou dell’anno turistico in Italia. E l’autunno, che già s’intravedeva fosco sui timori di una seconda ondata dei contagi, rischia di arrivare a nuove restrizioni già introdotte. Venerdì scorso, il premier britannico Boris Johnson ha dichiarato di non avere scelta se non quella di imporre la quarantena per gli arrivi dalla Francia.I contagi stanno impennandosi un po’ in tutta Europa, con il caso più grave che è dato dalla Spagna. Qui, prima del fine settimana scorso, i contagi sono cresciuti al ritmo medio di 3.367 al giorno negli ultimi 14 giorni, praticamente quanto in piena emergenza. In Francia, si sono attestati a 2.113, ma la curva epidemiologica segnala un’accelerazione preoccupante soprattutto nelle ultime due settimane. Il numero dei contagi accelera anche in Grecia e Malta, paesi assieme alla Spagna, i cui arrivi sono sottoposti a obbligo di tampone e quarantena in diverse regioni italiane.

La crisi da Covid riafferma il problema dei PIGS, Grecia e Portogallo rischiano di più

Turismo e viaggi incidono per il 13% del pil italiano, meno che nel resto del Mediterraneo, ma sufficiente per provocare una crisi più generalizzata di quanto pensiamo. Secondo i numeri di Federmodaitalia-Confcommercio, lo shopping dei turisti stranieri nel 2020 sarà in calo di 5,7 miliardi. Lo scorso anno, infatti, lo scontrino medio battuto per ogni straniero è stato di 861 euro, con punte di 1.610 euro tra i cittadini in arrivo da Hong Kong, 1.208 euro tra i cinesi e 1.054 euro tra gli americani.

Crisi non breve

Questi mercati sono tutti nei fatti chiusi all’Italia, per cui a patire le conseguenze dell’emergenza sono anche gli esercizi commerciali, il cui fatturato si deve in buona parte agli acquisti degli stranieri. Parliamo, in particolare, dei negozi nelle città d’arte e in realtà congressuali come Milano. Pensate che mete come Sorrento, Stresa, Montecatini Terme e Taormina beneficiano dalle presenze estere per una quota tra i tre quarti e i nove decimi del totale. Qui, l’indotto rischia di collassare, dato che i soli turisti locali o domestici non sarebbero verosimilmente capaci di rimpiazzare gli stranieri in termini sia di presenze che di fatturato.Dunque, alberghi e ristoranti vittime principali del crollo degli arrivi dall’estero, ma trascinandosi dietro altri comparti anche insospettabili come l’abbigliamento, che soffrono già per via dei mesi di “lockdown” e dei forti cali delle vendite di questi mesi. Si tratta per fortuna di una condizione straordinaria, temporanea, destinata a volgere per il meglio già nel 2021, quando o la pandemia auspicabilmente non sarà più un’emergenza in gran parte del pianeta o almeno esisterà un vaccino per contrastarne la diffusione, rasserenando gli animi di tutti.Ma il contraccolpo di questo tracollo non avrà strascichi brevi. La mobilità internazionale non tornerà ai livelli pre-Covid da qui ai prossimi 3-4 anni, secondo diverse analisi. Non tutte le attività saranno capaci di attendere così a lungo. Le più esposte sono le compagnie aeree, che in questa fase stanno perlopiù salvandosi grazie agli interventi dei governi. Ad ogni modo, non potranno per ancora mesi o anni continuare a reggere tassi di riempimento dei voli così bassi e il rischio che alcune di loro falliscano e molte rotte vengano chiuse diventa elevato, con esso quello che intere aree del Bel Paese rimangano senza adeguata copertura per i flussi turistici internazionali.E se nessuna realtà può permetterselo, men che mai il Meridione, dove il turismo consente spesso la sopravvivenza economica dei territori, in assenza di un apparato industriale e dei servizi sviluppato come al nord.

Dl Liquiditá: chiesti 298 miliardi moratorie e 68 miliardi a Fondo Garanzia

Aumentano le richieste di moratoria sui finanziamenti che sfiorano quota 300 miliardi. Concessi oltre 68 miliardi di nuovi prestiti garantiti.

Sono ancora in aumento le richieste di moratoria e finanziamento con garanzia statale da parte delle imprese italiane.

Secondo i dati del Mef, si attestano su volumi elevati, 2,7 milioni per un valore di circa 298 miliardi, le domande di adesione alle moratorie sui prestiti e supera quota 68 miliardi di euro il valore delle richieste di garanzia per i nuovi finanziamenti bancari per le micro, piccole e medie imprese presentati al Fondo di Garanzia per le Pmi. Attraverso Garanzia Italia di Sace sono state concesse garanzie per 12,4 miliardi di euro, su 415 richieste ricevute. Sono i principali risultati della rilevazione settimanale effettuata dalla task force per l’attuazione delle misure a sostegno della liquidità adottate dal Governo per far fronte all’emergenza Covid-19, di cui fanno parte Mef, Mise, Banca d’Italia, Abi, Mcc e Sace.

Presentate finora 2,7 milioni di domande

La Banca d’Italia continua a rilevare presso le banche, con cadenza settimanale, dati riguardanti l’attuazione delle misure governative relative ai decreti legge Cura Italia e Liquidità, le iniziative di categoria e quelle offerte bilateralmente dalle singole banche alla propria clientela. Sulla base di dati preliminari, al 31 luglio sono pervenute più di 2,7 milioni di domande o comunicazioni di moratoria su prestiti, per circa 298 miliardi. Si può stimare che, in termini di importi, circa il 93% delle domande o comunicazioni relative alle moratorie sia stato accolto dalle banche, pur con differenze tra le varie misure; il 3% circa è stato sinora rigettato; la parte restante è in corso di esame.

Mutui e prestiti alle famiglie sospesi per 19 miliardi

Più in dettaglio, il 44% delle domande provengono da società non finanziarie (a fronte di prestiti per 195 miliardi). Per quanto riguarda le Pmi, le richieste oltre 1,25 milioni hanno riguardato prestiti e linee di credito per oltre 158 miliardi, mentre le adesioni alla moratoria promossa dall’Abi (50 mila) hanno riguardato oltre 12 miliardi di finanziamenti alle Pmi. Le domande delle famiglie riguardano prestiti per circa 94 miliardi di euro. Le banche hanno ricevuto circa 207 mila domande di sospensione delle rate del mutuo sulla prima casa (accesso al cd.Fondo Gasparrini), per un importo medio stabile e pari a circa 94 mila euro. Le moratorie dell’Abi e dell’Assofin rivolte alle famiglie hanno raccolto quasi 461 mila adesioni, per circa 19 miliardi di prestiti.

Oltre 68 miliardi erogati tramite il Fondo di Garanzia

Il Mise e Mediocredito Centrale segnalano che sono complessivamente 970.096 le richieste di garanzie pervenute dagli intermediari al Fondo di Garanzia nel periodo dal 17 marzo al 11 agosto 2020 per richiedere le garanzie ai finanziamenti in favore di imprese, artigiani, autonomi e professionisti, per un importo complessivo di oltre 68,4 miliardi di euro. In particolare, le domande arrivate e relative alle misure introdotte con i decreti Cura Italia e Liquidità sono 965.194, pari ad un importo di circa 67,8 miliardi di euro. Di queste, oltre 817.652 sono riferite a finanziamenti fino a 30.000 euro, con percentuale di copertura al 100%, per un importo finanziato di circa 16,2 miliardi di euro che, secondo quanto previsto dalla norma, possono essere erogati senza attendere l’esito definitivo dell’istruttoria da parte del Gestore. Al 12 agosto sono state accolte 956.503 operazioni, di cui 951.886 ai sensi dei due decreti.

Bankitalia: debito ancora su a giugno, sfonda quota 2.530,6 mld

Non si arresta nemmeno a giugno la risalita del debito pubblico italiano. La Banca d’Italia rende noto che a fine giugno il debito delle amministrazioni pubbliche si è attestato a 2.530,6 miliardi di euro e spiega che “l’incremento rispetto al mese precedente (20,5 miliardi) riflette sostanzialmente il fabbisogno del mese (20,6 miliardi)”. Nella consueta pubblicazione statistica “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”, Bankitalia indica poi che le disponibilità liquide del Tesoro si sono leggermente ridotte (-0,8 miliardi, a 60,7); gli scarti e i premi all’emissione e al rimborso, la rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e la variazione dei tassi di cambio hanno nel complesso aumentato il debito di 0,7 miliardi.Con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 21,7 miliardi, quello delle Amministrazioni locali è diminuito di 1,2 miliardi; quello degli Enti di previdenza è rimasto sostanzialmente stabile. Rispetto al mese precedente, la vita media residua del debito è rimasta costante a 7,3 anni. La quota del debito detenuta dalla Banca d’Italia è aumentata di 0,7 punti percentuali, al 19,2 per cento.

Bankitalia: calano a giugno le entrate tributarie

A giugno le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 26,2 miliardi, in diminuzione del 19,9 per cento (-6,5 miliardi) rispetto al corrispondente mese del 2019. Lo rende noto la Banca d’Italia nella pubblicazione statistica “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”.
Nei primi sei mesi del 2020 le entrate tributarie sono state pari a 169,9 miliardi, in calo del 10,3 per cento (-19,4 miliardi) rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, “risentendo della sospensione di alcuni versamenti fiscali disposta dai decreti approvati a partire dal mese di marzo e del peggioramento del quadro macroeconomico”, spiega Bankitalia.

Debito atteso a 2.530 miliardi a giugno: le stime di Mazziero Research

La forte fase di ascesa del debito pubblico italiano è destinata a proseguire. Secondo le stime Mazziero Research il debito dovrebbe aumentare a 2.530 miliardi di euro a giugno, con una proiezione a fine anno compresa tra 2.547 e 2.577 miliardi. Questo dato, segnala Mazziero Research, presenta ancora un elevato margine di incertezza in relazione alle misure di sostegno economico del Governo. Il dato ufficiale di giugno verrà pubblicato dalla Banca d’Italia il prossimo 14 agosto.

Bonus 100% per assunzioni, Castelli: ‘sgravi da estendere anche nei prossimi anni’

“Si sono costruiti nuovi mercati, è nata l’esigenza di nuovi servizi e quindi di nuove domande. Dobbiamo farci trovare pronti a tutto questo. L’occupazione può aumentare, anche sensibilmente”. Così, sui social, il Vice Ministro dell’Economia e delle Finanze, Laura Castelli, che accenna alle diverse misure messe in campo, a partire dallo sblocco degli investimenti e dalla pianificazione del Recovery “che significano nuova occupazione, ma ne manca una fondamentale per sostenere, soprattutto in questa fase di ripartenza, i tanti imprenditori che vogliono continuare a dare lavoro, facendo rientrare i dipendenti attualmente in cassa integrazione o assumendo nuovo personale”.“Oggi il costo del lavoro è ancora troppo alto, per questo serve una decontribuzione al 100%, intanto, per partire, fino a fine anno – prosegue la Castelli – . Una misura che, con la prossima Legge di Bilancio, potrà essere pianificata anche per gli anni successivi. E poi strumenti specifici, che stiamo studiando con il Ministro Provenzano, per spingere, soprattutto al Sud, una ripresa del lavoro su più anni. Per fare questo serve, come ha detto Papa Francesco, “l’impegno convergente di tutti i responsabili politici ed economici”, un impegno finalizzato al rilancio del lavoro come volano di un’economia circolare. Perché “senza lavoro, le famiglie e la società non possono andare avanti”.

Pil Italia a -17,3% annuo, torniamo ai livelli di ricchezza del 1995

Crollo senza precedenti per l’economia italiana nel secondo trimestre, pur minore delle attese. Peggio hanno fatto Francia e Spagna. Ieri, i dati negativi anche di Germania e USA. La ripresa sarà lunga e tortuosa.

 

Il prodotto interno lordo dell’Italia è crollato del 12,4% nel secondo trimestre rispetto ai primi tre mesi dell’anno e del 17,3% su base annua. Si tratta del dato peggiore dall’inizio delle rilevazioni storiche dell’ISTAT. A dire il vero, ci si aspettava pure peggio. L’Ufficio Studi di Unicredit paventava un -18% e il consensus degli analisti si attestava al -15,5%. Ciò nulla toglie alla drammaticità delle cifre pubblicate oggi dall’istituto di statistica, in base alle quali il pil reale, vale a dire scorporando l’inflazione, si è portato ai livelli del 1995, ben 25 anni fa.Ieri, il dato scioccante degli USA, con il pil a -32,9% su base trimestrale, pur meglio delle attese che erano per un crollo in area 34%. Peggio del previsto la Germania, dove si è registrato un pesante -10,1%. Ma i dati che stanno allarmando forse più di tutti sono quelli di Francia e Spagna: la prima segna -13,8%, la seconda -18,5%.La variazione acquisita per l’Italia nel 2020 è del -14,3%. Questo significa che se il pil non variasse nel terzo e nel quarto trimestre, la caduta sarebbe di tale entità nell’intero anno.

Crisi economica: le stime di Prometeia adombrano un rischio default per l’Italia

Ci si aspetta che almeno su base congiunturale si inizi a intravedere un minimo di ripresa un po’ ovunque in Europa, sebbene l’aumento del numero dei contagi, particolarmente accentuato in Spagna, faccia temere l’imposizione di nuove restrizioni, se non di “lockdown” locali e mirati. Sarebbe un colpo molto duro a economie già stremate da mesi di chiusura delle attività, dal crollo della mobilità e dal conseguente calo dei redditi.

Problema saranno i tempi della ripresa

Concentrandoci sull’economia italiana, il vero problema non è per noi l’entità del crollo, sostanzialmente nella media delle grandi economie europee, quanto la velocità con cui ce lo metteremo alle spalle. L’Italia si affacciava al 2020 con oltre 4 punti percentuali di pil da recuperare rispetto al lontano 2007, l’anno che precedette la grave crisi finanziaria mondiale, da noi replicata nel triennio 2011-2014. E siamo l’unico caso al mondo per una grande economia a non avere ancora recuperato le perdite della precedente crisi.Il rimbalzo probabilmente ci sarà già entro l’anno, ma non andrà confuso con la ripresa. Quest’ultima implica il recupero dei livelli di ricchezza perduti, che un po’ tutta Europa prevede ci sarà non prima del 2022, sempre che non si presentino ulteriori intoppi. Ai tassi di crescita pre-Covid, potremmo dover attendere anche 4-5 anni prima di tornare al pil reale di fine 2019, perché dopo il rimbalzo non esiste ad oggi alcuna ragione per credere che il ritmo di crescita della nostra economia acceleri. Anzi, parte del sistema imprenditoriale ha già dovuto chiudere battenti definitivamente, altri negozi, stabilimenti, alberghi e uffici seguiranno nei prossimi mesi, quando il calo dei redditi si tradurrà in un calo di domanda strutturale per svariati servizi e beni.Un minimo sollievo arriverebbe con il “Recovery Fund”, che tra sovvenzioni e prestiti staccherebbe per l’Italia fino a circa 210 miliardi di euro. Peccato che i primi aiuti dovrebbero vedersi solo tra poco meno di un anno, quando la crisi avrà mietuto parecchie vittime nel Bel Paese. Del resto, dopo il 2007 non ci siamo mostrati in grado di mantenere i livelli di produzione industriale, segno che parte del capitale fisso sia stato intaccato per sempre. L’unico vero sostegno alla nostra economia è già arrivato dalla BCE con un accomodamento monetario senza precedenti, lo stesso che sta consentendoci di indebitarci a costi bassi per sopperire al crollo del gettito fiscale e per finanziare le misure di spesa a tutela dei redditi

Se durante l’emergenza coronavirus per legge è stato impossibile licenziare a crollare sono state le assunzioni. Ad aprile sono stati persi quasi 500 mila posti di lavoro con contratto a termine. Lo rileva l’Inps nel suo Osservatorio sul precariato spiegando come le assunzioni attivate dai datori di lavoro del settore privato nei primi quattro mesi del 2020 sono state appena 1 milione e 493 mila. Un crollo tra tempo determinato e non del 39% sull’anno particolarmente rilevante se si guarda ai singoli mesi: ad aprile (-83%) e a marzo (-45%) per effetto dell’emergenza legata alla pandemia Covid-19 e alle conseguenti restrizioni.L’Istituto spiega come tutte le tipologie contrattuali siano state interessate ma in maniera forte le assunzioni con contratti a termine. Il saldo dei rapporti a tempo determinato ad aprile 2020 è risultato pari a -499.000. «L’impatto del Covid-19 — si legge nel report — ha fortemente interessato i contratti a termine, accentuandone le tendenze, già in essere, alla flessione». Le trasformazioni da tempo determinato nel periodo gennaio-aprile 2020 sono state poi solo 199 mila, in flessione di quasi un terzo rispetto allo stesso periodo del 2019 . In aprile risultati negativi anche per gli intermittenti (-91.000), i somministrati (-133.000) e gli stagionali (-169.000).

Coronavirus, il Lockdown si abbatte sulle Entrate Tributarie per più 15 miliardi di euro

In pieno periodo Lockdown (primi 5 mesi del 2020) le entrate tributarie totali perdono circa 15,3 miliardi di euro.

Le Entrate tributarie crollano nei primi 5 mesi del 2020, ma siamo nel pieno Lockdown a causa dell’emergenza Coronavirus.

Nel periodo gennaio-maggio 2020, le entrate tributarie erariali accertate in base al criterio della competenza giuridica ammontano a 149.731 milioni di euro, con una diminuzione di 15.300 milioni di euro rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-9,3%)”. La variazione negativa riflette l’impatto delle misure introdotte dal D.L. n. 23/2020 (misure di contrasto all’emergenza coronavirus) che ha disposto la sospensione di versamenti tributari e contributivi per molti soggetti titolari di partita iva. Quanto detto è stato riportato da un recente report del Ministero dell’economia e delle finanze. Vediamo meglio di cosa si tratta.

Analisi dei flussi delle entrate tributarie in pieno periodo Lockdown

Secondo il report del Ministero dell’Economia e delle Finanze, pubblicato in data 6 luglio 2020, nei primi 5 mesi del 2020 (gennaio – maggio) le entrate totali, come già detto, ammontano a 149.731 milioni di euro (- 15,3 miliardi di euro, pari a – 9,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente).

In particolare:

  • 84.098 milioni di euro di imposte dirette (+ 465 milioni di euro, pari a +0,6%);
  • 65.633 milioni di euro le imposte indirette (- 15.765 milioni di euro, pari a – 19,4%).

Le imposte indirette, come è possibile notare, hanno registrato il maggior calo, in particolar modo l’Iva sugli scambi interni (- 7.922 milioni di euro, pari a – 18,0%).Secondo il report, i dati sono la conseguenza dell’applicazione delle misure introdotte con il Decreto Legge del 17 marzo 2020 (art. 61 e 62), il quale ha disposto il rinvio dei versamenti Iva per i soggetti con ricavi e compensi non superiori a due milioni di euro e comunque, prescindendo il requisito dimensionale, per i soggetti che hanno domicilio fiscale nelle zone maggiormente colpite dalla crisi sanitaria.

Entrate tributarie e contributive in calo nei primi 5 mesi, è l’effetto dell’emergenza Covid

In Italia le entrate tributarie e contributive nei primi cinque mesi del 2020 evidenziano nel complesso una diminuzione dell’8,4% (-22.268 milioni di euro) rispetto all’analogo periodo dell’anno 2019. LO ha fatto sapere il inistero dlel’Economia e delle Finanze, spiegando che “la notevole flessione dei dati delle entrate tributarie e contributive è determinata dall’effetto delle misure adottate per fronteggiare l’emergenza sanitaria”.

Debito pubblico sfonda muro 2.500 miliardi, pro-capite è di oltre 41mila euro

Sale a maggio il debito delle Amministrazioni pubbliche. Il dato si è attestato a 2.507,6 miliardi, in aumento di 40,5 miliardi rispetto al mese precedente e nuovo record storico Lo rende noto la Banca d’Italia nella pubblicazione statistica “Finanza pubblica: fabbisogno e debito” spiegando che l’incremento riflette, oltre al fabbisogno del mese (25 miliardi), l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (14,5 miliardi, a 61,4); gli scarti e i premi all’emissione e al rimborso, la rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e la variazione del tasso di cambio hanno nel complesso aumentato il debito di ulteriori 1 miliardi. Con riferimento ai sottosettori, il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 40,6 miliardi mentre quello delle Amministrazioni locali è diminuito di 0,1 miliardi. Il debito degli Enti di previdenza è rimasto pressoché invariato.Quanto alle entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 24,6 miliardi a maggio, in diminuzione del 27,8 per cento (-9,5 miliardi) rispetto allo stesso mese del 2019, risentendo della sospensione di alcuni versamenti fiscali disposta dai provvedimenti governativi approvati negli ultimi mesi e del peggioramento del quadro macroeconomico. Nei primi cinque mesi del 2020 le entrate tributarie sono state pari a 143,7 miliardi, in diminuzione dell’8,2 per cento (-12,9 miliardi) rispetto al corrispondente periodo del 2019.“Nuovo record storico. Battuto il precedente primato del luglio 2019, quando il debito arrivò a 2.467,442 miliardi. Si tratta, inoltre, di un debito destinato inevitabilmente ad aumentare per via dell’emergenza Covid” afferma Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori. Considerati gli ultimi dati Istat resi noti in settimana sulla popolazione residente, è come se ogni italiano avesse un debito di oltre 41 mila euro, 41.623 euro. A famiglia si tratta di un debito pari a quasi 96 mila euro, 95.736 euro.

Italia: popolazione in calo, nuovo minimo storico delle nascite dall’unità

La popolazione dell’Italia continua a diminuire. Secondo l’ultimo rapporto Istat, diffuso oggi, al 31 dicembre 2019 la popolazione residente è pari a 60.244.639 persone, in calo dello 0,3% (quasi 189 mila unità rispetto all’inizio dell’anno). Il persistente declino avviatosi nel 2015 ha portato a una diminuzione di quasi 551 mila residenti in cinque anni.Rispetto all’anno precedente, si registra un nuovo minimo storico di nascite dall’unità d’Italia, scese del 4,5%, oltre che un lieve aumento dei decessi e più cancellazioni anagrafiche per l’estero.Il numero di cittadini stranieri che arrivano in Italia è in calo (-8,6%), mentre prosegue l’aumento dell’emigrazione di cittadini italiani (+8,1%).

Più pensioni che buste paga, Quota 100 agevola lo storico sorpasso in un’Italia vecchia e in crisi

Mentre l’Olanda suggerisce al governo Conte di smantellare Quota 100, l’Ufficio studi della CGIA afferma che il numero delle pensioni erogate in Italia ha superato quello delle buste paga. Un sorpasso storico in virtù degli ultimi dati disponibili.A maggio coloro che avevano un impiego lavorativo sono scesi a 22,77 milioni di unità , mentre gli assegni pensionistici erogati sono superiori. Al 1° gennaio 2019 la totalità delle pensioni erogate in Italia ammontava a 22,78 milioni. Se teniamo conto del normale flusso in uscita dal mercato del lavoro da parte di chi ha raggiunto il limite di età e dell’impulso dato dall’introduzione di “quota 100”, successivamente all’1 gennaio dell’anno scorso il numero complessivo delle pensioni è aumentato almeno di 220 mila unità.“Il sorpasso è avvenuto in questi ultimi mesi- afferma il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – Dopo l’esplosione del Covid, infatti, è seguito un calo dei lavoratori attivi. Con più pensioni che impiegati, operai e autonomi, in futuro non sarà facile garantire la sostenibilità della spesa previdenziale che attualmente supera i 293 miliardi di euro all’anno, pari al 16,6 per cento del Pil. Con culle vuote e un’età media della popolazione sempre più elevata, nei prossimi decenni avremo una società meno innovativa, meno dinamica e con un livello e una qualità dei consumi interni in costante diminuzione”.

Italiani e boom risparmio: Censis, aumento liquidità nel lockdown vale quanto il Mes

Il 67,8% degli italiani ha paura per la situazione economica familiare. Una paura radicata nei territori e trasversale ai diversi gruppi sociali. La percentuale sale al 72% tra i millennial e le donne, sfiora il 75% nel Sud, supera il 76% tra gli imprenditori e arriva all’82,6% tra le persone con i redditi più bassi. Nella fase post-emergenza, la biopaura da contagio e la minaccia alla salute si saldano ai timori per le incerte prospettive economiche. La paura diventa così il principio regolatore emotivo di questa nuova stagione. Sono solo alcuni trend che emergono dal rapporto «Il valore della diversità nelle scelte d’investimento prima e dopo il Covid-19» realizzato dal Censis in collaborazione con Assogestioni, associazione italiana del risparmio gestito.Per quanto riguarda la liquidità nei portafogli delle famiglie italiane è aumentata di 34,4 miliardi di euro nei tre mesi più neri dell’epidemia (febbraio-aprile): una cifra quasi uguale al valore del Mes per l’Italia di cui oggi tanto si discute. Sono risorse che si aggiungono ai 121 miliardi di euro di liquidità aggiuntiva accumulata negli ultimi tre anni, prima dell’esplosione dell’epidemia (+8,4% in termini reali nel triennio): una cifra pari a nove volte le risorse del Piano Marshall destinate al nostro Paese per la ricostruzione del dopoguerra rapportate ai valori attuali.

Turismo: 10 milioni di presenze in meno in Italia, 1 su 4 non parte

Inizio d’estate fiacco per il turismo in Italia. Nel mes di giugno si sono contati 10 milioni di turisti italiani e stranieri in meno con un impatto drammatico su economia ed occupazione per il settore della vacanza Made in Italy in cui operano 612mila imprese con 2,7 milioni di lavoratori. E’ quanto emerge dal bilancio della Coldiretti per il mese che inaugura la stagione estiva. Anche le previsioni non sono positive con quasi 1 italiano su 4 (-23%) che rispetto allo scorso anno ha rinunciato a prendere le ferie a luglio per le incertezze, le preoccupazioni e le difficoltà economiche generate dal coronavirus.Completamente bloccati gli arrivi dei turisti provenienti da paesi come Giappone, Cina e Stati Uniti mentre segnali ancora deboli arrivano da Germania e Nord Europa. Per quanto riguarda i turisti italiani, l’Italia è di gran lunga la destinazione preferita che è scelta come meta dal 93% rispetto all’86% dello scorso anno. La novità di quest’estate sta anche nel fatto che –1 italiano su 4 (25%) ha scelto una destinazione vicino casa, all’interno della propria regione di residenza. Se la spiaggia resta la meta preferita, cresce il turismo di prossimità con la riscoperta dei piccoli borghi e dei centri minori nelle campagne italiane, in alternativa alle destinazioni turistiche più battute, mentre crollano le presenze nelle città.

Italia, Barclays su debito pubblico: ‘calo quota stranieri in BTP abbassa rischio di capitolazione’

Oltre all’assist che la Bce sta fornendo alla carta italiana con i suoi vari programmi di stimoli monetari, altro aspetto dovrebbe in qualche modo blindare il paese: il fatto che la quota di debito pubblico in mano agli investitori stranieri sia scesa, nell’ultimo decennio, di 25 punti base, circa al 30%. E’ quanto emerge da un report stilato dagli analisti di Barclays.Tale fattore, scrivono gli analisti, dovrebbe aiutare a ridurre ‘il rischio di capitolazione (dell’Italia), ovvero il rischio di un’ondata destabilizzante di sell da parte degli investitori che, a sua volta, minaccerebbe di scatenare una crisi del debito nella periferia dell’Eurozona”.Il trend discendente della quota di BTP nelle mani degli stranieri potrebbe tra l’altro, secondo Barclays, continuare: la partecipazione potrebbe infatti, secondo gli analisti, calare dal 30% attuale a un valore poco al di sopra del 20%: ciò renderebbe l’Italia molto meno vulnerabile al rischio di capitolazione rispetto a quello corso prima della crisi dei debiti dell’Eurozona, quando erano questi investitori (non domestici) a detenere la fetta più grande del debito italiano in circolazione”.

Btp Futura, attenti a fare il paragone con Btp Italia. In ogni caso, Roma blindata da ‘crisi debiti sovrani bis’

Parte oggi il terzo giorno della prima emissione del BTP Futura, BTP rivolto esclusivamente agli investitori retail, che ha preso il via lunedì 6 luglio.

Dopo gli ordini per quasi 2,4 miliardi di euro della prima giornata di collocamento, il BTP Futura ha concluso la seconda giornata di offerta con ordini per 1,6 miliardi.

Nei primi due giorni di collocamento, dunque, gli ordini degli investitori retail si sono attestati a un valore poco al di sopra del 4 miliardi, in corrispondenza di 112.000 contratti, rispetto alle sottoscrizioni del BTP Italia che, nei primi due giorni, era stata pari a circa 9 miliardi.Sebbene venga automatico fare un paragone tra le due emissioni, vale la pena ricordare che il BTP Italia aveva una scadenza a cinque anni, a fronte di tassi più generosi, e non era rivolto solo ai piccoli risparmiatori.Un giudizio positivo sul BTP Futura è arrivato nelle ultime ore da Filippo Mormando, strategist presso MPS Capital Services, che ha detto che, “considerando i numeri dei primi due giorni dell’emissione, possiamo dire che è un buon inizio”.
Tra l’altro, – ha continuato Mormando, intervistato da Reuters – non ha senso fare paragoni con il BTP Italia, perchè questi titoli sono diversi sia in termini di duration che di coupon”.
Non si può tuttavia non notare che l’accoglienza non sia delle più entusiaste, come avevano d’altronde previsto alcuni analisti, una volta appresi i tassi minimi cedolari garantiti, annunciati venerdì scorso dal Tesoro.
La serie, si ricorda, è la seguente: all’1,15% dal 1° al 4° anno; all’1,30% dal 5° al 7° anno; all’1,45% dall’8° al 10° anno”, come si legge nella nota del Mef.
In realtà, prima che i tassi venissero svelati, gli analisti di UBS avevano fatto notare come l’investimento nel BTP Futura fosse attraente, ma a una condizione ben precisa. UBS manifestava nella stessa nota la fiducia nella carta italiana.
Idem ha fatto nelle ultime ore Barclays, che ha zittito tutti coloro che hanno espresso più volte dubbi sulla sostenibilità del debito italiano, scrivendo in un report che, a suo avviso, anche con lo shock Covid-19, più che finire in un “percorso insostenibile” la traiettoria del debito italiano, probabilmente, si stabilizzerà. Certo, si stabilizzerà a livelli alti.Per questo, “potrebbe essere necessaria una maggiore mutualizzazione del debito, al fine di mettere il debito stesso in una traiettoria discendente e renderlo meno vulnerabile agli shock macro”.
“Il contributo chiave – si legge nel report di Barclays- è rappresentato dai tassi di interesse core che sono strutturalmente bassi e dall’impegno da parte della Bce (con il suo massiccio piano di Quantitative easing, a cui si è aggiunto in tempi di coronavirus anche il PEPP, ovvero il QE pandemico – a mettere un limite agli spread italiani“.  E questo nonostante il ratio debito-Pil per l’Italia, secondo Barclays, toccherà il 165% , rispetto a una media in Eurozona attesa al 100% nel 2020, dopo l’85% circa del 2019.
Gli analisti fanno notare però un altro aspetto che dovrebbe in qualche modo blindare l’Italia: il fatto che la quota di debito pubblico in mano agli investitori stranieri sia scesa, nell’ultimo decennio, di 25 punti base, circa al 30%.
Tale fattore dovrebbe aiutare a ridurre ‘il rischio di capitolazione, ovvero il rischio di una ondata destabilizzante di sell da parte degli investitori che, a sua volta, minaccerebbe di scatenare una crisi del debito nella periferia dell’Eurozona. Il trend discendente dei BTP nelle mani degli stranieri potrebbe tra l’altro, secondo Barclays, continuare: la partecipazione potrebbe infatti, secondo gli analisti, calare dal 30% attuale a un valore poco al di sopra del 20%: e ciò renderebbe l’Italia molto meno vulnerabile al rischio di capitolazione rispetto a quello corso prima della crisi dei debiti dell’Eurozona, quando erano questi investitori (non domestici) a detenere la fetta più grande del debito italiano in circolazione”.
Tornando al BTP Futura, Vincenzo Longo di IG aveva parlato di una scommessa nella scommessa:
“La struttura è allettante soprattutto se detenuta fino a scadenza, per via del premio fedeltà – aveva fatto notare – Ovviamente in un mondo con tassi sottozero a un investitore retail l’1 virgola potrebbe non bastare come rendimento, ma probabilmente non si rendono conto del mondo finanziario che li circonda. Certo che il rischio va di pari passo con il rendimento in questo caso, dato che il debito/Pil è previsto sfiorare il 200% nei prossimi due anni. Insomma, una scommessa nella scommessa”.
Ancora più schietta la posizione di Altroconsumo:, che consiglia agli investitori che guardano al BTP Futura di non puntare più di una partecipazione del loro patrimonio e che, ancora, fa notare che i rendimenti di certo non sono da capogiro.

I costi della crisi sociale d’autunno ricadranno su lavoratori a tempo e contribuenti

Blocco dei licenziamenti fino a Ferragosto, ma la vera crisi arriverà dopo e il governo non ha ancora un piano per sostenere la ripresa economica dalla seconda metà dell’anno.

I numeri della crisi economica globale provocata dal Coronavirus stanno facendosi sempre più allarmanti. Il prodotto interno lordo del pianeta quest’anno dovrebbe arretrare del 4,9%, ma in Italia il crollo sarebbe del 12,8%, stando al Fondo Monetario Internazionale. A doppia cifra è atteso anche il nostro deficit pubblico e c’è tutta l’impressione che gli analisti si stiano tenendo volutamente bassi per non alimentare timori e preoccupazioni sullo stato di salute di questo o quel paese, più di quanto non ve ne siano già. L’Italia è caduta in uno stato di depressione profonda, a fianco di Francia e Spagna, per restare tra le grandi economie dell’Eurozona.
 

Crisi di Conte, autunno caldo e Italia nave senza capitano nel mare in tempestaIl governo

Conte ha bloccato i licenziamenti individuali e collettivi fino al 17 agosto prossimo, se motivati da ragioni economiche. Le imprese non possono ridurre il personale a causa della crisi, per cui il tasso di disoccupazione in questi mesi è paradossalmente diminuito, pur risalendo a maggio. Per questo, per misurare le reali condizioni del nostro mercato del lavoro risulta preferibile visionare il tasso di occupazione, sceso al 57,6% (superava il 59% prima del Covid), con ben 538 mila posti andati perduti durante la pandemia.

Cosa succede dopo il blocco dei licenziamenti

Chiaramente, se le imprese potessero licenziare, molte lo farebbero e il tasso di disoccupazione si porterebbe ben al di sopra del 7,8% ufficiale. A maggio, le ore di cassa integrazione avrebbero riguardato 4,8 milioni di lavoratori, che incidono per oltre un quinto dell’intera forza-lavoro attuale. Questo, per farvi capire l’entità del dramma. Dovremmo sperare che da qui a quando il blocco dei licenziamenti verrà rimosso, le imprese tornino nelle condizioni di mantenere i livelli occupazionali.Ma saremmo ingenui a convincerci di ciò. Né il governo ha adottato uno stralcio di iniziativa che agevoli il rilancio della nostra economia, limitandosi a prevedere bonus a pioggia, dall’impatto limitato e temporaneo per i vari settori coinvolti.Per questo, lo stesso esecutivo lascia trapelare da settimane l’intenzione di prorogare ulteriormente il blocco dei licenziamenti fino alla fine dell’anno. Sarebbe una misura dalla dubbia legittimità costituzionale, oltre che un modo per calciare il barattolo, caricando sulle imprese l’onere dell’incertezza. Se è pur vero che fino a quando i licenziamenti resteranno impediti, i lavoratori verranno pagati dallo stato tramite la cassa integrazione, d’altra parte il costo di questa operazione ricadrà sulle spalle dei contribuenti in forma di maggiore debito futuro, sempre che le imprese non chiudano e suggellino la perdita ufficiale del lavoro. E tra i contribuenti vi sono le stesse imprese, che per ogni mese di cassa integrazione in più diventano maggiormente consapevoli delle misure che si renderanno necessarie per colmare quel “buco” crescente del bilancio statale.Ma il blocco non riguarda tutti i lavoratori, bensì quelli assunti con contratto a tempo indeterminato. Non dimentichiamoci, però, che in Italia esistono 3 milioni di lavoratori a termine e 1 milione di “atipici”, cioè lavoratori formalmente non subordinati, ma che nei fatti sono alle dipendenze delle imprese, come i co.co.co e i co.co.pro. E questa parte del mercato del lavoro ne è il ventre molle, quella su cui risulta anche oggi scaricare le conseguenze del cattivo andamento dell’economia. Trattasi di contratti che con ogni probabilità non saranno rinnovati alla scadenza, lavoratori “licenziati”, ma che formalmente non lo saranno, andando ad ingrossare le file degli inoccupati.

Rischio tensioni inter-generazionali

E poiché i contratti a termine sono concentrati perlopiù tra i giovani, queste disparità di trattamento si riveleranno esiziali sul piano anagrafico. Avremo ancora di più una generazione di protetti che si scontrerà con una generazione priva di alcuna tutela.L’autunno rovente che si annuncia dovrebbe essere alimentato dal surriscaldamento della temperatura proprio tra la seconda, quella in cui da qualche decennio cova un malcontento rabbioso e politicamente destabilizzante. Milioni di under-35 senza prospettive, senza reddito stabile, senza casa e senza tutele, a cui sino ad oggi è stato risposto che dovranno arrangiarsi e dimenticare il benessere conquistato da genitori e nonniTornando al contribuente, su di esso ricadranno anche oneri impropri, scaricati dal settore privato per approfittare della situazione normativa eccezionale e abbellire i bilanci. Ci riferiamo al rischio che molte imprese usino la cassa integrazione per tagliare artificiosamente il costo del lavoro, magari continuando a tenere in azienda i dipendenti. Una sorta di sfruttamento improprio di un ammortizzatore sociale nato per essere a metà strada tra disoccupazione e lavoro. E in una fase in cui alle imprese vengono imposti numerosi costi per ottemperare alle regole anti-Covid, non possiamo escludere che molti titolari si sentano quasi in diritto di “fregare” lo stato per farsi risarcire indebitamente.

In autunno, questi nodi arriveranno al pettine, tra licenziamenti non più procrastinabili e la lunga lista della spesa che ci presenterà il conto. Nessuno s’immagini che per l’anno prossimo sia possibile una manovra pesantemente in deficit come i due scostamenti di bilancio già votati e il terzo da approvare a luglio in Parlamento. Il sostegno fiscale all’economia continuerà a rendersi necessario, ma attraverso le misure più strettamente connesse ad affrontare l’emergenza economica, dopo quella sanitaria. L’occupazione ne risentirà brutalmente, molti posti di lavoro si perderanno per strada e le tensioni tra occupati e disoccupati, giovani e meno giovani, garantiti e non garantiti si faranno più serie che mai. E manca un piano per sventarle o almeno attutirle quando faranno la loro comparsa.

Assunzioni agevolate: sconto contributivo del 50% per i neoassunti, via libera dall’Inps

Chi assume lavoratori fruitori di Cig o assegno di ricollocazione può beneficiare dello sconto del 50% sul versamento dei contributi. L’Inps spiega come fare.

 

Al via lo sconto contributivo del 50% per chi assume lavoratori beneficiari di assegno di ricollocazione o fruitori di Cig. La misura è attiva da mese di giugno 2020 e interessa datori di lavoro, imprese e professionisti.A illustrare le modalità di assunzione dei soggetti interessati e i benefici contributivi è la recente circolare Inps numero 77 del 27 giugno 2020 con la quale l’Istituto spiega come devono procedere i datori di lavoro per ottenere lo sgravio contributivo del 50% per i neoassunti.

Contributi scontati al 50% per i neoassunti

La misura, prevista dalla legge numero 205 del 2017, è fruibile a partire dal mese di giugno 2020 e consiste in uno sgravio contributivo pari al 50% dei contributi previdenziali previsti per chi assume lavoratori in cassa integrazione o fruitori di assegno di ricollocazione (Adr), come previsto dalla legge di bilancio 2018. Il beneficio è accordato mensilmente nella misura massima di 4.030 euro complessivi per ogni dipendente. Per ottenere lo sconto il datore di lavoro deve, però, richiedere anticipatamente l’autorizzazione da parte dell’Inps per via telematica (online) in maniera tale da indicare il codice dello sgravio sulla denuncia Uniemens. L’incentivo – precisa l’Inps – spetta a tutti i datori di lavoro privati, anche non imprese (come i professionisti), compresi quelli del settore agricolo. Non spetta invece alle pubbliche amministrazioni.

Chi ha diritto all’incentivo Inps

L’incentivo pari al 50% dei contributi spetta a tutte le tipologie di lavoro dipendente, sia a tempo determinato che indeterminato, part time o full time, compreso l’apprendistato. Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale, il limite massimo di 4.030 euro di sgravio contributivo sarà rapportato al numero delle ore lavorate. Lo sconto non spetta, invece, per i dipendenti del pubblico impiego, per i lavoratori domestici, i lavoratori occasionali o a intermittenza.

La durata del bonus è pari a 12 mesi nel caso di assunzioni a tempo determinato e a 18 mesi per quelle a tempo indeterminato. Qualora il rapporto di lavoro dovesse trasformarsi da tempo determinato a tempo indeterminato, anche il periodo di sgravio sarà prorogato fino a 18 mesi. Per poter beneficiare dello sgravio, il datore di lavoro – spiega la circolare Inps – deve essere in regola con gli obblighi contributivi (Durc) e rispettare i principi generali in tema di assunzioni agevolate (art. 31 del dlgs n. 150/2015).

Come ottenere l’autorizzazione, il modulo BADR

Come detto, per poter assumere un dipendente beneficiando dello sconto sul versamento dei contributi, il datore di lavoro deve richiedere preventivamente all’Inps l’autorizzazione. Per farlo è necessario collegarsi al sito internet Inps e dopo aver effettuato l’accesso con le proprie credenziali e il PIN, il datore di lavoro interessato deve compilare e inviare il modulo di istanza «BADR» predisposto sul sito internet, sezione «Portale delle Agevolazioni (ex DiResCo)». L’Inps, ricevuta la domanda, effettua le opportune verifiche e, se positive, autorizza la fruizione dello sgravio contributivo per il periodo spettante attraverso il conguaglio/compensazione nelle denunce contributive mensili (Uniemens).

Limiti Bce: liquidità non è solvibilità. Ondata default in Italia, spread BTP-Bund dovrebbe valere più di 300′

Attenzione: liquidità non è sinonimo di solvibilità e l’ondata di liquidità che la Bce sta iniettando nel sistema finanziario dell’Eurozona non riuscirà a impedire, in tempi di COVID, una carrellata di nuovi default

“Italy’s Bonds Risk Battering From Torrent of Company Defaults”: è il titolo di un articolo scritto da James Hirai, pubblicato su Bloomberg, che lancia un chiaro allarme, sulla base di quanto viene paventato da alcuni analisti.
“La scorsa settimana lo spread BTP-Bund ha testato il minimo dallo scorso marzo”: tutto merito della Bce che, con i suoi strumenti (tra cui il PEPP, QE pandemico), sta sorreggendo le quotazioni di tutti i bond sovrani dell’Eurozona.Eppure – avverte Patrock Perret-Green,. responsabile della divisione di ricerca e strategia di AdMacro – i costi di finanziamento di Roma potrebbero esplodere se aumenteranno le società incapaci di rimborsare i loro debiti”Questo perchè, spiega Perret-Green, “la liquidità non è uguale alla solvibilità”. Di definizioni di liquidità ce ne sono diverse: ma, se facciamo riferimento alla liquidità contabile di una determinata azienda, per liquidità si intende la facilità con cui una società è capace di ottemperare ai propri obblighi finanziari con gli asset liquidi che ha a disposizione, e dunque l’abilità di far fronte ai debiti nel momento in cui essi scadono. Solvibilità è un’altra cosa: è la capacità di una impresa di ripagare i debiti di lungo termine – dunque non quelli di immediata scadenza -. La solvibilità, spiega ancora , è essenziale per garantire all’azienda di rimanere attiva nel business, dunque di sopravvivere. “Se è vero che una società ha bisogno anche della liquidità per prosperare e per rimborsare i suoi obblighi di breve periodo, una tale liquidità di breve periodo non dovrebbe essere confusa con la solvibilità. Una società che è insolvente spesso finisce per dichiarare bancarotta”.
Per questo l’esperto di ADMacro mette in guardia chi fa confusione tra questi due termini, ricordando tra l’altro che “il sistema bancario sclerotico (dell’Europa) detiene anche grandi quantità di bond governativi junk, ed è zavorrato da NPL (crediti deteriorati)”. In una situazione del genere, in cui a causa della crisi scatenata dal COVID diverse società potrebbero fallire, soprattutto nei settori del turismo, alberghiero e retail – a causa del pesante effetto del lockdown sulle loro attività – Perret-Green ritiene che lo spread BTP-Bund dovrebbe essere molto più alto dei livelli attuali, soprattutto se si considera che nel 2018, a seguito delle elezioni politiche e nel periodo in cui si formò successivamente il governo M5S-Lega, schizzò sopra la soglia dei 300 punti base. Ora, invece, oscilla attorno a quota 177, mentre secondo l’esperto dovrebbe valore molto più di quota 300.
Anche lui interpellato da Bloomberg Antoine Bouvet, strategist della divisione dei tassi di ING, ritiene che gli investitori stiano sottovalutando la probabilità di default dei debiti che hanno rating junk. Il timore dunque è che, nel momento in cui si comprenderà la portata “dei default delle aziende, si presenterà il rischio di un repricing degli asset”, dunque di una correzione. “Ciò irrigidirà le condizioni finanziarie, e potrà spingere la Bce ad agire (ancora)”.
Non tutti sono così pessimisti, visto che i mercati continuano a fare fiducia all’Italia, al punto che Roma è riuscita ad agttrarre più di 100 miliardi di euro con le sue offerte dei BTP a 10 anni. Tuttavia, se i BTP vengono acquistati, è anche e soprattutto perchè gli investitori stanno scommettendo sul Recovery Fund. Tuttavia, è stata la stessa numero uno della Bce, Christine Lagarde, a dire che un accordo potrebbe non essere trovato neanche in occasione del summit previsto per il mese di luglio. “E nel momento in cui si arriverà a un accordo su qualcosa, sarà probabilmente troppo tardi”.

PIRAMIDE DEMOGRAFICA ITALIA: un problema gravissimo

Questo potrebbe sembrare un post banale, ma non lo è perché vuole sottolineare un grande problema soprattutto italiano che va a tarpare le ali al nostro futuro, mettendo in dubbio tutti i percorsi di crescita e di ripresa economica.
Mi spiegate come possiamo sperare in un futuro roseo se siamo sempre più un paese di poveri vecchi, dove i giovani sono in minoranza, non ci sono nascite e i bisogni di sostegno per gli anziani sono sempre più pressanti? E se poi andiamo sul pubblico…

Popolazione sempre più vecchia, meno gente che lavora, meno gente che partecipa alla crescita economica e alla ripartenza del PIL, sempre meno contributi che entrano nelle casse dello stato. Insomma anche per la sostenibilità finanziaria dell’Italia tutto questo è un dramma strutturale che nessun QE e nessuna manovra di bilancio straordinaria può sanare. Anche in prospettiva, diventa un tassello importante da considerare in ottica di medio termine perchè, come AMPIAMENTE ANTICIPATO, ora siamo più o meno tutti abbastanza amici, ma tra qualche tempo, verranno a suonare al nostro campanello…

Il negoziato sul Recovery fund entra nelle mani della presidenza tedesca di turno della Ue: Merkel invita alla cautela, le posizioni dei governi «sono ancora molto lontane». Ma già si torna a parlare di Patto di Stabilità, sospeso durante la pandemia. Dombrovskis: «Non abbiamo fissato un calendario per disattivare la clausola, ci torneremo in autunno per prendere decisioni, allora o in primavera». Ma Gualtieri avverte: «L’Italia non potrà tornare dall’anno prossimo al rispetto dei vincoli».

Ultime da Karlsruhe sul QE. La stizza tedesca per i BTP: Bce non faccia troppo ‘Signore dell’Universo’

Spetta alla Bundesbank, ovvero alla banca centrale tedesca capitanata da Jens Weidmann, decidere se la Germania debba ritirarsi o meno dal programma PSPP (più noto come Quantitative easing) , oppure no. E’ quanto ha detto un giudice di Karlsruhe, dopo che la Corte costituzionale tedesca, lo scorso 5 maggio, ha stabilito con una sentenza shock che la Bce è “ultra vires”, ovvero che ha agito al di là dei suoi poteri, lanciando un ultimatum:
“La Bce ha tre mesi di tempo per dimostrare che gli obiettivi di politica monetaria perseguiti dal programma di acquisto di titoli pubblici non sono sproporzionati rispetto agli effetti di politica fiscale ed economica derivanti dal programma”. Praticamente, o Christine Lagarde & colleghi spieghino entro l’arco dei prossimi tre mesi il perché questo piano PSPP sia così importante, oppure la Bundesbank, banca centrale tedesca, non vi parteciperà più. Con la sentenza, l’Alta Corte tedesca ha sfidato platealmente la Corte di Giustizia europea, che aveva già certificato come, con il QE, la banca centrale non avesse travalicato il suo mandato. Il verdetto ha scatenato forti reazioni in Europa, alimentando una serie di indiscrezioni, tra cui quella seconda cui la Bce si starebbe preparando a perdere quello che è alla fine il suo maggiore azionista, ovvero la Germania: a perdere, insomma, la Bundesbank o a fare di tutto per farla rimanere tra le sue fila, pur ricorrendo all’ azione legale.Ma chi deve decidere l’atto finale? Uno dei giudici della stessa Karlsruhe, ha detto in un’intervista al Frankfurter Allgemeine Zeitung che la corte non è più coinvolta nel caso e che la decisione di continuare ad aderire al programma o di dire basta alla partecipazione del QE spetta alla stessa banca centrale tedesca.“La Bundesbank – ha detto il giudice Peter Huber, secondo quanto riporta la Reuters – è vincolata alla nostra decisione, ma deve determinare in base alla sua propria responsabilità se le dichiarazioni della Bce sulle ragioni (del QE) soddisfano le nostre richieste, oppure no”. Il motivo è che “la Corte Federale Costituzionale non è più coinvolta nel caso”.  a Sempre Peter Huber aveva dichiarato giorni fa, in un’intervista rilasciata al quotidiano Sueddeutsche Zeitung, che la Bce “non dovrebbe considerarsi il ‘Master of Universe’, ovvero il ‘Signore dell’Universo’.“Tutto ciò che chiediamo alla Bce è di accettare la sua responsabilità alla presenza del pubblico e giustificarsi anche, parlando anche di chi è stato messo in una posizione di svantaggio a causa delle misure da essa lanciate”.Dopo aver scatenato un’ondata di proteste, facendo scendere in campo la stessa Corte di Giustizia Ue  -costretta a mettere i punti sulle “i”, affermando che “il giudizio che la stessa emana in occasione di una sentenza preliminare è vincolante per le corti nazionali” – e dando il via a una serie di critiche arrivate, nel caso dell’Italia, dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Romano Prodi, Carlo Cottarelli, Enrico Letta, Karlsruhe mette insomma ufficialmente la palla nelle mani di Weidmann & Co.
Negli ultimi giorni, sono circolate indiscrezioni su un possibile compresso tra la Bundesbank e la Bce. Sempre Reuters riporta che la scorsa settimana la Bce ha concordato sulla necessità di consegnare a Jens Weidmann documenti crucali che giustifichino l’uso del suo bazooka QE, in modo che la Bundesbank possa poi presentarli al Parlamento e al governo tedeschi, come stabilito dall’Alta corte tedesca. La probabilità che un compromesso venga raggiunto è d’altronde salita, come ha ammesso la stessa Astrid Wallrabenstein, designata giudice di Karlsruhe dal partito dei Verdi pro-Europa, che ha detto di essere ottimista sulla possibilità che di trovi un accordo sul programma di acquisti di bond da parte della Bce. Sicuramente la presenza di Wallrabenstein ridurrà la maggioranza euroscettica della Corte costituzionale, smorzando il suo atteggiamento sfidante nei confronti della Bce. Tuttavia, qualche giorno un alert sul dossier è stato lanciato dall’ex Fmi Desmond Lachman, che più volte ha paventato il peggio per l’Italia e che in un recente articolo ha parlato di “The Euro’s Day of Reckong”, ovvero del Giorno del Giudizio per l’euro.
Riferendosi al caso Karlsruhe, Lachman riporta che “il cuore della questione è se la Bce ha violato l’Articolo 123 del Trattato di Lisbona. Quell’articolo vieta esplicitamente alla Bce di fornire un finanziamento monetario al deficit di un paese membro”. “Tutta questa disputa legale ha un significato estremo per il futuro dell’euro, viste le disastrate condizioni dell’economia e delle finanze pubbliche dell’Italia. “Anche prima che la pandemia da coronavirus scegliesse l’Italia come il suo epicentro in Europa, l’economia italiana era afflitta da una crescita economica sclerotica, da un sistema bancario molto debole da un livello del debito pubblico  elevato. Dopo la pandemia da coronavirus, non c’è stato più alcun dubbio sul fatto che i conti pubblici dell’Italia fossero diventati insostenibili”. Secondo Lachman, “ciò che la Corte tedesca non riuscirà a mandare proprio giù è la decisione della Bce di acquistare, negli ultimi due mesi, BTP per un valore di 50 miliardi: un ammontare che corrisponde quasi del tutto alle necessità di finanziamento del governo italiano dello stesso periodo. Qualcuno potrebbe pensare che la decisione della Bce di agire in tal senso non faccia altro che confermare la posizione della Corte, secondo cui la Bce è ricorsa al finanziamento dei deficit governativi, in violazione flagrante delle limitazioni stabilite dal Trattato di Lisbona
Alla metà di giugno, sul caso si è espresso lo stesso Parlamento tedesco, con i suoi esperti legali che hanno reso noto, attraverso una opinione legale, che deve essere sempre la Bundesbank a esaminare se il programma di acquisto di bond della Bce rispetti o meno il principio di proporzionalità (che, secondo Karlsruhe, sarebbe stato invece violato). Dal canto suo, in occasione della pubblicazione delle minute, la banca centrale guidata da Christine Lagarde ha reso noto che, nel corso dell’ultima riunione del 4 giugno scorso, il Consiglio direttivo ha stabilito che il programma di acquisto di asset è una misura “proporzionata”, che aiuta la Bce a raggiungere la stabilità dei prezzi: “Sono presenti (nel QE), misure di protezione, lanciate in questi programmi per limitare effetti potenzialmente avversi – si legge nelle minute, che hanno precisato anche che lo scherma di acquisti di asset del valore di 2 trilioni di euro, lanciato all’epoca di Mario Draghi nel 2015,  sono “uno strumento efficace”.

Italia ingabbiata dalla paura, Covid fa schizzare tendenza al risparmio

Calano reddito disponibile e potere d’acquisto delle famiglie italiane, salgono le tasse, ma tra i primi effetti più evidenti dell’emergenza Covid a spiccare è soprattutto l’aumento dell’avversione al rischio e quindi un balzo record della propensione al risparmio. Dai dati relativi al primo trimestre 2020 diffusi oggi dall’Istat emerge infatti che il reddito disponibile delle famiglie consumatrici è diminuito dell’1,6% rispetto al trimestre precedente, mentre la spesa per consumi finali si è ridotta del 6,4%.
La pressione fiscale nel primo trimestre 2020 è stata pari al 37,1%, in crescita di 0,5 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Balza la propensione al risparmio

La propensione al risparmio delle famiglie consumatrici è stimata al 12,5%, in aumento di 4,6 punti percentuali rispetto al quarto trimestre 2019. Il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito rispetto al trimestre precedente dell’1,7%, a fronte di una sostanziale stabilità dei prezzi (+0,2% la variazione del deflatore implicito dei consumi delle famiglie rispetto al trimestre precedente).“Le misure di sostegno ai redditi introdotte per contenere gli effetti negativi dovuti all’emergenza sanitaria hanno limitato in misura significativa la caduta del reddito disponibile e del potere di acquisto delle famiglie – rimarca l’Istat – . A fronte della brusca contrazione della spesa per consumi finali delle famiglie legata alle misure di contenimento, è aumentato considerevolmente il tasso di risparmio”.L’emergenza Covid che ha spinto gli italiani ad aumentare il tasso di risparmio visto il contesto di elevata incertezza. I saldi sui conti correnti sono lievitati nei primi mesi del 2020 e stando a quanto calcolato settimana scorsa dal Centro studi di Unimpresa i depositi e i conti correnti sono aumentati oltre 94 miliardi di euro (+7%) negli ultimi 12 mesi, spinti da impennata rilevante nei primi mesi del 2020 durante i quali, complice il lockdown e l’aumento della propensione al risparmio, si è registrato un incremento di quasi 40 miliardi (+30%).
Tornando al calo di reddito e potere d’acquisto, l’UNC mette in risalto come le misure di sostegno dei redditi adottate a partire dal Cura Italia siano servite e hanno consentito di contenere la caduta del reddito disponibile e del potere d’acquisto, ma non abbastanza.  “Specie se si considera che si tratta di dati trimestrali e che l’Italia diventa zona rossa solo a partire dal 10 marzo e le attività produttive sospese dal 25 marzo”, afferma Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori.

Intanto il deficit schizza in alto

I dati Istat evidenziano un altro importante effetto della crisi Covid con il balzo del deficit con un forte disavanzo primario. Il Conto delle Amministrazioni pubbliche (AP) evidenzia nel primo trimestre 2020 un indebitamento netto in rapporto al Pil pari al 10,8% dal 7,1% nello stesso trimestre del 2019. Il saldo corrente e il saldo primario delle AP sono risultati negativi, entrambi con un’incidenza sul Pil del -7,8% (rispettivamente, -4,1% e -4,2% nel primo trimestre del 2019).
“L’incidenza del deficit delle Amministrazioni pubbliche sul Pil è sensibilmente aumentata rispetto al primo trimestre del 2019 per la riduzione delle entrate e l’aumento delle uscite – argomenta l’Istat – . Queste includono, in base al principio della competenza economica, le spese straordinarie per cassa integrazione guadagni e varie tipologie di indennità relative al mese di marzo”.

Fondi pensione vs TFR: il confronto dei rendimenti nel lungo periodo. I PIP svettano per costi più alti

Meglio lasciare il TFR in azienda o affidarlo ai fondi pensione? Alla delicata domanda che si pongono tanti lavoratori si può in parte rispondere con i numeri diffusi oggi dalla Covip. I dati a breve vedono come nel primo trimestre 2020 l’effetto Covid-19, al netto dei costi di gestione e della tassazione, ha visto i fondi pensione negoziali cedere un media il 5,2%, i fondi aperti il 7,5% e i Pip di ramo III il 12,1%. Dalla consueta Relazione annuale emerge però come, valutando i rendimenti su orizzonti più propri del risparmio previdenziale, l’impatto della crisi appare più limitato. Su un arco di 10 anni, i fondi pensione segnano rendimenti medi annui composti positivi: +3% per i fondi negoziali e i fondi aperti e +2,4 per i PIP di ramo III. La rivalutazione del Tfr tra inizio 2010 e primo fine primo trimestre 2020 si attesta al 2%.A livello di costi, I PIP restano i prodotti più onerosi: su un orizzonte temporale di dieci anni, l’Indicatore sintetico dei costi (ISC) è in media del 2,20% (1,88% per le gestioni separate di ramo I e 2,30% per le gestioni di ramo III), mentre si conferma la minore onerosità dei fondi pensione negoziali (0,40%) e dei fondi pensione aperti (1,35%).La Commissione di vigilanza sui fondi pensione rimarca come alla fine del 2019 le posizioni in essere sono 9,1 milioni (inclusive di posizioni doppie o multiple, che fanno capo allo stesso iscritto). Gli iscritti ai PIP “nuovi” si attestano a 3,3 milioni, 3,1 milioni quelli ai fondi negoziali, oltre 1,5 milioni quelli ai fondi aperti e circa 600.000 quelli ai fondi preesistenti. Gli uomini sono il 61,9% degli iscritti alla previdenza complementare (il 73,4% nei fondi negoziali) e il 52,9% ha età compresa tra 35 e 54 anni, mentre il 29,5% ha almeno 55 anni. Quanto all’area geografica, la maggior parte degli iscritti risiede nelle regioni del Nord (57%).Per quanto riguarda le risorse accumulate dalle forme pensionistiche complementari a fine 2019, queste si attestano a 185 miliardi di euro, in aumento del 10,7% rispetto all’anno precedente, un ammontare pari al 10,4% del PIL e al 4,2% delle attività finanziarie delle famiglie italiane.Il 2019, afferma la Covip, è stato un anno molto positivo per i mercati finanziari e in particolar modo per quelli azionari. Ne hanno tratto giovamento anche i rendimenti dei fondi pensione, dopo un decennio in cui sono già stati in media più che positivi. Al netto dei costi di gestione e della fiscalità, i fondi pensione negoziali e i fondi aperti hanno guadagnato in media, rispettivamente, il 7,2% e l’8,3%; per i PIP “nuovi” di ramo III, il risultato è stato del 12,2%.Dall’indagine emerge che le forme pensionistiche complementari hanno dimostrato capacità di reazione alla crisi Covid sia per quanto attiene alla continuità operativa, sia in ordine alle modalità di interazione con gli iscritti. Ruolo importante hanno avuto anche i siti web, attraverso i quali sono state veicolate informazioni e indicazioni comportamentali da numerosi fondi pensione. Considerando l’andamento negativo dei mercati finanziari, la gran parte dei fondi pensione negoziali ha divulgato ai propri iscritti l’invito a non compiere scelte sull’onda emozionale, che potrebbero comportare il consolidamento di perdite. Da qui molti hanno consentito agli aderenti di annullare le richieste di switch, anticipazione, trasferimento o riscatto in precedenza presentate.

Imprese: -44mila nuove aziende a causa del lockdown. Dato destinato ad aumentare

Sono già 44mila in meno le nuove imprese in Italia a causa del lockdown. Il dato è destinato ad aumentare nel corso dell’anno, con lo scotto maggiore che verrà pagato soprattutto dalle regioni del Nord. Lo rileva Unioncamere, che ha tenuto oggi la sua Assemblea annuale.Tra marzo e maggio scorsi, il registro delle imprese segnala oltre 44mila iscrizioni in meno di nuove aziende rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, con una riduzione in termini percentuali del 42,8%. La pandemia mostra di aver già colpito duro in diverse regioni del Nord e del Centro. In valore assoluto, la Lombardia ha accusato lo stop maggiore: -8.721 rispetto al 2019.Alcuni settori, in particolare, hanno evidenziato una riduzione notevole delle iscrizioni. E’ il caso delle Confezioni di articoli di abbigliamento (-59%), della Ristorazione e dell’Alloggio (-54% circa entrambi), della Fabbricazione di prodotti in metallo (dove si registrano quasi la metà delle iscrizioni di nuove aziende rispetto allo stesso periodo dello scorso anno).

Pensioni integrative, il virus frena le adesioni ed erode i guadagni

Aumentano gli iscritti ai fondi pensione, ma i rendimenti e la raccolta dei fondi integrativi sono in calo.

 

Pensioni integrative sotto pressione. Il virus ha messo in crisi anche i fondi negoziali che gestiscono la raccolta per le pensioni complementari e che in Italia valgono più di 40 miliardi di euro.A tracciare il bilancio della situazione è la Covip, l’autorità indipendente che ha il compito di vigilare sul buon funzionamento del sistema dei fondi pensione in Italia e che lancia un segnale d’allarme sul sistema pensionistico integrativo.

Fondi pensione, raccolta in calo

Nel primo trimestre, i rendimenti medi sono stati in generale negativi e di entità maggiore al crescere della quota di portafoglio investita in titoli azionari. Al netto dei costi di gestione e della fiscalità, i fondi negoziali hanno perso il 5,2%; il 7,5 e il 12,1, rispettivamente, i fondi aperti e i Pip di ramo III, caratterizzati in media da una maggiore esposizione azionaria. E’ quanto si legge nella relazione annuale della Covip nella quale si precisa che per le gestioni separate di ramo I, che contabilizzano le attività a costo storico e non a valori di mercato e i cui rendimenti dipendono in larga parte dalle cedole incassate sui titoli detenuti, il risultato è stato positivo (0,4%). Ma quel che più preoccupa è la raccolta. “Nell’attuale contesto di maggiore difficoltà economica e sociale, il rischio è che la crisi non solo riduca la propensione all’adesione a fronte di altre urgenti esigenze sopravvenute, ma determini addirittura la fuoriuscita dal sistema dei lavoratori, magari perché divenuti disoccupati, o ne ridimensioni la partecipazione, ad esempio per la necessità di fronteggiare un calo di reddito“.

Calo contributi e aumento richieste prestazioni

Nei prossimi mesi “è ragionevole attendersi, anche in relazione all’entità della caduta dell’attività economica, una flessione dei contributi e un incremento delle richieste di prestazioni“. E’ quanto si legge nella relazione annuale della Covip nella quale si precisa che “le dimensioni effettive di questi fenomeni restano sotto osservazione da parte dell’Autorità di vigilanza, per poterne valutare l’impatto sui singoli fondi e sul sistema nel suo complesso e adottare le più adeguate misure per contenerne gli effetti o favorirne il recupero“. Dal punto di vista quantitativo, precisa l’Authority, “i dati disponibili, relativi ai primi mesi dell’anno, non sono ancora esaustivi dell’impatto che la crisi indotta dall’emergenza epidemiologica può determinare, ad esempio, sulla continuità dei versamenti contributivi ovvero su un maggior ricorso alle prestazioni del fondo“.

In aumento gli iscritti ai fondi complementari

A fronte di questi dati non proprio incoraggianti, va detto che il numero degli iscritti è in aumento. Alla fine del 2019, il totale degli iscritti alla previdenza complementare è di circa 8,3 milioni, in crescita del 4% rispetto all’anno precedente, per un tasso di copertura del 31,4% sul totale delle forze di lavoro. Le posizioni in essere sono 9,1 milioni (inclusive di posizioni doppie o multiple, che fanno capo allo stesso iscritto). Gli iscritti ai Pip “nuovi” si attestano a 3,3 milioni, 3,1 milioni quelli ai fondi negoziali, oltre 1,5 milioni quelli ai fondi aperti e circa 600.000 quelli ai fondi preesistenti. Gli uomini sono il 61,9% degli iscritti alla previdenza complementare (il 73,4% nei fondi negoziali), nel solco di quel gender gap che si è già manifestato negli anni scorsi. Si conferma anche un gap generazionale: la distribuzione per età vede la prevalenza delle classi intermedie e più prossime all’età di pensionamento: il 52,9% degli iscritti ha età compresa tra 35 e 54 anni, il 29,5% ha almeno 55 anni. Quanto all’area geografica, la maggior parte degli iscritti risiede nelle regioni del Nord (57%).

Covip, da fondi pensione invito a non fare scelte emozionali

In considerazione dell’andamento negativo dei mercati finanziari, la gran parte dei fondi pensione negoziali ha divulgato ai propri iscritti l’invito a non compiere scelte sull’onda emozionale, che potrebbero comportare il consolidamento di perdite.Molti fondi hanno consentito agli aderenti di annullare le richieste di switch, anticipazione, trasferimento o riscatto in precedenza presentate. Forme pensionistiche complementari hanno dimostrato capacità di reazione sia per quanto attiene alla continuità operativa, sia in ordine alle modalità di interazione con gli iscritti, in alcuni casi anche intensificata e agevolata dalla valorizzazione di modalità di interlocuzione online. In questo quadro, spiega la Covip, un ruolo importante hanno avuto anche i siti web, attraverso i quali sono state veicolate informazioni e indicazioni comportamentali da numerosi fondi pensione, specie quelli rivolti a platee più estese e diffuse sul territorio, quali primariamente i fondi di categoria

Corte dei conti: ‘ora più debito, poi serve continuo rientro. Scenario critico, gravi effetti economici e sociali’

L’aumento significativo del debito pubblico è necessario per affrontare la crisi del coronavirus, ma poi sarà indispensabile lanciare una fase di “lento ma continuo rientro”. E’ quanto ha detto il presidente di coordinamento delle sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei conti, Ermanno Granelli, intervenendo alla cerimonia di parificazione del rendiconto dello Stato.“La fase che stiamo attraversando è di una severità tale che l’espansione dei bilanci pubblici appare un’indiscutibile necessità. Per molti aspetti, la sostenibilità prospettica delle finanze pubbliche di molti paesi riposa oggi proprio sulla capacità di espandere, in modo appropriato, il debito”.“Ma la possibilità di accrescere il rapporto debito-Pilè oggi tanto maggiore quanto più credibile è la volontà di voler utilizzarlo per superare le fragilità in termini di servizi pubblici, formazione, infrastrutture e ricerca, dimostrando, soprattutto in questo modo, la determinazione di volerlo collocare, dopo la temporanea e inevitabile fase espansiva, su un sentiero di lento ma continuo rientro”.Ancora prima aveva preso la parola il presidente della Corte dei conti, Angelo Buscema, che ha aperto la cerimonia di parificazione del rendiconto dello Stato. E che ha avvertito che, a causa della crisi economica e sanitaria provocata dalla pandemia del coronavirus, per l’Italia si è creato uno “scenario piuttosto critico” , caratterizzato da “gravi effetti economici e sociali”.“Un quadro questo- ha sottolineato Buscema -di difficoltà strutturali e fragilità che va tenuto ben presente nell’impostazione di concreti percorsi per la ripresa economica e sociale del nostro paese”. Sono di conseguenza “urgenti” misure a sostegno dell’economia, puntando fin da subito su un “solido sviluppo” delle infrastrutture.“Si rendono necessari provvedimenti urgenti in grado di fornire un sostegno all’economia, contrastando il calo del Pil e accelerando l’uscita dalla crisi. Non possono essere trascurati, tuttavia, obiettivi essenziali quali il potenziamento del sistema delle garanzie per gli operatori economici pubblici e privati e il contestuale rafforzamento degli strumenti a tutela del lavoro e dei settori produttivi”, ha detto ancora il presidente della Corte.“All’impegno di restituire a un ambiente sconvolto nei comportamenti consolidati, condizioni più favorevoli alla crescita e alla tutela delle risorse naturali, si affianca quello non meno rilevante e, soprattutto, non più procrastinabile, per l’avvio di un solido sviluppo infrastrutturale del paese. A ciò andrebbe affiancata senza indugi una riorganizzazione più efficiente della macchina amministrativa e dei servizi fondamentali da garantire alla cittadinanza”.

Bankitalia, Visco: ‘Pil Italia -10% in 2020 ma dipende da pandemia’. Il governatore cita Keynes

Il prodotto interno lordo italiano soffrirà nel corso del 2020 “una caduta attorno al 10%”. E’ quanto ha detto il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, in occasione di una tavola rotonda organizzata dall’Accademia dei Lincei.La caduta del Pil – ha precisato il governatore – “può essere leggermente superiore o inferiore, dipende dall’evoluzione della pandemia (da coronavirus) nella seconda parte dell’anno”.“Lo stato d’incertezza nel quale ci troviamo non ci consente di fare previsioni non dico accurate ma ragionevoli, procediamo per scenari possibili”, ma questo “non vuol dire che non si debba fare niente”.Ignazio Visco ha poi citato Keynes, affermando che ci vuole “un piano ben costruito” per affrontare la crisi, senza limitarsi a pensare solo al breve termine.

Bankitalia, Visco su pandemia coronavirus: ‘esagerato parlare di guerra

“Io penso che non viviamo in una fase di guerra. E’ esagerato confrontare questa pandemia con la guerra. Non c’è un nemico definito, vi è un virus da sconfiggere, molte iniziative da prendere”. E’ quanto ha detto il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, in occasione di una tavola rotonda organizzata dall’Accademia dei Lincei, riferendosi a quelle dichiarazioni secondo cui la pandemia da coronavirus è stata ed è tuttora una vera e propria guerra.Il modo migliore “di affrontare il presente, il breve periodo, è quello di avere un piano ben costruito per il lungo periodo – ha insistito Ignazio Visco, citando l’economista Keynes sulla necessità di avere un piano ben costruito – Poi il piano si può rivedere, ma bisogna guardare al lungo periodo per affrontare il breve”.La burocrazia inoltre serve e non deve essere eliminata: “Ci vuole una burocrazia, ci vuole una buona burocrazia, non va bene l’assenza di burocrazia come molti chiedono”.

Bankitalia su ipotesi taglio Iva: ‘serve visione ampia, non imposta per imposta’

Sulla riforma del fisco “serve una visione ampia” e “non imposta per imposta”. E’ quanto ha detto il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, in occasione di una tavola rotonda organizzata dall’Accademia dei Lincei, commentando quanto detto ieri dal premier Giuseppe Conte, nel corso della conferenza stampa con cui ha chiuso gli Stati Generali di Villa Pamphili.A causa dell’evasione fiscale, dell’illegalità e della criminalità organizzata “il carico fiscale è molto pesante per coloro che le tasse le pagano. Si tratta di “una vecchia storia su cui però bisogna riflettere oggi”.Tornando all’ipotetico taglio dell’Iva, ieri il presidente del Consiglio ha ammesso che il governo sta valutando il taglio dell’Iva:“E’ una delle ipotesi che abbiamo discusso, ma non abbiamo deciso anche perché è una misura costosa”. Allo stesso tempo, “c’è preoccupazione sul fatto che non sia ripartito appieno quel clima di fiducia che fa innescare il circuito dei consumi. E’ una misura allo studio, questa settimana sarà già decisiva per una prospettiva del genere”.

Bankitalia su Recovery Fund: ‘non è vero che fondi europei non si pagano. Si paga tutto

“Sembra che ci siano fondi europei che si possono utilizzare senza pagarli”, ma non è così, perchè “si paga tutto”. E’ quanto ha detto il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, in occasione di una tavola rotonda organizzata dall’Accademia dei Lincei. Visco si è riferito alla proposta della Commissione europea sul Recovery Fund da 750 miliardi di euro, nota an che come Netx Generation EU che, se approvata, consentirebbe all’Italia di ottenere la fetta più grande e di finanziare il piano Recovery Italia, il Recovery Plan, che il premier Giuseppe Conte vuole presentare a settembre.“All’Italia – ha avvertito Visco -serve la capacità di spenderli bene, in infrastrutture e progetti utili”, senza “perderli in rivoli”, ha concluso.

Risparmiare per la pensione e cultura degli investimenti: tre suggerimenti per alzare il benessere finanziario a lungo termine

Il fattore demografico è uno dei problemi più seri soprattutto in Europa. Secondo l’Ageing Report 2018 della Commissione Europea, la popolazione totale rimarrà sostanzialmente stabile nei prossimi 50 anni (passando dai 511 milioni di abitanti del 2016 ai 520 milioni del 2070) con però un aumento molto più rapido e significativo del numero di persone di età superiore ai 69 anni, mentre parallelamente diminuisce la popolazione in età lavorativa. Diventano quindi sempre più cruciali tempistiche e modalità con cui i cittadini europei provvederanno alla propria vecchiaia al fine di mantenere un tenore di vita dignitoso durante il pensionamento.Sean Hagerty, Managing Director, Vanguard Europe, sottolinea come molti cittadini dell’Ue si trovano in una situazione finanziaria sempre più precaria e in molti casi non sanno come risparmiare per la vecchiaia. Il problema è dovuto a una lacuna nella conoscenza dei mercati e dei prodotti finanziari, a una mancanza di fiducia nei confronti del sistema o anche a barriere all’ingresso dovute a costi elevati. Ma non deve necessariamente essere così. Il calo del numero dei contribuenti rappresenta una sfida sostanziale, ma comunque superabile.

I tre suggerimenti di Vanguard

Nel Vanguard Manifesto vengono indicate tre azioni fondamentali che i policy maker possono attuare per il miglioramento del benessere a lungo termine dei cittadini europei e per garantire loro una pensione serena.

1. Incoraggiare le persone a fare uno sforzo maggiore di quanto fatto finora per risparmiare per la propria pensione è il primo passo.  Per promuovere la propensione al risparmio dei cittadini Vanguard raccomanda come prima cosa una piattaforma informativa dove gli individui possano trovare in un unico luogo la sintesi dei propri piani previdenziali, anche di diversa origine. Una maggiore visibilità della propria situazione dovrebbe incoraggiare un maggiore risparmio laddove si evidenzia un gap previdenziale.

 2. Il secondo  passo consiste nell’affrontare la necessità di semplificare e armonizzare le norme pensionistiche esistenti in tutta l’Unione. Una regolamentazione uniforme andrebbe a eliminare i potenziali conflitti di interesse derivanti da modelli distributivi basati sulle commissioni. Oltre a eliminare i conflitti di interesse tra intermediari e risparmiatori, ciò garantirebbe anche una maggiore trasparenza dei costi e incoraggerebbe una maggiore concorrenza. Allo stesso tempo, i materiali commerciali dovrebbero essere armonizzati in modo da permettere agli investitori di confrontare adeguatamente i prodotti a livello transfrontaliero.

3. In terzo luogo, è essenziale garantire che ogni cittadino dell’Unione abbia accesso a prodotti pensionistici corretti, orientati al mercato dei capitali ed efficienti in termini di costi. Sono necessari strumenti e servizi di consulenza adeguati ad aiutare i risparmiatori nelle loro decisioni di investimento e consentire loro di confrontare i diversi prodotti. In particolare, è importante informarli sui costi di ogni prodotto e servizio offerto, poiché i costi elevati rappresentano un onere considerevole per i rendimenti a lungo termine. Sarebbe quindi auspicabile l’indicazione su tutti i documenti di investimento di un’informativa obbligatoria sui costi che mostri chiaramente ai risparmiatori l’impatto delle commissioni sui ritorni.

I cittadini, inoltre, dovrebbero avere accesso a una serie di servizi di consulenza e di assistenza in materia previdenziale adeguati alle esigenze specifiche. I risparmiatori hanno spesso bisogno di sostegno, soprattutto nelle fasi di mercato più complesse, per non perdere di vista i propri obiettivi di investimento a lungo termine.

“Crediamo che l’impegno dei policy maker nella ridurre le barriere agli investimenti, garantire un accesso equo e semplificare le regole in tutta l’Unione, porterà a un cambiamento positivo nella cultura degli investimenti, migliorando il benessere finanziario a lungo termine degli investitori europeo. Perseguendo questo obiettivo, noi continueremo a far sentire la nostra voce a favore degli investitori così che possano raggiungere i propri obiettivi finanziari a lungo termine attraverso l’accesso a prodotti e servizi d’investimento a basso costo e di alta qualità”

Istat: ad aprile netta contrazione sia per l’import che per l’export. Saldo commerciale in calo

Nel mese di aprile, l’Istat stima una netta contrazione congiunturale per entrambi i flussi commerciali con l’estero, molto più intensa per le esportazioni (-34,9%) che per le importazioni (-18,5%). La marcata flessione su base mensile dell’export, si legge nella nota, è dovuta al forte calo delle vendite sia verso i mercati extra Ue (-37,3%) sia, in misura relativamente meno accentuata, verso l’area Ue (-32,7%).
Ad aprile 2020 la flessione su base annua dell’export è pari a -41,6% e coinvolge sia l’area extra Ue (-44,0%), in misura più ampia, sia l’area Ue (-39,4%). La flessione dell’import (-33,7%) è marcata per entrambi i mercati: gli acquisti dall’area Ue diminuiscono del -34,6% e quelli dai paesi extra Ue del -32,5%. Nei primi quattro mesi del 2020 la flessione tendenziale dell’export (-11,8%) è dovuta in particolare al calo delle vendite di macchinari e apparecchi n.c.a. (-20,2%), autoveicoli (-31,0%), metalli di base e prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti (-12,2%).Ad aprile 2020, l’Istituto nazionale di statistica stima che il saldo commerciale diminuisca di 4.008 milioni di euro (da +2.851 milioni ad aprile 2019 a -1.157 milioni ad aprile 2020). Al netto dei prodotti energetici il saldo è pari a +105 milioni di euro (era +6.420 milioni ad aprile 2019).

Bce: con crisi COVID deficit-Pil di tutti paesi euro oltre 3%. Disavanzi più alti in Italia, Belgio, Spagna, Francia

“La profondità dello shock generato dal COVID-19 e l’entità della risposta di bilancio hanno portato a un netto deterioramento e a una marcata eterogeneità nelle posizioni di bilancio. E’ quanto emerge dal bollettino economico della Bce.Nel testo si legge che, “secondo le previsioni economiche della primavera 2020 elaborate dalla Commissione europea il disavanzo di bilancio dell’area dell’euro dovrebbe salire all’8,5 per cento del PIL nel 2020, dallo 0,6 per cento del PIL dell’anno scorso. Se nel 2019 undici paesi avevano registrato avanzi di bilancio, nel 2020 tutti i paesi dell’area dell’euro dovrebbero evidenziare disavanzi superiori al valore di riferimento del 3 per cento del PIL. I disavanzi più consistenti sono previsti per Belgio, Spagna, Francia e Italia, che erano nel novero dei paesi che all’insorgere della crisi presentavano un elevato rapporto debito pubblico/PIL”.“Il rapporto fra debito pubblico e PIL per il complesso dell’area dell’euro dovrebbe aumentare marcatamente, di 16,7 punti percentuali – afferma ancora la Bce – raggiungendo il 102,7 per cento del PIL nel 2020, con grande eterogeneità fra i vari paesi. I paesi che al momento dell’insorgere della crisi avevano un rapporto debito/PIL pari a circa il 100 per cento faranno registrare gli aumenti di indebitamento più consistenti. Nel 2020 solo sei paesi dell’area dell’euro (Estonia, Lussemburgo, Lettonia, Lituania, Malta e Slovacchia) dovrebbero mantenere un rapporto debito pubblico/PIL inferiore al valore di riferimento del 60 per cento del PIL. Nel 2021, a fronte di politiche invariate, il disavanzo pubblico e il rapporto debito/PIL dovrebbero diminuire, pur restando nettamente al di sopra dei livelli antecedenti la crisi”.

Bce: tassi BTP e spread su nonostante PEPP, hanno inciso Karlsruhe e downgrade Fitch su Italia

“Nonostante l’ulteriore accomodamento della politica monetaria per effetto del PEPP e delle altre misure adottate, i rendimenti sui titoli di Stato a lungo termine nell’area dell’euro sono aumentati nel corso del periodo in esame .Il rendimento ponderato per il PIL dei titoli di Stato decennali dell’area dell’euro è cresciuto di 36 punti base, collocandosi allo 0,24 per cento”. E’ quanto emerge dal bollettino economico della Bce.“I rendimenti dei titoli sovrani sono stati influenzati dall’aumento generale dei tassi privi di rischio nel periodo considerato. Inoltre, nel periodo in rassegna anche l’aumento dei differenziali di rendimento dei titoli sovrani sui tassi privi di rischio ha spinto verso l’alto il rendimento ponderato per il PIL dei titoli di Stato decennali.“Contrariamente a quanto osservato nell’area dell’euro – fa notare ancora la banca centrale europea -negli Stati Uniti i rendimenti dei titoli di Stato a dieci anni sono scesi allo 0,75 percento (di 13 punti base) e nel Regno Unito sono rimasti stabili allo 0,28percento (con un aumento di 1 punto base”.Dal bollettino economico della Bce emergono due fattori, in particolare, che hanno contribuito a spingere verso l’alto i rendimenti dei bond sovrani dell’area euro, facendo anche altre osservazioni:“I differenziali fra i rendimenti dei titoli di Stato dell’area dell’euro e il tasso OIS (overnight index swap) si sono ridotti a seguito dell’annuncio del PEPP, rimanendo tuttavia al di sopra dei valori osservati al momento della riunione del Consiglio direttivo del 12 marzo. I differenziali sui titoli di Stato a dieci anni tedeschi, francesi, italiani, spagnoli e portoghesi sono aumentati rispettivamente di 20, 16, 14, 18 e 5 punti base, raggiungendo -0,12, 0,24, 1,78, 0,85 e 0,82 punti percentuali, rispettivamente. Di conseguenza, il differenziale sul rendimento ponderato per il PIL dei titoli di Stato decennali dell’area dell’euro è aumentato di 16 punti base a 0,47 punti percentuali. Tale aumento complessivo è accompagnato da una certa volatilità. Le variazioni dei rating relativi agli emittenti sovrani, come il declassamento dell’Italia da BBB a BBB-da parte di Fitch il 28 aprile, la sentenza della Corte costituzionale tedesca (Karlsruhe) in merito al programma di acquisto di attività del settore pubblico (da parte della Bce, il Quantitative easing) e i timidi progressi in merito al finanziamento di una risposta fiscale comune al coronavirus hanno contribuito ad ampliare la maggior parte dei differenziali”.“Più di recente, a fronte della proposta franco-tedesca di un fondo per la ripresa e della proposta della Commissione europea per lo strumento denominato “Next Generation EU”, (il Recovery Fund), sono diminuiti i differenziali sui titoli di Stato francesi, italiani, spagnoli e portoghesi”.

Stati Generali, Conte su Recovery Fund: ‘non ritardare risposte o salterà tutto’. Bonomi: ‘Stato paghi debiti a imprese’

“Se ritarderemo le risposte potremo certificare il fallimento del mercato Unico, dei pilastri dell’Ue. Salterà tutto, il mercato Unico, il trattato di Schengen, salterà la protezione del benessere dei cittadini europei, delle imprese, delle famiglie”. Nell’aprire ieri la nuova giornata dei lavori degli Stati Generali dell’economia, il premier Giuseppe Conte ha lanciato un appello affinché Bruxelles si muova con risposte concrete, facendo seguire i fatti alle parole e alle belle proposte sul Recovery Fund.
Nel giorno chiave dell’incontro con gli industriali capitanati da Carlo Bonomi, il presidente del Consiglio ha ribadito l’auspicio di un intervento europeo celere, visto che “è evidente che, se non si interviene, uno shock sinergico coinvolgerà tutti. Ma chiaramente all’esito di queste macerie avremo dei paesi che avranno dimostrato una maggiore resilienza, sono forti dello spazio fiscale che non tutti hanno e a quel punto la frammentazione del mercato unico sarà così evidente che l’idea di Europa non la recupereremo più”.D’altronde, nel caso specifico dell’Italia, se non arriveranno i soldi Ue, non sarà possibile neanche lanciare quel Recovery Plan che Conte ha intenzione di varare per il mese di settembre, attirandosi le critiche roventi dei più, visto che settembre non è certo alle porte. E visto che ci sono ancora imprese e cittadini che aspettano da mesi gli aiuti promessi dal governo, che siano sotto forma di bonus per gli autonomi o di cassa integrazione per i dipendenti.Di questo piano per la ripresa il presidente del Consiglio è tornato a parlare. Il Recovery Plan italiano “su cui chiederemo i finanziamenti all’Europa e che presenteremo a settembre” deve “valutare bene la nostra capacità di spesa” e “va articolato per bene sia sul piano cronologico che sul piano dell’impatto finanziario”.Insomma: “Non possiamo presentare un documento buttato lì solo per avere dei fondi molto prospicui: occorre presentare un progetto concreto per il nostro Paese. Con il quale noi stessi dovremo misurarci con dignità ed orgoglio”.Riguardo al Recovery Fund europeo – condizione sine qua non per la ripartenza dell’Europa intera – “la partita decisiva sarà a luglio” anche se venerdì 19 giugno (domani per chi legge) “ci sarà un passaggio molto importante con il Consiglio europeo, anche se non determinante”.
“Siamo stati – ha continuato il premier – sulla linea del fronte, quella più avanzata, per rivendicare una risposta europea robusta, coordinata e vigorosa. Ci siamo battuti all’inizio quando i miei omologhi, la maggior parte dei Capi di stato e di governo riteneva che servisse attendere per elaborare delle risposte, quando invece noi abbiamo subito manifestato chiarezza sulla portata di questa recessione e abbiamo invitato tutti a considerare che non potevamo ritardare oltre. Perché è chiaro che se tu ritardi la risposta, le cifre che si stanno programmando non saranno sufficienti. Ma io ho detto molto di più: saranno del tutto inutili”.
Il quadro disegnato dalla crisi coronavirus-COVID-19 è drammatico, e su questo Conte non ha fatto tanti giri di parole. Quella attuale “è la crisi più profonda degli ultimi 70 anni, la più profonda della storia della Repubblica, in uno scenario recessivo che investe tutta l’economia mondiale e che difficilmente risparmierà dei settori”. Una ulteriore prova arriva dai dati dell’Istat sul fatturato dell’industria,  diramati ieri, che “fotografano una congiuntura drammaticamente difficile”.
“Il quadro macro-economico che abbiamo di fronte si presenta molto complesso, da subito siamo stati consapevoli che questa emergenza avrebbe portato con sé alti costi, oltre che umani, economici e sociali”.

ITALIA: la PATRIMONIALE nascosta

L’Italia è un paese che si trova in una situazione finanziaria complessa e di difficile gestione. Possiamo definirla molto grave? In chiave prospettica si. Il 160% di rapporto Debito PIL non sarà facile da gestire e da far digerire ai partners dell’Eurozona soprattutto quando l’emergenza Covid-19 sarà venuta meno.
Quando ha illustrato il buon Savona nella sua relazione annuale mette ancora una volta al centro quello che deve diventare (secondo il suo punto di vista) una chiave per la ripartenza a livello strategico. Il Risparmio privato, che è pari a circa 4.500 miliardi di euro, più del doppio del PIL e quasi il doppio del debito pubblico.

(…) Se la pandemia è come una guerra, allora per preservare l’economia occorrono strumenti di guerra. «È auspicabile pertanto che si agisca in due direzioni», suggerisce Paolo Savona, presidente della Consob, l’autorità che vigila sulle società e la Borsa. La prima è quella di «emettere obbligazioni pubbliche irredimibili», ossia senza scadenza, perpetue, «strumento tipico delle fasi belliche, alle quali la vicenda sanitaria è stata sovente paragonata». L’altra strada riguarda il sostegno alle imprese, in cui occorrerebbe sostituire i prestiti a garanzia pubblica con capitale allo stesso modo garantito dallo Stato. (…)

Economia di guerra, perché lo sappiamo, questa è una guerra anche per gli effetti economici che ne stiamo subendo. La sua proposta è chiara. Da una parte si propone l’emissione di nuove obbligazioni irredimibili per finanziare fabbisogni di tipo strutturale e con impatti di lungo termine (ve la ricordate la Rendita Italiana?), dall’altro, fare il possibile per portare risorse direttamente all’economia delle imprese, usando anche forme di azionariato popolare.Attenzione però, andare a garantire ulteriori prestiti alla PMI è complicato, i margini di manovra sono ristretti. La possibilità di azione sull’azionariato popolare è possibile ma per nulla agevole. Una soluzione sarebbero i PIR, una possibilità che fino ad oggi è stata gestita secondo il sottoscritto molto male e fondamentalmente in modo molto commerciale dal settore bancario e ben poco produttivo.E allora cosa si potrebbe ancora fare? Utilizzare in modo ancora più strategico il risparmio degli italiani, “blindando” il problema numero uno, il debito pubblico magari cogliendo due piccioni con una fava. Siamo in guerra e allora occorrono sacrifici.
Una patrimoniale?
In realtà Savona non ha mai parlato di patrimoniale, anche perché per mettere veramente a posto le cose ci vorrebbe un qualcosa di MOLTO invasivo. La soluzione sarebbe una sorta di patrimoniale “indiretta”.Si ragiona di BTP futura, di prestiti irredemibili, insomma di nuovo debito pubblico. La “mission” potrebbe essere quella di “imporre” la sottoscrizione degli stessi al risparmiatore italiano, in modo diretto (sottoscrizione) o indiretto (risparmio gestito) ma con vincoli che le limitino la circolazione e la possibilità di cessione (anche con iniziative commerciali tipo premi vari alla scadenza, che incentivino la tenuta del bond fino a scadenza).In questo modo cercheremo di seguire il modello giapponese, accollandoci tutto il rischio Italia nei nostri portafogli. Ma è questa la soluzione giusta per la ripartenza? Forse sarebbe ben meglio stimolare in qualche modo gli investimenti nel sistema produttivo anziché imporre quella che alla fine sarebbe un prelievo forzoso in cambio di un qualcosa che poi non ha scadenza (prestito irredimibile) che andrebbe a sistemare la contabilità finanziaria ma senza impatti sulla crescita del paese. In barba, tra l’altro, ad uno dei basilari principi del risparmio. La DIVERSIFICAZIONE.

Conte risponde a Bonomi: per noi imprese pilastro società

Sulle critiche di un atteggiamento incentrato sull’assistenzialismo, arrivate soprattutto dal numero uno di Confindustria Carlo Bonomi, Conte ha risposto a tono:
“Qualcuno crede che questo governo abbia un pregiudizio nei confronti della libera iniziativa economica. Voglio precisarlo molto chiaramente: le misure che abbiamo elaborato e inserito nei nostri provvedimenti sono dedicate al sostegno delle imprese. Da parte di questo governo c’è una costante attenzione per il sostegno alle imprese. Per noi l’impresa è un pilastro della nostra società”.
Insomma: “nessun pregiudizio da parte del governo, possiamo avere diversità di opinioni e valutazioni, ci sta, ma qui non c’è nessun pregiudizio ideologico“.
Vale la pena di ricordare che, in un’intervista a Les Echos, Bonomi aveva detto chiaramente che “l”Italia sta scegliendo di favorire l’assistenza anziché liberare l’energia del settore privato”. E invece no, ha risposto il presidente del Consiglio. Anche perchè “preservare l’impresa e metterla in condizione di poter affrontare vigorosamente e in modo resiliente uno shock come questo è una priorità del nostro Paese, altrimenti non andiamo da nessuna parte”.
Proprio per questo, “finito questo ciclo di incontri, inizieremo subito a lavorare con celerità: già dalla prossima settimana inizieremo a ricavare la versione finale” del piano di rilancio. Ecco perché – ha detto rivolgendosi agli industriali – vi chiedo di farci arrivare subito le vostre osservazioni. Una volta ricavata la versione finale e messo a punto il rilancio dell’azione del Governo, noi andremo a declinare delle priorità, a dare una prospettiva diacronica a quei progetti: dopodiché ricaveremo quello che sarà il più circoscritto Recovery Plan italiano”.
Riguardo al faccia a faccia tra il premier Conte e Carlo Bonomi, largamente atteso soprattutto dopo le picconate di Bonomi, che non ha esitato nella prefazione del volume “Italia 2030. Proposte per lo sviluppo” a manifestare tutta la sua delusione per le decisioni prese fin qui dal governo,  Conte non ha mancato di rispondere per le rime alle critiche del capo di Confindustria, non senza ironia:
“In questo progetto che avete davanti voi troverete anche una misura che il dottor Bonomi ci voleva ‘rubare’: qui c’è il piano di transizione 4.0 ma c’è anche il nuovo piano di transizione impresa 4.0 plus, dedicato a chi vorrà volgere le sue attenzioni e innovare in modo ancora più spiccato, abbracciando le nuove tecnologie digitali ancor più sofisticate, l’intelligenza artificiale, il blockchain, una transizione green ancora più spinta”.

Bonomi: pagare debiti PA a imprese. Non crediamo in Stato cattivo

Intervistato dal TG5, Bonomi ha poi detto la sua sui rapporti con il governo, smorzando le tensioni dei giorni scorsi e dichiarando che “i rapporti sono stati e sono buoni”. “C’è stima reciproca, ma Confindustria ha la possibilità e il dovere di fare critiche e proposte, cosa che abbiamo sempre fatto”. Noi “abbiamo spinto il governo ad anticipare le proposte, volevamo capirle. Abbiamo proposto tre temi: produttività, qualità ed efficienza della spesa pubblica, la riduzione graduale del debito pubblico”.
Bonomi ha confermato l’urgenza di “pagare i debiti dello Stato verso le imprese: abbiamo 50 miliardi bloccati e abbiamo la necessità di onorare i contratti. Le accise sull’energia poi vanno restituite, mentre per i rimborsi Iva non è pensabile che aspettiamo 60 mesi in media”.
Ancora: “Abbiamo un’occasione storica -con tutti gli interventi messi a disposizione dall’Ue: parliamo di 450 miliardi, il 25% del Pil italiano, possiamo veramente rilanciare il paese e riformarlo. Dobbiamo però cambiare le infrastrutture dello Stato, altrimenti non avremo la possibilità di andare da nessuna parte”.
Dal suo profilo Twitter Bonomi lo ha precisato: @Confindustria non crede in uno Stato cattivo contrapposto al privato buono. Ciò che chiediamo è una democrazia moderna con istituzioni efficienti e funzionanti, cioè con una #PA “buona”, come già indicato e chiesto da Governatore (di Bankitalia)
Ancora prima, Carlo Bonomi aveva invitato però tutti al mea culpa: “l’impegno contro una nuova dolorosa recessione può avere successo solo se non nascondiamo colpe ed errori commessi da tutti negli ultimi 25 anni. Ora si onorino i contratti / debiti verso le #imprese”.
Insomma, Bonomi ha smorzato i toni, ma il messaggio al governo di Conte rimane chiaro e duro. Anche perchè, come ha fatto notare, La “#CassaIntegrazione è stata anticipata in vasta misura dalle imprese, e ci sono stati “gravi ritardi nche per le procedure annunciate a sostegno liquidità”, tanto che “le misure economiche dell’Italia si sono rivelate più problematiche di quelle dell’Unione Europea”. Per non parlare dei debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese, e anche della necessità di adeguarsi a quanto stabilito addirittura dalla Cassazione: venga rispettata subito, ha detto Bonomi, la sentenza che impone allo Stato di restituire alle imprese 3,4 miliardi di accise sull’ energia.
Dal canto suo Conte non si è unito al mea culpa collettivo proposto da Bonomi:
“Facciamo ammenda per eventuali carenze, abbiamo l’umiltà di ammettere ritardi ed errori, ma dobbiamo avere la consapevolezza che non possiamo essere chiamati a rispondere di carenze strutturali che il sistema Italia si porta dietro da circa 20 anni”.
Il presidente del Consiglio ha difeso a spada tratta, inoltre, gli interventi lanciati dall’esecutivo facendo notare che, di fronte alla “sfida più importante, abbiamo reagito da subito e messo in campo importanti misure, abbiamo messo sul campo una risposta vigorosa con lo scostamento da 80 miliardi”. In ogni caso, “era impensabile e velletario pensare che tutte queste misure da adottare nel giro di qualche settimana potessero dispiegarsi di punto in bianco. Delle criticità si sono rivelate, è chiaro, e anche per la liquidità non è sufficiente disegnare un modello normativo e pensare che tutto un sistema articolato possa conformarsi all’unisono”. Però il punto è che in Italia esistono “problemi strutturali che si trascinano e non siamo ancora riusciti a risolvere”

Mef: entrate tributarie e contributive calano nei primi 4 mesi del 2020

Le entrate tributarie e contributive nei primi quattro mesi del 2020 hanno mostrato una diminuzione del 2,6% (-5.496 milioni di euro) rispetto all’analogo periodo dell’anno 2019. Lo rende noto il ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) sottolineando che “il dato tiene conto della variazione negativa del 3,1% (-4.133 milioni di euro) delle entrate tributarie e della diminuzione delle entrate contributive dell’1,8% (-1.363 milioni di euro). L’andamento di questo ultimo componente risulta influenzato dal fatto che nel 2019, nell’ambito della procedura di revisione del sistema tariffario dell’Inail, è stato disposto lo slittamento al mese di maggio della rata dei premi assicurativi ordinariamente versata nel mese di febbraio”.Il Mef precisa inoltre che la diversa tempistica dei versamenti rende ancora non omogeneo il confronto degli incassi relativi al primo quattro mesi del 2020 con quelli dell’analogo periodo dell’anno precedente; eliminando tale disallineamento le entrate contributive nel mese di aprile registrano una diminuzione del 5,6%.

Gualtieri gela Conte? ‘Non possiamo prorogare blocco licenziamenti e prolungare cig per sempre

Il blocco dei licenziamenti e la proroga della cassa di integrazione sono interventi che non possono andare avanti all’infinito. Lo ha detto il ministro dell’economia Roberto Gualtieri, parlando dal Festival dell’Economia di Trento: “Non possiamo prorogare il blocco dei licenziamenti per tutti senza un punto di arrivo e prolungare la cig. Non si possono congelare problemi perchè poi scoppiano tutti insieme”. Certo “continueremo a prolungare gli ammortizzatori sociali” e “utilizzare il blocco dei licenziamenti è stato giusto e importante”. Ma le misure non possono proseguire per sempre.In occasione degli Stati Generali in corso a Villa Pamphili a Roma, l’ex premier aveva annunciato due giorni fa di aver deciso di prorogare la cig “di altre 4 settimane”. Promettendo: “Non abbandoniamo per strada i lavoratori, non consentiremo licenziamenti”.

BTP Futura, l’azzardo estivo del Tesoro non è immune da controindicazioni. Intanto la Grecia diventa ‘più sicura’ dell’Italia

L’Italia ha fatto il pieno di emissioni negli ultimi mesi, con l’apice a inizio giugno con l’emissione storica del nuovo Btp a 10 anni che ha visto la domanda sfondare il muro dei 100 miliardi. La crisi Covid-19 ha reso impellenti le necessità dell’Italia, già alle prese con un debito pubblico monstre, di attingere a nuove fonti di finanziamento. I tempi lunghi del Recovery Fund e i dubbi circa la richiesta o meno da parte di Roma dell’attivazione del MES Light (36 mld di euro), hanno spinto il Tesoro a rivolgersi mai come prima al mercato con un ritmo di emissioni alquanto frenetico.
L’allettante rendimento dei titoli di Stato italiani, quelli con tassi più generosi in Europa insieme a quelli greci, ha certamente favorito l’interesse degli investitori istituzionali con strategie di lungo periodo. Ma il successo del BTP Italia lo scorso mese, favorito anche dalla cedola generosa e da un premio fedeltà raddoppiato rispetto al passato, ha convinto il Tesoro che anche i piccoli risparmiatori italiani hanno sede di rendimenti.La prova del nove sarà il nuovo BTP Futura, la cui emissione si terrà dal 6 al 10 luglio e che sarà la prima in assoluto interamente dedicata alle famiglie. Già si sano alcuni dettagli come il meccanismo delle cedole crescenti e il premio fedeltà legato all’andamento del PIL e che potrà balzare fino al 3%; ulteriori dettagli arriveranno il 19 giugno con la decisione sulla durata (8 o 10 anni), mentre il 3 luglio si saprà la serie dei tassi minimi garantiti di questa emissione di BTP Futura.Sempre venerdì 19 giugno il Direttore Generale del Tesoro, Alessandro Rivera e il responsabile del Debito Pubblico, Davide Iacovoni, presenteranno la scheda informativa del BTP Futura.

L’obiettivo di aumentare la quota in mano ai retail

Il BTP Futura, contrariamente al BTP Italia, non prevede alcun limite all’importo investito. Quindi un suo successo potrebbe risolvere non pochi problemi al Tesoro. “Le condizioni allettanti mirano a rafforzare l’importanza di investitori domestici meno sensibili al rischio – rimarca Florian Späte, Senior Bond Strategist di Generali Investments – . Si potrebbe pertanto ottenere una base di investitori più stabile e un rischio inferiore di deflussi di capitale in periodi di crisi. Diversamente, se le famiglie italiane fornissero una timida risposta e fossero meno disponibili a utilizzare i risparmi domestici per acquistare titoli di stato, l’iniziativa potrebbe rivelarsi controproducente”. Parole che fanno intendere come una fredda accoglienza si potrebbe tradurre in un calo di fiducia sull’Italia e quindi un allargamento dello spread Btp-Bund, senza dimenticare che – nonostante il rafforzamento del bazooka Bce con forti acquisti sui titoli di Stato italiani- i tassi dei Btp sono tornati ad essere i più alti d’Europa ‘sorpassando’ la Grecia, ossia gli investitori reputano i titoli di Stato greci meno rischiosi di quelli italiani.

Dal punto di vista dei risparmiatori, come rimarcato dal Corriere della Sera nel suo inserto L’Economia, alle condizioni allettanti in termini di rendimenti e tassazione agevolata, si contrappone anche l’elemento di rischio rappresentato dal rating non elevato dei titoli di Stato Italia e la prospettiva di conti pubblici sotto pressione nel prossimo futuro a causa delle crisi Covid.
La quota del debito pubblico detenuta direttamente dal retail è piuttosto bassa, inferiore al 4%, e si confronta con cifre ben più alte del passato: dall’inizio dell’euro fino alla crisi finanziaria del 2008-09 la quota di debito posseduta direttamente dai risparmiatori oscillava fra il 15 e il 20%, e fino al 2012 era ancora oltre il 10%.
Davide Iacovoni, il direttore del Debito presso il Tesoro, ha spiegato a margine della presentazione del BTP Futura che nessuno dice cose tipo ‘riportiamo il debito in Italia’. L’obiettivo è tornare ad avere un buon ancoraggio sui risparmiatori in un’ottica strutturale di lungo periodo considerando anche che il risparmio privato degli italiani è di dimensioni considerevoli.

Le caratteristiche del BTP Futura 

BTP Futura, così come l’ultimo BTP Italia, sarà interamente dedicato a finanziare le spese previste dagli ultimi provvedimenti varati dal Governo per affrontare l’emergenza da Covid-19 e sostenere la ripresa del Paese. BTP Futura avrà una struttura cedolare pensata per premiare i risparmiatori che lo deterranno fino alla scadenza. Le cedole saranno infatti calcolate in base a dei tassi prefissati e crescenti nel tempo (con il meccanismo cosiddetto “step-up”). La serie dei tassi minimi garantiti di questa emissione di BTP Futura sarà comunicata venerdì 3 luglio, a ridosso dell’emissione. Non sono previsti tetti o riparti: la domanda, a partire da un lotto minimo di 1.000 euro, sarà infatti completamente soddisfatta, salvo facoltà da parte del Ministero di chiudere anticipatamente l’emissione.
Coerente con l’obiettivo di supporto all’economia nazionale, anche il premio fedeltà rifletterà la crescita economica nazionale. Il premio – corrisposto soltanto a chi acquisterà il titolo nei giorni di emissione e lo deterrà fino a scadenza – avrà infatti un valore minimo garantito pari all’1% del capitale investito, ma potrà aumentare fino ad un massimo del 3% dell’ammontare sottoscritto, sulla base della media del tasso di crescita annuo del PIL nominale dell’Italia registrato dall’ISTAT nel periodo di vita del titolo.

Italia: nuovo crollo di ordinativi e fatturato industria ad aprile

Le misure di chiusura imposte a numerose attività industriali per il contenimento dell’epidemia di Covid-19 e la forte flessione della domanda rivolta alle imprese industriali hanno determinato un calo senza precedenti di fatturato e ordinativi per l’industria in Italia. Secondo i dati diffusi oggi dall’Istat, il fatturato è sceso ad aprile del 29,4% rispetto al mese precedente, segnando un nuovo crollo dopo il -25,8% di marzo. Ancora più ampio il calo degli ordinativi che hanno registrato una flessione del 32,2% su base mensile, dopo il -26,4% di marzo.Il calo congiunturale del fatturato, spiega l’Istat, è esteso sia al mercato interno, che cede il 27,9%, sia a quello estero, che segna una caduta del 32,0%. Per gli ordinativi, sono le commesse provenienti dal mercato interno a registrare il peggiore risultato (-33,9%) rispetto a quelle provenienti dal mercato estero (-30,0%). La flessione è generalizzata a tutti i raggruppamenti principali di industrie.Corretto per gli effetti di calendario (i giorni lavorativi sono stati 21 contro i 20 di aprile 2019), il fatturato è sceso del 46,9% rispetto all’aprile dello scorso anno, con cali del 48,1% sul mercato interno e del 44,6% su quello estero. Su base annua, l’indice degli ordinativi ha segnato una caduta del 49%, con cali su entrambi i mercati (-53,0% quello interno e -43,6% quello estero). L’unica variazione positiva si è evidenziata per l’industria farmaceutica (+1,5%), mentre quella negativa più ampia si è rilevata per il settore dei mezzi di trasporto (-71,2%).

Stati Generali, Bonomi (Confindustria): ‘impegno contro dolorosa recessione ha successo se non nascondiamo colpe ultimi 25 anni’

“L’impegno contro una nuova dolorosa recessione può avere successo solo se non nascondiamo colpe ed errori commessi da tutti negli ultimi 25 anni. Ora si onorino i contratti- debiti verso le #imprese #ServireItalia #StatiGenerali”. Così Carlo Bonomi, numero uno di Confindustria, dal suo profilo Twitter. Oggi è il giorno in cui Bonomi presenterà al premier Giuseppe Conte il volume “Italia 2030. Proposte per lo sviluppo”, in occasione della quarta giornata degli Stati Generali in corso a Villa Pamphili a Roma.

Stati Generali, Bonomi (Confindustria): ‘rispettare subito sentenza che impone a Stato restituzione 3,4 MLD accise energia’

“Chiedo immediato rispetto per sentenza magistratura che impone restituzione di 3,4mld€ di accise energia, impropriamente pagate da #imprese e trattenute dallo Stato nonostante la sentenza della Corte di Cassazione che ne impone la restituzione. #ServireItalia #StatiGenerali”. Così Carlo Bonomi, numero uno di Confindustria, dal suo profilo Twitter. Oggi è il giorno in cui Bonomi presenterà al premier Giuseppe Conte il volume “Italia 2030. Proposte per lo sviluppo”, in occasione della quarta giornata degli Stati Generali in corso a Villa Pamphili a Roma.

Stati Generali, Bonomi (Confindustria): ‘cig anticipata in vasta misura da imprese’

La “#CassaIntegrazione è stata anticipata in vasta misura da #imprese e così sarà per ulteriori 4 settimane. Gravi ritardi anche per le procedure annunciate a sostegno liquidità. Le misure economiche dell’Italia si sono rivelate più problematiche di quelle dell’Unione Europea”.
#ServireItalia #StatiGenerali” Così Carlo Bonomi, numero uno di Confindustria, dal suo profilo Twitter. Oggi è il giorno in cui Bonomi presenterà al premier Giuseppe Conte il volume “Italia 2030. Proposte per lo sviluppo”, in occasione della quarta giornata degli Stati Generali in corso a Villa Pamphili a Roma.

Consob, Savona bacchetta Ue: ‘decisioni come bail-in hanno penalizzato il risparmio’

“Nell’Unione Europea è stato dedicato più impegno alle istituzioni monetarie e meno a quelle finanziarie, con decisioni ed effetti pratici che hanno penalizzato il risparmio”. Così Paolo Savona, presidente della Consob, nel suo discorso in occasione dell’incontro annuale della Consob con il mercato finanziario. “L’incompletezza dei compiti attribuiti all’ESMA rispetto a quelli assegnati alle organizzazioni sovranazionali monetarie e bancarie, ne è chiara testimonianza. Sono espressioni concrete di questa differente attenzione gli effetti asimmetrici sui portafogli delle famiglie conseguenti alla garanzia concessa ai depositi bancari fino a 100 mila euro, negata a quelli di dimensione più elevata e al risparmio investito in azioni e obbligazioni delle banche introducendo il bail in, ossia il loro mancato rimborso in caso di fallimento; invece di creare forme valide di responsabilizzazione degli investitori di fronte alla differente rischiosità dei titoli, il risultato pratico è, non di rado, di decidere interventi affrettati e confusi il cui costo va a carico dei bilanci pubblici nazionali per evitare le conseguenze sociali e legali di possibili fallimenti dei controlli”.Paolo Savona ha continuato, affermando che “la situazione è tale da richiedere di definire in tempi stretti una nuova architettura istituzionale per il buon funzionamento dei mercati monetari e finanziari e l’esercizio dei controlli pubblici indispensabili nel nuovo contesto operativo globale. Nell’occasione, come proporremo più oltre, l’accesso del risparmio popolare andrebbe allargato al “grande complesso produttivo” rappresentato dalle PMI. Questa iniziativa è sollecitata anche dall’abnorme espansione della piramide finanziaria, destinata ad ampliarsi e a divenire ancora più complessa da gestire, per il diffondersi incalzante delle innovazioni tecnologiche a livello globale”.

Istat: sono quasi 1,7 mln le famiglie in condizione di povertà assoluta nel 2019

Sono quasi 1,7 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta con una incidenza pari al 6,4% (7% nel 2018) nel 2019 per un numero complessivo di quasi 4,6 milioni di individui (7,7% del totale, 8,4% nel 2018). Lo rende noto l’Istat sottolineando che dopo quattro anni di aumento, si riducono per la prima volta il numero e la quota di famiglie in povertà assoluta pur rimanendo su livelli molto superiori a quelli precedenti la crisi del 2008-2009. In particolare, nel Mezzogiorno la povertà familiare scende dal 10,0% all’8,6% e quella individuale dall’11,4% al 10,1%. Anche nel Centro la povertà degli individui residenti registra una riduzione significativa, dal 6,6% del 2018 al 5,6%.Risulta, invece, stabile il numero di famiglie in condizioni di povertà relativa: nel 2019 sono poco meno di 3 milioni (11,4%) cui corrispondono 8,8 milioni di persone (14,7% del totale).

Mattarella: autorità monetarie determinanti per contrastare tensioni sui mercati

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell’incontro annuale della Consob con il mercato finanziario, ha inviato al Presidente della Consob, Paolo Savona, un messaggio in cui sottolinea come “il ruolo del mercato è centrale nel processo di ripresa del Paese che ha subito una crisi sanitaria senza precedenti, con gravi effetti economici e sociali, e conseguenze ancora difficili da valutare nella loro complessità. La propagazione del virus ha avuto forti ripercussioni finanziarie, con un sensibile aumento della volatilità”. Poi un accenno alle misure di risposta alla crisi. “Le misure adottate dalle autorità, a partire da quelle monetarie, sono state determinanti per contrastare le tensioni sui mercati”, dice Mattarella.

Consob, Savona: ‘A fine 2019 ricchezza famiglie italiane pari a 8,1 volte reddito disponibile’

“A fine 2019 le Famiglie italiane disponevano di una ricchezza immobiliare, monetaria e finanziaria, al netto dell’indebitamento, pari a 8,1 volte il loro reddito disponibile, di cui 3,7 volte in forma di attività finanziarie, per un ammontare di 4.445 miliardi di euro”. Così Paolo Savona, presidente della Consob, nel suo discorso in occasione dell’incontro annuale della Consob con il mercato finanziario.

Consob, Savona: ‘italiani tutt’altro che cicale, sono formiche che sostengono molte cicale estere’

“Gli italiani sono tutt’altro che cicale, come una distorta pubblicistica tende a sostenere, mentre sono formiche che lavorano per sostenere molte cicale estere, anche quelle di paesi che hanno un ben differente rilievo economico, come il Canada, gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Belgio, la Francia e la gran parte dei paesi sudamericani. Ciò è valido guardando sia alle consistenze, sia ai flussi annuali di risparmio dei paesi citati”. Così Paolo Savona, presidente della Consob, nel suo discorso in occasione dell’incontro annuale della Consob con il mercato finanziario.“Nella prima parte del 2020, nonostante la gravità della pandemia Covid‐19 e i timori degli effetti sull’economia, il risparmio ha reagito positivamente, ricomponendo gli investimenti a favore della moneta in linea con le ben note reazioni degli investitori alle incertezze. Le manifestazioni più gravi si sono avute nelle borse valori, che sono state fronteggiate da efficaci politiche di sostegno monetario e fiscale; tuttavia, tali interventi hanno ulteriormente accresciuto la dipendenza dei mercati finanziari dalla politica monetaria, allentando le relazioni tra i prezzi che in essi si formano e gli andamenti reali – ha continuato Savona – La perdita di valore delle azioni quotate nella borsa italiana è stata in linea con quella registrata dalle borse estere, anzi è stata leggermente inferiore a quella delle borse europee; la tendenza è verso il recupero delle quotazioni vigenti prima dello scoppio della crisi sanitaria. Anche i Fondi comuni di investimento italiani hanno reagito molto meglio di quelli del resto del mondo, dove sono stati registrati casi di mancato rimborso dei riscatti delle quote”.

Consob, Savona: ‘Italia non è problema finanziario’. La proposta: ‘Btp irredimibili come in fasi belliche’

“La conferma che la posizione finanziaria con l’estero dell’Italia resta in sostanziale pareggio, ribadisce quanto sostenuto lo scorso giugno: il nostro Paese non rappresenta un problema finanziario per il resto dell’Europa e del mondo ma una risorsa di risparmio a cui l’estero attinge in diverse forme per la sua crescita”. Così Paolo Savona, presidente della Consob, nel suo discorso in occasione dell’incontro annuale della Consob con il mercato finanziario.“All’Italia non mancano solide fondamenta reali, ma scarseggia la loro giusta considerazione”, ha spiegato Savona.“Il risparmio italiano – ha fatto notare l’ex ministro agli Affari europei del primo governo Conte – ha mostrato storicamente una forte resilienza agli shock, collegandosi alle esportazioni e dando vita a un centro rilevante di sua formazione nel saldo attivo di parte corrente della bilancia con l’estero. In passato si è ritenuto che il carro dello sviluppo fosse trainato dalla domanda interna e dalla spesa pubblica, ma è emerso che il traino proviene da due componenti a esse interne – la domanda estera e la disponibilità di risparmio – alle quali va destinata specifica attenzione in attuazione del disegno di riforma dell’architettura istituzionale qui richiesta”.“L’importanza della fiducia negli equilibri del mercato finanziario è stata asseverata nel 2019 da una rilevante discesa dello spread sui rendimenti dei titoli di Stato, pur in presenza di una politica monetaria europea inizialmente più cauta e un lieve peggioramento del saggio di crescita reale. Gli analisti attribuiscono detto miglioramento al venir meno dei timori di un cambiamento di denominazione del debito pubblico per tornare a una moneta nazionale. La recente ampia oscillazione dello spread come conseguenza, prima, alle incertezze insorte a seguito della crisi pandemica, poi, al vigoroso intervento monetario, conferma la mutevolezza della fiducia, assegnando al compito di tenerla sotto controllo caratteristica di obiettivo prioritario dei poteri dello Stato. Questo sarà possibile se le autorità europee e le istituzioni sovranazionali contrasteranno le valutazioni distorte del mercato, come già stanno facendo per la stabilità dei debiti sovrani, sottolineando la rilevanza di più ampi e validi indicatori”.Per la precisione, Paolo Savona consiglia di agire in due direzioni: a) emettere obbligazioni pubbliche irredimibili (consols), strumento tipico delle fasi belliche, alle quali la vicenda sanitaria è stata sovente paragonata. Esse potrebbero riconoscere un tasso dell’interesse, esonerato fiscalmente, pari al massimo dell’inflazione del 2% che la BCE si è impegnata a non superare nel medio termine; b) agevolare la formazione di capitale di rischio in sostituzione dell’indebitamento.

Bankitalia: entrate tributarie calano ad aprile, dato risente effetto sospensione versamenti fiscali

Ad aprile le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 24,2 miliardi, in diminuzione del 20,4 per cento (-6,2 miliardi) rispetto allo stesso mese del 2019, risentendo della sospensione di alcuni versamenti fiscali disposta dai decreti “Cura Italia” e “Liquidità” e del peggioramento del quadro macroeconomico. Lo rende noto la Banca d’Italia nella pubblicazione statistica “Finanza pubblica, fabbisogno e debito”.Nei primi quattro mesi del 2020 le entrate tributarie sono state pari a 119,1 miliardi, in calo del 2,8 per cento (-3,4 miliardi) rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Bankitalia: debito pubblico, ad aprile sale a 2.467,1 mld

Torna a salire il debito italiano. Stando ai dati diffusi dalla Banca D’Italia, il debito delle amministrazioni pubbliche è aumentato di 36 miliardi di euro rispetto al mese precedente, risultando pari a 2.467,1 miliardi dai 2.431,1 miliardi di marzo.Bankitalia spiega che l’incremento riflette, oltre al fabbisogno del mese (17,7 miliardi), l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (16,8 miliardi, a 46,9); gli scarti e i premi all’emissione e al rimborso, la rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e la variazione dei tassi di cambio hanno nel complesso aumentato il debito di ulteriori 1,4 miliardi. Con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle amministrazioni centrali è aumentato di 35,1 miliardi, quello delle Amministrazioni locali di 0,8 miliardi e quello degli Enti di previdenza di 0,1 miliardi.Nella pubblicazione statistica “Finanza pubblica, fabbisogno e debito”, l’istituto guidato da Visco precisa che rispetto al mese precedente, la vita media residua del debito è rimasta costante a 7,4 anni. La quota del debito detenuta dalla Banca d’Italia è aumentata di 0,6 punti percentuali, al 18 per cento.

Cassa Integrazione, già da subito le ulteriori 4 settimane previste da settembre

Il governo prepara un Decreto Legge che permetterà di anticipare la possibilità di utilizzare le ulteriori 4 settimane di cassa integrazione d’emergenza in modo che le aziende che esauriranno le prime 14 settimane nei prossimi giorni possano fare uso delle ulteriori settimane senza aspettare il 1° settembre.“È in arrivo un Decreto Legge, a cui stiamo lavorando come Ministero del Tesoro, assieme al Ministero del Lavoro, per anticipare ulteriori 4 settimane alle aziende che hanno già esaurito le prime 14. Accompagniamo la ripartenza tutelando i lavoratori e le imprese”, ha scritto ieri sera su Twitter il Vice Ministro dell’Economia e delle Finanze, Laura Castelli. “L’accordo politico c’è – rimarcano in una nota, Roberto Gualtieri (ministro dell’Economia) e Nunzia Catalfo (ministro del Lavoro) -. Stiamo redigendo un decreto legge da portare a un prossimo Cdm”.Il Decreto Rilancio aveva aggiunto 9 settimane di Cassa Integrazione alle 9 già concesse a marzo; prevedeva però l’utilizzo scaglionato in due periodi: le prime 5 settimane itilizzabili appena esaurite le prime 9 e le ulteriori 4 settimane dal 1° settembre al 31 ottobre.

Sì al MES subito, il piano di Conte insieme a Spagna e Portogallo

La partita sul Recovery Fund è ancora tutta da giocare lo la prossima riunione del Consiglio europeo che probabilmente non sarà quella decisiva. Il governo Conte è in prima linea su questo fronte visto che l’Italia è la maggiore beneficiaria potenziale del Recovery Fund, ma nel frattempo la necessità di risorse in tempi brevi sta portando a valutare la richiesta del MES light, che porterebbe in dote circa 36 miliardi. Risorse senza condizionalità che l’Europa mette a disposizione per coprire spese sanitarie. Secondo quanto riferisce oggi Repubblica, l’esecutivo lo chiederà entro fine luglio assieme a Spagna e Portogallo e probabilmente anche qualche nordico dall’alto debito, ad esempio il Belgio.Il premier Conte avrebbe ricevuto il via libera di massima all’operazione MES anche da Luigi Di Maio e altri ministri 5S. Per accedere al MES, che è comunque nuovo debito anche se a tassi ultra agevolati, servirà un nuovo scostamento di bilancio.

Stati Generali, Visco: difficile prefigurare quale sarà la nuova normalità

Nel suo intervento di ieri alla prima giornata degli “Stati generali dell’Economia”, il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, ha dedicato un passaggio all’incertezza riguardante la capacità delle politiche di sostegno adottate nei diversi paesi di influenzare la fiducia e i consumi delle famiglie e le aspettative e gli investimenti delle imprese. “E’ assai difficile prevedere, in questa situazione, quante risorse saranno necessarie, come saranno impiegate e quale sarà il loro grado di efficacia”. “A un livello più profondo – aggiunge Visco – non sappiamo come e quanto l’esperienza della pandemia finirà per modificare i nostri comportamenti, le abitudini di consumo, l’allocazione del possibile aumento del risparmio precauzionale. Ci si chiede quali nuovi bisogni si affermeranno, quali consuetudini saranno definitivamente superate, quali saranno le conseguenze per l’organizzazione della società e dell’attività produttiva. Visco pertanto ritiene che prefigurare quali saranno i nuovi “equilibri” o la nuova “normalità” che si andranno determinando è molto difficile.

Contributi INPS da dichiarazione: quando si prescrivono?

I contributi obbligatori dei lavoratori dipendenti si prescrivono in 5 anni dalla data in cui dovrebbero essere versati.

di Elena De Rossi , pubblicato il 17 Aprile 2021 alle ore 19:02

Qual è il termine entro cui si prescrivono i contributi da versare all’INPS? Il versamento dei contributi previdenziali è un obbligo al quale devono adempiere sia i datori di lavoro, nei confronti dei dipendenti e dei collaboratori, sia i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, liberi professionisti).

Prescrizione Contributi INPS da dichiarazione per lavoratori dipendenti

I contributi obbligatori dei lavoratori dipendenti si prescrivono in 5 anni dalla data in cui dovrebbero essere versati.

Una volta trascorsi cinque anni non si possono versare i contributi oltre questo termine.

Il termine di prescrizione si allunga a 10 anni nell’ipotesi in cui il lavoratore o i suoi superstiti denuncino il mancato versamento dei contributi previdenziali.

Nel caso in cui il dipendente provveda a denunciare il mancato versamento dei contributi da parte dell’azienda, l’INPS ha la facoltà di procedere al recupero entro 10 anni dall’omissione.

Nel caso in cui l’INPS non proceda il termine di prescrizione si allunga.

Una volta che si verifica la prescrizione dei contributi previdenziali, l’INPS non può più richiederli e il soggetto debitore non li può nemmeno versare spontaneamente.

Prescrizione contributi previdenziali e rendita vitalizia reversibile

Nel caso in cui i contributi previdenziali risultino prescritti, il dipendente ha diritto al risarcimento dei danni da parte del datore di lavoro.

Il risarcimento può avvenire:

  • in modalità generica
  • in modalità specifica, tramite la costituzione di una rendita vitalizia reversibile.

La rendita vitalizia è una prestazione che ha la funzione di compensare la pensione, che sarebbe spettata in base ai contributi non versati.

Il quantum spettante deve essere accreditato sull’estratto conto nel periodo in cui i contributi previdenziali avrebbero dovuto essere versati in modo corretto.

Prescrizione Contributi INPS: come funziona l’interruzione?

Per procedere con l’interruzione della prescrizione dei contributi da lavoro dipendente, gli atti devono provenire dall’INPS e riportare il nominativo e i dati anagrafici del lavoratore che denuncia.

Inoltre, gli atti devono riportare l’ammontare dei contributi non versati e il periodo al quale si riferisce il mancato versamento.

Gli atti devono riportare gli estremi della denuncia e le sanzioni applicabili per la violazione.

Si ricorda che le denunce contributive mensili non interrompono la prescrizione dei contributi previdenziali.

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